SE PURE LE TASSE FOSSERO DIFFERENZIATE
PER IL SUD CI SAREBBE MAGGIORE EQUITÀ

di PINO APRILE – E se la tassazione fosse inversamente proporzionale alla quantità e qualità di servizi che si riceve dallo Stato? In questo modo, chi viene privato di diritti ad altri riconosciuti, avrebbe, come minimo, più risorse per procurarsi privatamente quanto lo Stato promette a tutti ma dà ad alcuni. Un tale correttivo indurrebbe a gestire le risorse pubbliche con più equità e frenerebbe la desertificazione del Sud e delle altre aree marginali, per la fuga di chi è messo in condizione di cercar altrove quello che gli viene negato soltanto a causa della zona di residenza.

E l’assurdo è che chi non ha la strada, l’ospedale, la scuola, il treno, l’aeroporto debba con le sue tasse e nella stessa misura degli altri, contribuire alla crescita dei benefici pubblici in favore di chi ne è già dotato.

Così, di fatto, si spostano risorse verso chi più ha, da parte di chi meno ha, costretto a finanziare un divario che può solo continuare a crescere e a pesare due volte su chi deve pagare per dare ad alcuni, a spese di tutti, i servizi che lui potrà avere solo a spese proprie. E se non può permetterselo, deve farne a meno: più di due milioni di italiani, per dirne una, hanno smesso di curarsi e l’attesa media di vita, al Sud, è crollata. Detto così, sembra il mondo freddo delle statistiche, in altre parole: è lo stesso diritto alla vita che ne risulta intaccato, indebolito, ridotto.

Un tale iniquo sistema riproduce, all’interno di uno stesso Paese, il rapporto coloniale fra chi sfrutta e chi è derubato di quello che è suo o gli spetta. E magari, ce la raccontano pure al contrario: sapete la storiella del Mezzogiorno popolato di ladri e fannulloni che drena ricchezza prodotta al Nord? Peccato la storiella non spieghi come mai il ladro sia sempre più povero e il derubato sempre più ricco (soprattutto di infrastrutture, allocazione di aziende pubbliche il cui fatturato appare come frutto della laboriosità nordica, eccetera).

Tacendo che mentre i meridionali versano nelle casse statali un quarto delle entrate annue, la spesa pubblica al Sud è inferiore, anche di sei punti percentuali. Una differenza che viene spesa altrove. Quindi: chi finanzia chi? E questo vale non soltanto per il Mezzogiorno, ma pure per le aree interne (si pensi alla Dorsale appenninica) e marginali.In totale è circa il 70 per cento del territorio nazionale, con oltre metà della popolazione.

Così, mentre nelle zone del Paese “di ricezione” si è ormai a investimenti pubblici a perdere, pur di far circolare soldi (e mazzette, visti gli scandali), persino per infrastrutture inutili o dannose, quali certe autostrade che per aver un po’ di traffico premiano gli automobilisti, nelle zone “di estrazione” delle risorse, interi paesi sono svuotati, abbandonati, per assenza di servizi o perché l’unica strada di accesso è franata o impraticabile da anni e non ci sono soldi per riattarla.

Il divario fra le zone del troppo che stroppia e del troppo poco è tale che la tassazione di tutti allo stesso modo si configura come un furto a beneficio di pochi e un rapporto coloniale.

Consideriamo tre italiani che abbiano lo stesso reddito, quindi paghino le stesse tasse, ma vivano uno a Matera, uno a Macerata, uno a Milano. Quello di Matera non ha le autostrade e le ferrovie dello Stato e gli altri sì (pagate da tutti); quelli di Matera e Macerata non hanno l’aeroporto (anzi: gli aeroporti) che l’altro ha, né la stessa disponibilità di ospedali, scuole e università. E non serve continuare l’elenco.

Questo si traduce in un aumento del reddito del milanese, che può usufruire di servizi ottimi a costi moderati o quasi nulli, in un taglio del reddito per il maceratese e una vera e propria mazzata per il materano, considerate le spese che deve sostenere per curarsi, spostarsi, studiare, lavorare.

E ancora peggio stanno gli italiani che vivono nelle zone più isolate e meno raggiungibili e, per questo, desertificate, con una colossale perdita di ricchezza per l’intero Paese (basterebbe anche solo considerare il crollo di valore di case ed edifici bellissimi, storici, architettonicamente pregiati, ma lasciati andare in malora, perché nessuno li vuole più, essendo troppo disagevole e costoso vivere dove non ci sono servizi).

Sulla carta, pur se hanno gli stessi diritti e lo stesso reddito, di fatto, alcuni italiani pagano perché altri abbiano quanto a loro è negato. La parità di reddito, quindi, è solo apparente, ed è ingiusto che paghino le stesse tasse. Che andrebbero calibrate, invece, sull’effettivo godimento dei diritti per i quali quelle tasse vengono richieste. Equità vorrebbe che si definisse un metro per ridurle in proporzione alla ridotta possibilità di accedere a diritti riconosciuti e non goduti. In tal modo, l’apparente parità di reddito diventerebbe un po’ più vicina al vero.

Non hai il treno? Le tue tasse calano di tot. Non hai un ospedale raggiungibile nel tempo ritenuto non superabile dai Lea, livelli essenziali dell’assistenza? Giù di un altro tot. Non hai lo scuolabus o proprio la scuola a distanza accettabile? Ancora meno un tot. C’è possibilità che, togli questo, togli quello, si giunga a pagare tasse zero.

Per le aree peggio messe, estremamente marginali, si potrebbe scendere a “tassazione negativa”: vuol dire che invece di pagare allo Stato per servizi che non si hanno, si riceve dallo Stato una equa integrazione di reddito, per procurarseli diversamente e porsi alla pari con gli altri italiani. Proposte di questo genere già vengono sostenute (per esempio dall’ex dirigente dell’Agenzia delle entrate che si è pre-pensionato per divenire una sorta di difensore civico dei contribuenti, Luciano Dissegna); e, in alcuni casi, ci sono forme di de-tassazione di fatto in paesini in via di estinzione, in cui si offrono incentivi in denaro, alloggi e altri incentivi a giovani coppie disposte a trasferirvisi.

La riprogrammazione delle tasse sulla quantità e qualità dei servizi (diritti) di cui si può davvero godere, da una parte porrebbe alla pari i contribuenti, dall’altra renderebbe conveniente tornare a vivere in borghi belli e scomodi. E se poi arrivassero lo scuolabus, l’ospedale, il treno e le tue tasse salissero in proporzione, di fatto non ci sarebbe una variazione effettiva di reddito.

Ma la tassazione differenziata secondo i diritti effettivamente goduti, se pur assolvesse al dovere di equità da parte dello Stato verso i cittadini, ovunque risiedano, non comporterebbe costi ulteriori per le casse pubbliche? Non è detto: intanto, perché il patrimonio nazionale verrebbe incrementato dalla crescita di valore edilizio di abitati non più in abbandono, ma ben tenuti, appetibili; poi, il moltiplicarsi di economie locali attiverebbe una rete mercantile periferica oggi in estinzione; infine, il territorio reso fragile e improduttivo dalla desertificazione tornerebbe curato e a rendere. E sono solo alcuni dei vantaggi più immediati ed evidenti del recupero di interesse per un modo di abitare tipico del mondo mediterraneo e del nostro Paese in particolare.

Un tale provvedimento sarebbe l’esatto contrario dell’Autonomia differenziata con cui si mira a incrementare la spesa pubblica dove già è massima, a danno delle aree in cui è quasi assente. Mentre l’Autonomia differenziata spacca l’Italia, la tassazione differenziata secondo i diritti ne rimetterebbe insieme i pezzi e la rinsalderebbe. In più mostrerebbe la relazione diretta fra le tasse e la loro ragione di esistere: volendosi illudere, questo potrebbe ridurne anche l’evasione. (pa)

DAR MENO SOLDI AGLI INSEGNANTI AL SUD?
RIDUCIAMO I COMPENSI AI PARLAMENTARI

di PINO APRILE – Pagare meno gli insegnanti al Sud? Cominciamo dall’alto: riduciamo i compensi ai parlamentari meridionali: anche loro vivono nel Mezzogiorno. E se ci sono presunte ragioni obiettive per pagare meno dei lavoratori che sono già fra i peggio retribuiti d’Europa, figurati se quelle ragioni non sono buone per abbassare i compensi dei parlamentari più pagati d’Europa, pur se terroni.

Che però, facendo parte della maggioranza di governo (quando la maggioranza era un’altra non era diverso) hanno votato l’ordine del giorno proposto dalla Lega (il cui segretario nazionale ha una condanna per razzismo contro i meridionali), per chiedere che gli insegnanti siano pagati di più al Nord. La scusa è che a Sud la vita costa meno (ma se vai ad analizzare davvero le cose, scopri che è falso). In realtà, il lurido disegno della Lega (che sempre Lega-Nord è; pur se con il sostegno ascaro di kapò meridionali) è più sottile: si comincia con gli insegnanti, per poi estendere il criterio, “per giustizia, equità”, a tutti i dipendenti pubblici. E avrebbero così raggiunto lo scopo di un’Italia con diritti differenziati.

Questo hanno votato parlamentari eletti a Sud! Alcuni lo avranno fatto senza manco aver letto di cosa si trattava, per ottusa disciplina di partito. Ora che lo sanno, però, possono ritirare l’appoggio alla porcata, annunciando che non voteranno provvedimenti del genere, se saranno portati in aula. Ove, invece, lo avessero fatto consapevolmente, convinti, non possono limitarsi a questo, ma diano il buon esempio. Applichino lo stesso criterio ai loro emolumenti: se sei terrone, meno soldi. A cominciare da te.
Sono decenni che (con l’aiuto di ascari terroni e razzisti camuffati in ogni partito al Nord, sino al Pd) la Lega cerca di imporre una Costituzione con diritti disuguali, sul modello del Sudafrica prima della civilizzazione a opera di Nelson Mandela. Lì, diritti decrescenti con il colore della pelle dal bianco al nero, qui con la latitudine, da Nord a Sud. La scelta di iniziare dagli insegnanti è furbissima: al Nord scarseggiano e dal Sud, potendo, evitano di andarci, perché tocca far fronte a una serie di spese che non ha chi resta al paese suo e dove, quasi sempre, si lascia la famiglia. Quindi, due case, più i viaggi, costi doppi. La proposta di alzare i compensi al Nord, così, sembra andare incontro proprio alle difficoltà degli insegnanti meridionali fuori sede, nelle regioni più ricche, “dove la vita costa di più”. Davvero?
Vi ricordo che quelle statistiche son spesso fatte con trucchi indegni, per esempio non prendendo prodotti dello stesso prezzo e della stessa qualità a Nord e a Sud; considerando soglie di povertà più alte a Nord; oppure, valutando degli indici in modo ingannevole: qualche anno fa, un trio di docenti di qualche notorietà condusse “una ricerca” in base alla quale, a Crotone risultavano, “di fatto”, più ricchi che a Milano (peccato che l’emigrazione dica il contrario, ma questo è un dettaglio, cosa vuoi che importi ai prof). Poi si scoprì che avevano usato criteri come il prezzo dell’affitto di una casa di pari metratura a Crotone e Milano, dove le abitazioni hanno un costo imparagonabile. Trascurando che in Italia, almeno otto su dieci sono proprietari della casa in cui abitano o ci stanno gratis, perché ne hanno usufrutto, comodato d’uso (beni di famiglia).
Quindi, il valore vero da confrontare non era l’affitto che non pagano, salvo pochi, ma quello della casa che possiedono. E averne una di cento metri quadri a Crotone o a Milano fa una bella differenza, quanto a ricchezza. Al Nord, inoltre, grazie alla “spesa storica” con cui, dall’unificazione a mano armata a oggi, solo lì si investono fiumi di soldi pubblici (spesso sottratti al Sud), godono di servizi che al Sud non ci sono, dai trasporti alla sanità, all’istruzione. Vuol dire che se non c’è il treno per i pendolari, devi provvedere da solo, macchina e carburante. Se non hai trasporti pubblici urbani decenti, idem. E così per curarti, studiare, per l’asilo nido, la palestra. Quindi, a parte il fatto che le retribuzioni, in generale, sono già inferiori di quasi il venti per cento a Sud e, in alcuni settori, di circa il doppio, con quello che guadagni devi pagarti servizi che al Nord hanno buoni e quasi gratis. Il che significa avere, di fatto, una retribuzione ulteriormente decurtata.
Perché, se proprio si vogliono diversificare i compensi dei dipendenti pubblici, non legarli alla quantità e qualità di servizi che lo Stato dà o nega, direttamente o tramite enti delegati? (Trenitalia, ufficialmente, è una società privata. Ma con i soldi pubblici, cioè di tutti noi).
Non solo, ma il Mezzogiorno, per le scellerate e razziste politiche nazionali da oltre un secolo e mezzo, è la più vasta area europea con i più bassi redditi e i più alti indici di disoccupazione. Vuol dire che, con uno stipendio, a Sud, oltre a dover affrontare spese che a Nord non hanno, devono campare più persone che nelle regioni dove l’occupazione è più o meno il doppio e lavorano anche le donne (solo una ogni sette nel Mezzogiorno: la zona più depressa dell’intero mondo Occidentale, per questo). E invece di cercare di accrescere a Sud le opportunità di lavoro, specie femminile, assicurare quei servizi che mancano, mettere in condizioni di almeno sopravvivere chi non ha mezzi e occupazione, cosa votano questi parlamentari del Sud? Una richiesta per aumentare gli stipendi al Nord (dopo aver eliminato pure il reddito di cittadinanza. Tanto loro, i parlamentari, non sono interessati, perché satolli).
È stato un errore? Lo dicano. Sono convinti che questa sia la cura giusta? Allora facciano vedere come si fa: in quanto terroni, pur se senatori, deputati, si riducano i compensi e i privilegi. Mica solo in quelli vorremo essere alla pari con “i bianchi”! Forse è l’unico modo per far capire a questi le conseguenze delle loro azioni: che usino i treni su cui perdono tempo e pazienza tutti gli altri (se c’è il treno); si curino (vabbé, ci provino) negli ospedali e nei pronto soccorso in cui sono costretti a fare gli scongiuri tutti gli altri, i loro elettori; mandino i loro figli a studiare nelle scuole cadenti in cui rischiano i figli dei loro elettori, eccetera. Così, forse, maturano finalmente la sensibilità al differenziale di diritti Nord-Sud, a parità di legislazione e di tasse.
Oh, dimenticavo: aver approvato un ordine del giorno di quel genere è quasi niente. È una sorta di lettera di intenti al governo. Ma questo non può tranquillizzare, perché quel documento indica, appunto, l’intenzione della Lega Ku Klux Klan Nord, e complici di maggioranza, di volerlo fare e l’intenzione degli ascari terroni di farglielo fare. A frustare i neri nei campi di cotone erano altri neri; a tenere Etiopia e Somalia nella condizione di colonie italiane erano ascari somali ed etiopi al soldo dell’invasore; a condurre gli internati ai forni nei campi di sterminio erano altri internati.
«Caino», chiese il Signore, «dov’è Abele?». «Son forse io il custode di mio fratello?», rispose lui. (pa)

Da domani in libreria il nuovo libro di Pino Aprile

Si intitola La brigante bambina il nuovo libro del giornalista e scrittore Pino Aprile edito da Libreria Pienogiorno e disponibile da domani in tutte le librerie.

“La brigante bambina” narra la vicenda di Cerasella, costretta dagli eventi a farsi capobanda e a prendere la via del bosco, dove incontrerà altre formidabili combattenti, tutte alla testa di gruppi temibili. Una grande epopea, che restituisce dignità a una storia troppo a lungo misconosciuta.

Luisa ha sedici anni, è vivace, appassionata, gran conoscitrice dei poteri delle erbe, atavicamente allergica al sopruso. Capelli folti, lunghi sulle spalle, occhi grandi color della terra bagnata, profondi come due pozzi, e una bocca rosso ciliegia che fin dalla culla le ha dato in sorte il soprannome di Cerasella.

Quando da ragazzina sta per sbocciare donna, l’invasione del Regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito sabaudo per unificare l’Italia farà di lei una brigantessa, costretta dagli eventi a prendere le armi e la via del bosco, insieme al fratello e a un mite maestro, Antonio. Sarà la loro piccola banda a concepire il progetto di unire, sotto un unico comando e una sola strategia, tutte le formazioni sorte per contrastare l’occupazione militare. E sarà proprio lei, la più piccola di tutti, la Brigante Bambina, a guidare le peregrinazioni del gruppo in una terra devastata da un esercito invasore e da bande contrapposte, rivelando grandi doti di saggezza e di coraggio. Cosa non insolita, si vedrà, perché la guerra si farà tempo di emancipazione per molte donne: nella loro odissea fra formazioni di resistenti, i nostri incontreranno, alla testa di bande temibili, Michelina Di Cesare, la terribile Ciccilla e altre formidabili combattenti che la passione per i propri uomini e per la libertà ha portato ad unirsi alla lotta.

Con indimenticabili protagonisti che attraversano gli accadimenti di una storia per molti versi ancora misconosciuta, Pino Aprile dà vita all’epopea di un popolo e a un emozionante romanzo d’amore e libertà. (rrm)

“FARE” E NON “DEFINIRE” I LEP: SOLO COSÌ
SI PUÒ INIZIARE A PARLARE DI PARI DIRITTI

di PINO APRILE – Prima si fanno i Lep, i livelli essenziali (e uniformi) delle prestazioni (sanità, istruzione, trasporti…), e dopo l’Autonomia regionale (non differenziata). Ripeto: si fanno, non “si definiscono” i Lep o “si finanziano”.

Si fanno; ovvero: prima si mettono tutti gli italiani nella stessa condizione (stessi treni, stesse autostrade, stessi diritti all’istruzione, alla salute, al lavoro…) e poi si può pensare di porli in concorrenza nella gestione dei servizi da garantire ai cittadini “e vediamo chi è più bravo”. Chiaro, no? E semplice. Il contrario è barare, rubare, voler vincere facile: la sapete quella del campionato di pallanuoto nel lager nazista, “prigionieri contro alligatori”? È questo che hanno in mente i secessionisti arricchiti a spese di tutt’Italia e i razzisti.

E fingono di non capire: come grande concessione, il ministro leghista all’Apartheid (“alle Autonomie e alle Regioni”. Del Nord) offre alle tribù terroniche, che i Lep siano definiti in sei mesi (non ci sono riusciti il 22 anni, ora vogliono farci credere di sbrigarsela in 180 giorni), da una commissione furbescamente a maggioranza leghista (ovvero del partito retto da un condannato per razzismo); e, ove non ci si riuscisse (pare che si corra tale rischio!), si gira tutto a un commissario unico con il compito di far da solo quello di cui non è stata capace la “qualificata” commissione.
Tempo? Sei mesi, ferie e feste comprese; poi un decreto preparato da Calderoli e firmato da Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, trattata («Firma qua!») qual prestanome da falso condominiale, visto che il capo del governo può emettere decreti amministrativi, non leggi di rilievo costituzionale (non lo dico io, ma giuristi); quindi, un passaggio pro-forma in parlamento: zero diritto e possibilità di intervenire, solo votare sì o no a scatola chiusa, per approvare come gregge o cade il governo e si va tutti a casa! Fine della favoletta dell’estrema destra che raggiunge il potere e tenta di camuffarsi da partito conservatore, mostrandosi obbediente ai veri padroni del vapore, nazionali e no (tassare gli extra-profitti delle grandi compagnie dell’energia, come gridato da Giorgia Meloni pre-governo? No: bollette mostruose a famiglie e aziende, come prima; taglio di accise sui carburanti, come da Meloni e Salvini pre-governo? No: prezzi da strozzini alla pompa, come prima; eccetera).
E con questo, “definire i Lep”, il furbetto del Giambellino, Calderoli Roberto, pensa di liquidare la faccenda. Ma posto che davvero li definiscano (ripeto: in sei mesi, dopo 22 inutili anni), poi bisogna finanziarli: i servizi, dalla salute alla scuola eccetera, hanno un costo, vanno pagati. Con quali soldi? E qui Calderoli svicola, di fatto, nella sua bozza per l’Autonomia differenziata: in pratica, andrebbero finanziati, senza toccare il dippiù che da sempre le Regioni arricchite del Nord si prendono a spese del resto del Paese. Una presa in giro, perché soldi non ce ne sono: siamo in deficit.
E poni si riuscisse a ricavarne fra le pieghe di bilancio, si tratterebbe di qualche miliardo? Addirittura qualche decina? Sono tanti? Pochi? Sono nulla, visto che solo per i tre-quattro servizi essenziali più importanti (e in elenco ce ne sono 23, pur se non tutti con uso di Lep), di miliardi ne servono da 80 a 100, calcolò l’allora ministro incaricato Francesco Boccia. Quindi, ci vogliono fottere, ancora una volta, con il giochino delle tre carte padane.
Ma facciamo un salto nel mondo della fantasia e immaginiamo che davvero si disponga che i Lep vengano finanziati per come è necessario (dai cento miliardi in avanti, tutti insieme, al Sud, per i diritti sempre negati. Pozz’essere cecato chi nun ce crede). Potremmo sentirci finalmente garantiti e sarebbe soddisfatta la condizione “Prima il Lep”, poi l’Autonomia (non differenziata)?
I finanziamenti sono una certezza a Nord e volatili a Sud. Devo ricordare qualche esempio? Un governo Berlusconi stanziò 3,5 miliardi di euro per la realizzazione delle prime opere del Ponte sullo Stretto di Messina (ma a me piace chiamarlo, come suggerisce il professor Pasquale Amato: Stretto di Scilla e Cariddi); il governo cade, arriva Prodi, leva i 3,5 miliardi dal Ponte (lui è contrario) e li destina sempre a quell’area geografica, ma per strade dissestate e porti; il governo cade e torna Berlusconi: il ministro Tremonti toglie quei 3,5 miliardi da strade e porti di Sicilia e Calabria e li usa per abbuonare l’ici sulle case di lusso (una delle poche tasse sui ricchi).
E il miliardo per i ricercatori del Sud e le start-up (nuove aziende) da far sorgere sulle loro idee, stanziato dal governo Prodi? Con il governo Berlusconi lo stanziamento viene girato alle società di navigazione sul lago di Garda, per l’illuminazione del Veneto, l’industria delle armi bresciana, e altre urgenze nordiche. E i soldi per il Sud spesi per aiutare le aziende casearie emiliane, con l’acquisto di stato e di favore di centomila forme di parmigiano? E i 3,5 miliardi bloccati per il Sud, con legge, nel Fondo di Coesione? Il governo Renzi, per mano del ministro Graziano Delrio li sblocca cambiando la legge e li usa per incrementare l’occupazione al Nord, dove c’è il più basso tasso di disoccupazione, a danno del Sud, che ha il maggior indice europeo di senza lavoro. Devo continuare?
Quindi, “definire” i Lep non garantisce niente; “finanziarli” nemmeno; fare i Lep può garantire qualcosa, verificando cosa e quanto e come. Solo allora, a parità di diritti riconosciuti e ugualmente resi a tutti gli italiani e ai territori, di Autonomia (non differenziata) si potrebbe, forse, parlare. Questa è una cosa chiarissima, ma intorbidiscono le acque, per celare l’ovvio.
La determinazione e la spudoratezza con cui un partitino dell’8 per cento (in calo) lo fa, sono accentuate dall’imminenza delle elezioni regionali in Lombardia, dove il candidato della Lega è un ronzino zoppo: Attilio Fontana, il presidente della Regione che gestì peggio di tutti (non in Italia, al mondo, secondo il Los Angeles Time) la pandemia di covid-19, facendo riaprire gli ospedali infetti e liberamente andar via nel resto del Paese, dalle zone dei focolai, centinaia di migliaia di persone senza alcun controllo. In più, fallita la strategia della “Lega nazionale”, e mentre rischia la scissione guidata da Umberto Bossi, Salvini punta sull’Autonomia differenziata per rinverdire gli egoismi animali della Lega-Nord. Se perde le elezioni pure in Lombardia, non gli resta che cercare qualcosa che (come Bossi e altri) non ha mai conosciuto in vita sua: un lavoro.
Giorgia Meloni è ostaggio della disperazione leghista, del confuso attivismo del suo ministro all’Apartheid e delle balle senza ritegno dei sostenitori della Secessione dei ricchi, da Stefano Bonaccini, Pd, presidente dell’Emilia Romagna, a Luca Zaia, Lega, presidente del Veneto. Il primo continua a dire di non volere un euro in più di quanto già riceva la sua Regione e a sperare che la furbata passi non capita.
Il fatto è che proprio il criterio di suddivisione delle risorse nazionali seguito finora, la “spesa storica” (troppo, quasi tutto a poche regioni del Nord, e il nulla o poco più al Sud) è la causa dello squilibrio economico e geografico; ed è la “spesa storica” che i marpioni pigliatutto vogliono garantirsi con legge costituzionale: «Non chiediamo un euro in più», dice, senza vergogna, Bonaccini (Ma va’!); nella più recente delle interviste in ginocchio del Corriere della sera a Zaia, il presidente veneto, senza obiezioni da parte dell’intervistator cortese, spara castronerie galattiche, tipo: «Non ci sono regioni più ricche, perché hanno avuto di più» (no: quelle del Nord emersero dalle acque primordiali già con tutte le autostrade, le ferrovie, l’alta velocità, i Centri di ricerca, le pedemontane a costi da record mondiale a chilometro e non percorse da nessuno, le Olimpiadi invernali a costo zero e le Expo strafinanziate che chiudono in deficit…: mica roba pagata da tutti gli italiani; mentre le Ferrovie dello stato non sanno che esiste Matera, nei paesi del Sud non si arriva perché le strade sono franate, il Ponte sullo Stretto non si fa, perché c’è la mafia, che va bene, “imprenditoriale” solo al Nord…); oppure che l’Autonomia ci può «rendere un Paese bellissimo e con infinite risorse» (al Nord, ovvio, sottraendole agli altri), «moderno come il mondo ormai richiede».
Sì, Zaia, e sarà ogni giorno Natale, festa tutto l’anno, il leone e l’agnello giaceranno insieme (ma l’agnello non chiuderà occhio, se ricordate la battuta). L’altra carognata con cui vogliono rendere “logica” la pretesa dell’Autonomia differenziata è: noi (faccio un esempio semplificato) abbiamo scolari che finite le elementari, devono proseguire gli studi e serve costruire le scuole medie, perché non dovremmo avere (da tutti gli altri) i soldi per farle, solo perché al Sud sono analfabeti?
Il fatto è che le elementari, con i soldi di tutti, le hanno fatte solo al Nord e al Sud sono rimasti analfabeti; ora, quel vantaggio acquisito a danno dell’equità territoriale e della parità dei diritti, diviene un merito del ladro e una colpa del derubato, perché il primo continuerà a pretendere (vuoi fermare la locomotiva?) le scuole superiori, le università e il secondo sarà insultato per la sua ignoranza, mentre resta senza le elementari, perché non ci sono soldi per tutti e per tutto (ma quelli di tutti sempre agli stessi, sì). È così che al Nord progettano di farsi finanziare l’hyperloop (il treno monorotaia da 1.200 km all’ora), mentre al Sud son stati tagliati più di mille chilometri di ferrovia e città capoluogo di Provincia (non solo Matera) sono senza treni e per curarsi, studiare, lavorare, bisogna emigrare inseguendo i soldi rubati al Mezzogiorno.
Ma così quanto tempo ci vuole per metter tutti gli italiani a parità di diritti e condizioni? E che ne so: anni? Decenni? E a quando slitterebbe, così, l’Autonomia (non differenziata)? Non ne ho idea e me ne occupo: il mio problema è riuscire a diventare, dopo più di 160 anni, un cittadino italiano vero, non di serie inferiore.
Giorgia Meloni è finalmente (sogno della vita sua e dell’estrema destra) al governo del Paese, anzi, “della Nazione”; ma può restarci solo se non rompe con la Lega-Nord che la ricatta; e quindi deve assecondarla sull’Autonomia differenziata. Ma se passa quella porcheria, si rompe il Paese, anzi “la Nazione”, per eccesso di disuguaglianze (l’Italia è già il Paese più ingiusto del mondo) e perché il Sud, sempre più convinto che meglio soli che mal accompagnati, se non c’è parità di diritti e possibilità, comincia seriamente a considerare la secessione come l’unica via di uscita da uno stato coloniale. (pa)

SUD: IL PONTE, LA PRIMA INFRASTRUTTURA
SENZA NON PARTIRÀ MAI L’ ALTA VELOCITÀ

di PINO APRILE – Sono passati cento anni da quando Guido Dorso ha scritto La Rivoluzione meridionale ma stiamo ancora aspettando. Intanto si continua ad emigrare (due milioni in 20 anni) e il Nord continua a prosperare a spese del Meridione. È arrivato il momento di puntare su singoli obiettivi capaci di innescare un cambiamento reale, cominciando dal porto di Gioia Tauro e dall’attraversamento sullo Stretto.

Eppure era facile da capire: il futuro puoi costruirlo con quello che hai oggi e con chi c’è oggi. E se è poco e chi c’è non ti sembra o non è adatto, o cerchi di fare quello che si può nelle condizioni date o aspetti la gente e il tempo giusti per costruire il futuro migliore. A cui, però, potresti non arrivare; perché la controindicazione del futuro è che, mentre tu lo aspetti, quello passa. Era facile da capire, ma non per me, evidentemente (lo vedi che hanno ragione sui terroni, almeno alcuni?).

Il Sud e la condizione coloniale

Per trarre fuori il Sud dalla condizione coloniale a cui fu condannato con l’unificazione fatta a vantaggio di una parte del Paese (ancor oggi “autorevoli” esponenti bocconiani dell’egoismo padano, sostengono che L’Italia si salva ammazzando Napoli per ingrassare Milano), ci vorrebbero “cento uomini d’acciaio”: lo scrisse Guido Dorso, il grande irpino autore de La rivoluzione meridionale. Che morì nel 1947, a 55 anni, senza trovarli (infatti, la Questione meridionale sta ancora qui). Ho più di una copia del libro di Dorso (bellissima quella anastatica). È uno dei numi dell’Olimpo meridionalista. Che però è un Olimpo di morti delusi: grandissimi lottatori contro poteri sproporzionati, hanno perso lasciando un esempio di portata storica e una traccia indelebile.

Mo’, come faccio a dire che se aspettiamo che il Sud abbia i cento uomini d’acciaio siamo fregati pure noi? Fra quattro anni anni sarà un secolo dalla prima edizione de La rivoluzione meridionale: cent’anni, decine di milioni di terroni, manco un uomo d’acciaio all’anno… Poi dagli torto ai Vittorio Feltri che dicono siamo inferiori e ai meridionali evoluti, premiati con cattedre e contratti da editorialisti sui giornali del Nord, che spiegano tutto con la mancanza di “una classe dirigente” adeguata del Sud, e non “estrattiva” (ovvero: ladra. Anche se la classe dirigente del Nord, dà lezioni mondiali di “estrazione”).

La Questione meridionale

Il discorso porterebbe lontano. La formazione di una classe dirigente diversa e migliore dovrebbe produrla, nel Mezzogiorno, quella che sarebbe mandata a casa dalla nuova; o quella nazionale che con l’attuale “estrae” in perfetta armonia. E fosse pur possibile, si tratterebbe di una operazione “di lungo periodo” (magari per scoprire che non è riuscita). Una di quelle cose che fecero dire a un grande economista che “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Quindi, fermiamoci al dato: per eliminare la Questione meridionale cento uomini d’acciaio in cent’anni non si son trovati. Ne han trovati di legno, di ottone, di panna montata, moltissimi di bronzo, ma solo la faccia; di piombo (i culi: avvitati a poltrone) e pure di ferro, non solo lo stomaco come i più, ma tutti di ferro, indomiti e fieri (abbattuti, spesso, nel peggiore dei modi: da Chinnici a Falcone, Borsellino, Angelo Vassallo). Ma sempre meno di cento. Vogliamo spendere un altro secolo per continuare a cercarli? Sembra la fiaba di Gianni Rodari sull’uomo senza difetti che girò inutilmente il mondo per trovare un Paese senza difetti che meritasse uno come lui. Mentre, se si fosse fermato in uno qualsiasi per eliminare anche un solo difetto, non avrebbe sprecato la sua vita.

Sud ed emigrazione

Quindi, la faccenda si riduce a: perché non cercare cosa si può fare qui e ora, chi c’è, c’è? Il Sud ha perso più di due milioni di emigrati in vent’anni, alla media di centomila all’anno; e, stando alle proiezioni fatte dalla Svimez, va verso la desertificazione entro pochi decenni. Per capirci meglio: ogni giorno si svuota un quartiere di quasi 280 abitanti; ogni cinque minuti se ne va uno, 365 giorni all’anno, da vent’anni…

Persone valide, per le quali il Sud ha speso, perché fossero preparate (200mila di loro erano giovani laureati), forti e in grado, ovunque andassero, di rendere: ma ad altri, non a casa propria. Ed è stato calcolato che questo investimento perduto equivale a un esborso di 20 miliardi, che vuol dire poco meno di due milioni e mezzo all’ora, giorno e notte, per 365 giorni, da vent’anni; poco meno di 40 mila euro al minuto (due volte e mezzo il reddito annuo medio di un calabrese) regalati dalle regioni più povere alle più ricche d’Italia, d’Europa, del resto del mondo.

La classe dirigente al Sud

L’idea di svenarsi in gente e soldi per chissà quanti altri anni ancora, in attesa di classe dirigente e circostanze migliori rischia di essere troppo costosa, in ogni senso e di portarci verso il contrario di quel che speriamo, perché la fuga dei più preparati e coraggiosi (non solo disperati: l’emigrazione dei figli è di qualità ben maggiore di quella dei loro padri e nonni), priva il Sud del bacino da cui attingere una nuova classe dirigente. So che mette i brividi dirlo, ma va presa sul serio l’ipotesi che la classe dirigente che non ci piace e che, pur di non averci a che fare, ci indurrebbe a star fermi un giro, potrebbe essere migliore di quella che verrà dopo. Ci auguriamo tutti (va be’…, quasi) il contrario, ma quanto accaduto finora depone più per questa possibilità (al ministero degli Esteri siamo passati da Aldo Moro a Luigi Di Maio; a occuparsi di economia c’era un Carlo Azeglio Ciampi, oggi tal Giorgetti Giancarlo allo Sviluppo economico; e, salvo qualche eccezione, tipo lo stesso capo del governo, Mario Draghi, la tendenza è a perdere, non a crescere).

Classe dirigente non sono solo i politici, ma imprenditori, docenti universitari e no, giornalisti, avvocati, preti, medici, professionisti… Insomma, tutti quelli nelle cui mani, in un modo o nell’altro, sono le sorti della comunità, i suoi soldi, i sentimenti, le paure, le speranze, il racconto del passato, la guida del presente, la costruzione di futuro.

La classe dirigente meridionale è succube di quella nazionale, da cui spesso dipendono carriere e affari (un politico troppo meridionalista non ha domani nei partiti nazionali; chi aspira ad avere una cattedra all’università è bene che sposi teorie economiche e versione storica in salsa sabaudo-padana o si vedrà sopravanzato dal terrone “ragionevole”; e così via. La nostra classe dirigente, quindi, per raccattare le briciole, non solo deve piegarsi (e lo fa, di norma), ma dividersi. I singoli dirigenti del Sud ottengono per sé, a spese della comunità meridionale e non solo non vengono giudicati come meriterebbero per questo, ma è proprio questo che li rende riconoscibili come “potere”, sia pur delegato, e capi-clientela.

Sud e infrastrutture

C’è un solo modo perché il Mezzogiorno esca da questo stato di subordinazione: agire da blocco unico su temi specifici (ognuno per le sue ragioni e persino interessi, se non sporchi). Facile da dire, ma quasi impossibile da fare, perché se “chi fa cosa” diventa più importante di cosa si fa, il potere di impedire che altri facciano vale più del potere di fare. E per il veto reciproco fra pezzi del Sud, il Sud resta senza Ponte sullo Stretto, senza alta velocità, senza ferrovia sull’arco jonico, senza autostrade decenti che colleghino il Sud con il resto del Sud, con i porti migliori d’Italia tenuti vuoti, per favorire quelli del Nord…

A questo punto, perché non individuare delle opere trainanti dell’intera economia meridionale e tentare di agire come forza politica territoriale per realizzarle? E non si può che cominciare dalla Calabria, perché è la regione peggio messa di tutto il Sud, ma soprattutto perché è geograficamente la chiave di volta dello sviluppo dell’intero Mezzogiorno. È stato più volte spiegato che costruire il Ponte sullo Stretto (pur se i posti di lavoro generati non fossero davvero centomila), obbligherebbe a fare i collegamenti ferroviari e stradali veloci fra Sicilia e la Calabria, attivando finalmente il “corridoio Helsinki-Malta” che l’Europa chiede dal 1976: una arteria di commerci e turismo, di valore incalcolabile. E si renderebbe non più tollerabile il “sacrificio” imposto dall’egoismo padano al Sud di non far funzionare i porti meridionali, per non toglier traffico ai più lontani e scomodi di Genova e Trieste.

Qualche tempo fa, si calcolò che con il solo funzionamento a pieno regime del porto di Gioia Tauro (l’unico, in Italia, che ha già i fondali per l’attracco delle supernavi, mentre per poter mettere Genova alla pari si potano le tasche degli italiani di un paio di miliardi) potrebbe attivare una economia tale da risolvere la Questione meridionale. Non calabrese: meridionale.

La posizione di Occhiuto

Il neo-eletto presidente della Calabria, Roberto Occhiuto ha fatto intendere che non perde tempo, vuol decidere, fare e non lasciarsi imbrigliare dai balletti degli equilibri partitici. Se questo prelude a scelte forti, condivisibili, utili alla crescita della Calabria e del Sud, forse dovremmo diventare tutti maoisti: «Non mi importa che il gatto sia bianco o nero, se acchiappa il topo». Le prime cose che ha detto sono state: Sanità da risanare e via il commissario devastatore governativo, Ponte sullo Stretto e porto di Gioia Tauro. Beh, e cos’altro avrebbe dovuto dire? Un po’ come «La pace nel mondo» delle concorrenti al titolo di Miss Italia.

Ma il giorno dopo era a Roma, dal ministro della Sanità. Un segnale per dire: faccio sul serio. Poi, però (segnale opposto), per sostenere il candidato sindaco di destra a Cosenza, fa intendere che la Regione da lui presieduta potrebbe negare finanziamenti a città governate da giunte di altro colore. E perché non tentare una controprova? Le forze politiche, le associazioni imprenditoriali, i sindacati, insomma, la classe dirigente calabrese, senza che questo significhi convertirsi occhiutiani, si propongano di agire, ognuno nel proprio ambito e con la propria identità, per uno scopo condiviso e il compito della dirigenza (in senso larghissimo) regionale diventi:la costruzione del Ponte, con le linee di collegamento veloci ferroviarie e stradali;l’inclusione del porto di Gioia Tauro fra gli scali delle rotte della seta e delle supernavi, magari in connessione con quello di Corigliano Rossano, completando la bretella Tarsia-Jonio dell’autostrada; il che porrebbe i porti calabresi in rete con quelli siciliani.

La Calabria e la voglia di riscatto

Partirebbe dalla Calabria la svolta per il Sud, la rincorsa per la ripresa italiana: proprio quello che ha chiesto l’Unione Europea al nostro Paese, e per cui ha stabilito di destinare all’Italia, con il Next Genetion EU (o Recovery Fund), il doppio dei soldi, pro-capite, rispetto a tutti gli altri europei. Avremmo l’appoggio di Bruxelles, dei Paesi nord-europei; il governo avrebbe modo di sottrarsi alle pretese dell’egoismo padano e confindustriale e di fare, persino non volendo, la cosa giusta.

Si può fare. Si deve fare. E i calabresi hanno un’ottima alleata: la disperazione. (pap)

PS: nel tempo di lettura di questo articolo, sono andati via altri 2-3 meridionali e il Sud ha perso altri 100mila euro e più.

[Pino Aprile, giornalista e apprezzatissimo scrittore di  problemi del Mezzogiorno, è direttore de LaC24News]

[courtesy LaC24News]

LA BEFFA DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
RITORNA NEL DOC FINANZA DEL GOVERNO

di  PINO APRILE – La solidità del governo Draghi viene puntellata lasciando mano libera alle Regioni più ricche, per svuotare la cassa statale e sottrarre ulteriori risorse al Sud; per questo, quasi clandestinamente (una “nota aggiuntiva” inserita non si sa ancora da chi, nel Def, Documento Economia e Finanza del governo), perché possa essere approvata con un atto di forza contro il Parlamento, è stata rimessa sui binari l’Autonomia differenziata: quella aberrazione costituzionale per cui i diritti degli italiani non devono più dipendere dal fatto di essere cittadini di questo Paese, ma dalla ricchezza del territorio in cui vivono. Quindi: privilegi al Nord, con i soldi di tutti, e servizi essenziali (dalla Sanità all’Istruzione, ai trasporti…) scadenti o negati al Sud. Se questa porcheria dovesse andare avanti, Mario Draghi farebbe al Mezzogiorno qualcosa di simile e forse di peggio a quello che, anche e soprattutto “grazie” a lui, è stato fatto alla Grecia, trasformandola in una colonia della Germania (le banche tedesche e francesi, troppo esposte, sono state risarcite a spese degli europei, calpestando la Grecia).

È pazzesco ma non inedito che (almeno per ora?) non si debba sapere chi ha infilato l’Autonomia differenziata nel Def. Altrettanto folle pensare che uno scempio costituzionale di tale portata possa passare senza poter essere discusso, se il governo dovesse porre la fiducia. Ma più inaccettabile ancora sarebbe vedere i parlamentari del Sud approvare una normativa che introdurrebbe in Italia l’apartheid abolita in Sud Africa: lì per la differenza di diritti, sancita dalla Costituzione, fra cittadini di serie A, perché bianchi, e di serie B, perché neri; qui, perché del Nord e del Sud o, visto il declino di altre regioni, dall’Umbria alle Marche, perché più ricchi o più poveri.
Quanto accaduto finora, purtroppo, non induce a ben sperare. Anche se, nel 2018, l’Autonomia differenziata stava per essere varata dal governo Lega-Movimento 5 stelle (dopo che il precedente governo Pd di Paolo Gentiloni aveva sbloccato la procedura, firmando, a tempo e governo scaduto e con scorrettezza istituzionale sconcertante, il “patto” con le Regioni pigliatutto: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna); la cosa sembrava fatta: non passò, perché un piccolo ma sufficiente numero di senatori, quasi tutti dei cinquestelle e meridionali, annunciarono che non avrebbero votato una tale schifezza.

L’allora vice primo ministro Di Maio comprese, quasi all’ultimo minuto, di quale disastro si trattava (per essere più precisi, diciamo che si ebbe l’impressione che lo avesse compreso: trattandosi di Di Maio, meglio evitare certezze…).

Allora, il governo si reggeva su una maggioranza risicata; oggi sull’unanimità, meno Fratelli d’Italia. E l’infame disegno dell’apartheid all’italiana (che persino alcuni presidenti di Regione del Sud sarebbero disposti a sostenere, per disciplina di partito, sudditanza psicologica, ignoranza o illusione di gestire qualche briciola di potere in più) può essere fermato soltanto con la protesta e la defezione in massa dei parlamentari meridionali, soprattutto al Senato.

Certo, lo spettacolo cui si assiste è sconfortante: la gran parte dei nostri parlamentari (e politici in generale), dell’Autonomia differenzia e di ben altro, se pensiamo alla loro inconsistente presenza nel dibattito sull’impiego dei soldi del Recovery Fund, non sa nulla, o sa poco e male; o sa quel che gli dicono i capi del partito (che sono quasi sempre del Nord o come lo fossero): guardate cosa fa la ministra che sulla carta sarebbe per il Mezzogiorno, Mara Carfagna. Potrebbero almeno leggere quanto scrivono, con ammirevole chiarezza, cristianoni come i professori Adriano Giannola, presidente della Svimez (l’associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno), il professor Gianfranco Viesti, il costituzionalista Paolo Maddalena e tanti altri. Non è difficile, a meno che non si tratti di ignoranza voluta o persino ostentata, per non dover agire di conseguenza, esporsi..

Per capire la differenza: Salvini disturba un pò troppo il timoniere Draghi, giocando a fare la Lega di governo (capofila Giancarlo Giorgetti) e opposizione (no-vax, quasi no-vax, sì-vax, green pass no, sì, ma non per tutti, ristoranti all’aperto, e non solo all’aperto…); ecco che scoppia il caso Luca Morisi, suo braccio destro con qualche problema di droga e la lettura che ne abbiamo è: la Lega di governo (che include i presidenti di Regioni forti come Lombardia e Veneto), in cambio della defenestrazione di Salvini, ottiene da Draghi che l’Autonomia differenziata torni in pista.

Riassunto: il Nord si vende pure i suoi leader per arricchire il territorio.
I parlamentari del Sud votano la rapina del PNRR, Piano nazionale ripresa e resilienza, che sottrae al Mezzogiorno dal 30 al 60 per cento dei soldi che spetterebbero, secondo i criteri europei di ripartizione; che lo facciano per ignoranza o bieco calcolo, così risultano “affidabili”, potranno essere ricandidati o persino aspirare al ministero per il Mezzogiorno.

Riassunto: il Sud, per salvare i leader, svende e impoverisce il territorio. È una storia vecchia; accade quasi ovunque si abbia una condizione di minor potere dei singoli e coloniale del territorio. Da noi dura da più di un secolo e mezzo, salvo brevissimi periodi subito dopo il Novecento e dopo la seconda guerra mondiale. Quale che sia il prezzo da pagare e quale che sia l’emergenza nazionale, c’è una certezza: sarà il Sud a pagarlo e a essere accusato di ricevere oltre i meriti. L’unificazione venne fatta con il sangue e i soldi dei meridionali; l’industrializzazione del Nord fu fatta distruggendo quella del Sud (macchine e appalti trasferiti al Nord; altiforni distrutti; i soldati a sparare sulle maestranze che protestavano contro la chiusura di aziende modello “ma” meridionali, vedi quella meccanica di Pietrarsa, la più grande d’Italia); società del Sud escluse dalle gare di appalto governative (clamorosa quella per il servizio postale marittimo, anche se la migliore compagnia era napoletana).

La prima guerra mondiale vide il Sud svenarsi in soldi per alimentare l’industria bellica padana e pagare il più alto tributo in vite umane (le truppe terrone erano impiegate quale carne da macello, come le altre, ma più delle altre, e lo testimoniano le percentuali di caduti in rapporto ai totali). Dopo la seconda guerra mondiale, i soldi del Piano Marshall destinati al Sud furono rastrellati dalle regioni del Nord, specie dalla Lombardia (che quanto a leader, parliamone; ma quanto a lader non la batte nessuno!).
Fu Gaetano Salvemini a dire che c’è sempre una ragione per cui il Sud debba essere rapinato a vantaggio del Nord, e fece un elenco che ancora oggi impressiona. Ma il metodo non cambia, se le multe europee per le truffe degli allevatori padani le hanno pagate con i miliardi destinati a fare strade e altre infrastrutture a Sud, se l’emergenza del terremoto dell’Aquila è stata finanziata solo con soldi per il Mezzogiorno e il blando terremoto dell’Emilia da tutti gli italiani, con accise quattro volte più alte sui carburanti…

E oggi si tocca il massimo con il saccheggio dei fondi del PNRR; mentre quanto è stato programmato con l’Autonomia differenziata dovrebbe, per violenza e dimensioni, portare alla divisione del Paese: la “Secessione dei ricchi”, la definì Viesti, nell’appello firmato da 60 mila persone, fra cui centinaia di docenti e intellettuali.
Agli scettici e a quanti sottovalutano il rischio, val la pena ricordare che Luca Zaia, con il referendum per l’Autonomia differenza, voleva si svolgesse anche quello per l’indipendenza del Veneto. Che non si fece, solo perché la Corte Costituzionale lo bocciò. Ma dopo lo scontatissimo esito del referendum ammesso (“volete altri soldi che fottiamo ai terroni”? Ovviamente, scritto in modo più fumoso), Zaia condusse i festeggiamenti che si conclusero con un urlo e una promessa: «E ora indipendenza».
Ecco, il primo passo è stato messo da mano ignota (e quando non si sa chi è la mamma, come sapete, si sa cos’è il figlio…) nel Documento Economia e Finanza del governo. Mentre a Sud, chi dovrebbe far fuoco e fiamme, si occupa di altro. O, vedi le elezioni calabresi, solo di se stesso.

[Pino Aprile, giornalista e scrittore, autore di fortunati volumi sul Mezzogiorno “rapinato”, è direttore de LaC24News]

[Courtesy LaC24News]

SCOPPIATA L’EPIDEMIA DI MERIDIONALITE
E I LEADER FANNO GARA DI “CALABRESITÀ”

di PINO APRILE – È scoppiata una epidemia di meridionalite. Ora, dando per scontato che siano tutte conversioni vere, folgorazioni sulla via di Matera (in treno, magari), qualche furbacchiotto che si terronizza al volo per convenienza ci sarà, per pura osservazione statistica (nel nostro universo, quantisticamente, tutto è più o meno probabile, niente certo). Quindi, cosa sta succedendo, e perché?

Eugenio Bennato, come al solito, per quel che riguarda il sentire del Sud, aveva capito e predetto tutto già nella sua Grande Sud, Sanremo 2008: «E sarà quel racconto/ E sarà quella canzone/ Che ha a che fare coi briganti/ E coi santi in processione/ Che ha a che fare coi perdenti/ Della civiltà globale/ Vincitori della gara/ A chi è più meridionale».

E se oggi la gara dei perdenti a chi è più meridionale vede prevalere folle di disperati dall’Africa e profughi dalle guerre dell’Est, fra i terroni propriamente detti c’è la gara fra chi è “veramente meridionalista”, o “più meridionalista”. Se lo fanno, vuol dire che la cosa conviene, rende. Per comprenderlo, non si deve far caso allo spessore (‘nzomma…) umano e politico di tanti volenterosi comprimari in cerca di sistemazione, perché è proprio la migrazione a orologeria degli opportunisti che segnala se un fenomeno politico, sociale, culturale è in crescita o in calo.

Ci sono veri e propri professionisti del salto della quaglia; in politica la cosa è più evidente: lo vedi dai cambi in corsa e dalle strategie; a volte, vince chi per primo lascia il gruppo che appare ancora forte, ma sta per franare (hanno antenne sensibilissime gli opportunisti…), mentre chi migra quando la crisi è ormai palese, vale meno sul mercato, perché la concorrenza è tanta e gli approdi possibili sempre più scarsi. Altre volte (vedi il governo che si regge con pochi voti di maggioranza), vince chi cambia per ultimo e all’ultimo minuto, quando quel voto in più diviene il più prezioso.

E se oggi la gara dei perdenti a chi è più meridionale vede prevalere folle di disperati dall’Africa e profughi dalle guerre dell’Est, fra i terroni propriamente detti c’è la gara fra chi è “veramente meridionalista”, o “più meridionalista”. Se lo fanno, vuol dire che la cosa conviene, rende. Per comprenderlo, non si deve far caso allo spessore (‘nzomma…) umano e politico di tanti volenterosi comprimari in cerca di sistemazione, perché è proprio la migrazione a orologeria degli opportunisti che segnala se un fenomeno politico, sociale, culturale è in crescita o in calo.

Ci sono veri e propri professionisti del salto della quaglia; in politica la cosa è più evidente: lo vedi dai cambi in corsa e dalle strategie; a volte, vince chi per primo lascia il gruppo che appare ancora forte, ma sta per franare (hanno antenne sensibilissime gli opportunisti…), mentre chi migra quando la crisi è ormai palese, vale meno sul mercato, perché la concorrenza è tanta e gli approdi possibili sempre più scarsi. Altre volte (vedi il governo che si regge con pochi voti di maggioranza), vince chi cambia per ultimo e all’ultimo minuto, quando quel voto in più diviene il più prezioso.

Insomma, il salto della quaglia è una vera e propria arte, una professione. In fondo, si tratta di imitatori e parassiti di idee altrui; cosa che riesce molto più facile quando non si rischia di essere confusi dalla presenza di opinioni proprie, se non quella di essere comunque e sempre sulla cresta dell’onda, di qualunque genere sia l’onda. Le loro peregrinazioni vanno osservate e studiate, perché fanno surf fra le correnti del potere via via dominante, anticipandole. Si impara.

A volte, ci si limita a far proprie idee altrui, frasi, proposte; quindi, non cambiando campo, ma portando nel proprio quello che funziona altrove. Una sorta di appropriazione indebita di pensiero, che viene aggiunto senza radici a quanto, magari, è addirittura all’opposto: la Lega paladina dei diritti dei terroni, per dire; o un esempio che che mi tocca da vicino: il concetto di equità territoriale è alla base e nel nome di un Movimento politico sorto due anni fa, sulla scorta di miei scritti e riflessioni, e della volontà, dell’iniziativa e della condivisione di centinaia di persone (divenute presto migliaia).

In fondo, non è che una richiesta e una azione per ottenere quanto già stabilito dalla Costituzione e mai applicato: a tutti i cittadini le stesse opportunità, gli stessi diritti, la stessa considerazione. La più vasta area del continente europeo in cui questo principio di civiltà è violato è il Mezzogiorno d’Italia. Quindi, l’equità territoriale contiene il meridionalismo (inteso come il movimento storico, culturale e politico per eliminare la Questione meridionale, ovvero la discriminazione ultrasecolare a danno del Mezzogiorno, privato di strade, ferrovie, investimenti pubblici, diritti), ma non si riduce al meridionalismo, perché ovunque la qualità umana di un nostro simile viene diminuita, tutti siamo in pericolo: si comincia sempre con qualcuno (gli ebrei, gli zingari, i terroni, gli extracomunitari…, poi tocca a mano a mano agli altri).

L’equità territoriale, quindi, è principio universale, e pertanto è meridionalista; ma non può pretendere per nessuno più di quello che è riconosciuto uguale per tutti, dalla Costituzione o dalla Carta dei diritti umani; è il contrario del razzismo leghista dichiarato e di quello non dichiarato del Pun (il partito unico del Nord di fatto, che va dalla Lega al Pd), secondo cui la politica dev’essere “territoriale”, nel senso che i rappresentanti locali devono portare sempre più risorse pubbliche a beneficio delle zone di provenienza, anche se questo impoverisce il resto del Paese e, alla lunga, lo spacca: andiamo da “Prima il Nord”, “Prima il Veneto”, “Prima Milano” a “tutto alla ‘locomotiva’, anche quello che spetta al Sud”.

Negli ultimi mesi, abbiamo sentito citare l’equità territoriale (attribuendosela) esponenti del Pd, del M5S, del governo, che però si fermano all’espressione (suona bene), senza tradurla in pratica: dirlo non costa niente. Tanto da parlare di equità territoriale, ma dimezzando le risorse del Recovery Fund che, secondo i criteri di Bruxelles, sono dovute al Sud. O addirittura, come Giuseppe Conte in cerca di consensi al Nord da capo del M5S, parlando di equità territoriale per risolvere la inesistente Questione settentrionale, inventando 200mila bambini poveri a Milano (non arrivano a quel numero manco tutti insieme, poveri e no). Insomma, siamo alla parodia con il “meridionalismo padano”.

Quindi cos’è questa epidemia di meridionalite? I partiti storici sono più o meno alla frutta: non si schiodano da percentuali che rendono tutti troppo deboli per essere egemonici e ancora troppo forti per poter impedire ad altri di esserlo. Insomma: troppo deboli per guarire, troppo forti per morire.
Tutti, tranne uno: il Movimento 5 stelle, che meno di tre anni fa divenne il primo partito italiano, facendo man bassa di voti a Sud. Dove ora è in caduta libera. Quindi, la corsa degli altri è trovare il modo di ereditare i consensi meridionali in uscita dal M5S.

Pareva che “la quadra” (orribile espressione divenuta popolare per bavosa divulgazione di Bossi) l’avesse trovata Matteo Salvini, con la sua campagna di conquista del consenso dei terroni immemori di trent’anni di insulti e della sua condanna definitiva per razzismo contro i meridionali. Aveva fatto scalpore la sua elezione a senatore a Reggio Calabria (come dire: Dracula eletto a capo della banca del sangue dagli emofiliaci), ma si scoprì che lo era diventato con i voti di altri attribuiti a lui e la sua nomina decadde.

Ma la valanga di voti sempre annunciata non si è vista (di fatto, la Lega ha preso, al Sud, voto più, voto meno, i consensi che ha quasi sempre preso il partito di estrema destra, quale che fosse, dal Movimento sociale in poi). E questo ha messo in crisi, nella Lega, il teorema di Salvini (ora in difficoltà, anche per la vicenda di droga che coinvolge il suo braccio destro, Luca Morisi), facendo riemergere il vetero-padanismo incarnato da Giancarlo Giorgetti, oltretutto pure ministro: «Noi ci chiamiamo Lega e in qualche modo ci rifacciamo alla Lega Lombarda delle origini». E se non fosse abbastanza chiaro: la Lega è «un gruppo di persone che amano la propria terra e si mettono insieme per fare il bene della propria gente». Ed è andato a dirlo a Varese, il sancta santorum della Lega.

Il che farebbe presagire, vero o no che sia, un ritiro salviniano dal Mezzogiorno, visto che le Regioni ricche e predatorie, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, intendono approfittare del governo Draghi per far passare l’Autonomia differenziata, l’ennesima, clamorosa rapina di risorse pubbliche, a danno del resto del Paese, tale che, secondo l’appello ai presidenti della Repubblica e delle Camere parlamentari di decine di docenti universitari, scrittori, professionisti e firmato da 60mila persone, si tratterebbe della “Secessione dei ricchi”.

Il Mezzogiorno, così, per sentimenti meridionalisti sempre più diffusi, delusione dei cinquestelle, minor impegno della Lega, diventa la più vasta prateria di voti in libertà: è a Sud che si faranno i giochi. E parlamentari, dirigenti politici regionali, per tardiva ma convinta scoperta, o perché ormai senza riferimenti (specie se espulsi o usciti dai partiti con cui furono eletti) e in cerca di una base, raccattano qualunque gruppuscolo “sappia di Sud”, per intestarsene le bandierine. Una operazione di reciproco interesse, perché il mal comune dei gruppuscoli meridionalisti è sempre stato l’essere discriminati, dipinti come retrivi, nostalgici, secessionisti (specie quelli siciliani), mai presi davvero sul serio, ascoltati. E ora hanno l’occasione di contare, di avere voce in campagne elettorali, forse in Parlamento. Si tratta di un mondo complesso, molto diviso al suo interno, nella “gara/ A chi è più meridionale”; il che dovrebbe, al solito, favorire gli opportunisti disposti a utili accomodamenti (per loro) e a rendere ancor più isolati gli irriducibili che non accettano una Sicilia non indipendente, o un Sud non indipendente, vedendolo nei confini dell’ex Regno delle Due Sicilie (cosa, per dire, che non è sostenuta dal Movimento dei neoborbonici, più interessati al ristabilimento della verità storica e dei diritti uguali per tutti).

Ma questo è uno scendere nel dettaglio. L’epidemia di meridionalite è profonda ma minoritaria fra persone davvero consapevoli, informate e motivate, ma molto superficiale nella sua più vasta diffusione, solo perché è arrivato un tempo in cui “Sud conviene”. E la politica ha un problema: è arrivato il vento terrone e in troppi non hanno niente di meridionale da mettersi. Così, pur se al mercato degli scampoli… Turandosi il naso: è un buon segno. (pap)

[Pino Aprile, giornalista e scrittore, è il direttore di LaCNews24]

[Courtesy LaCNews24]

GLI IMPRENDITORI DEL SUD FANNO RETE
CONTRO CHI “RUBA” QUOTE DEL RECOVERY

di PINO APRILE – La Rete Imprenditori Sud, Ris, appena costituita, ha visto già affluire un centinaio di adesioni e si allarga velocemente, come accaduto, pochi mesi fa, con l’associazione dei sindaci meridionali (Rete Recovery Sud), e per lo stesso scopo: vigilare perché al Mezzogiorno non siano sottratte le risorse che, con il Recovery Fund, l’Unione Europea invia all’Italia, per ridurre il divario costruito in un secolo e mezzo di politiche nazionali squilibrate a danno del Sud.

Ma potrebbe esserci una differenza importante fra la strategia di comunicazione adottata dalla Rete Recovery Sud dei sindaci e quella degli imprenditori: i primi hanno cominciato cercando di far valere le proprie ragioni dinanzi alle autorità nazionali (ministri, sottosegretari…), poi le hanno portate a Bruxelles; i secondi pare siano orientati a fare il contrario: presentare ufficialmente la Rete a Bruxelles, come prima uscita, appena avranno definito la loro struttura organizzativa. Come dire: l’Europa (madre del Recovery Fund) quale punto di partenza e non arrivo. Che non è un modo per saltare gli interlocutori istituzionali o Confindustria, il sindacato degli imprenditori, assicurano, ma, visti i tempi stretti, per affiancarli e far giungere prima e con maggior chiarezza la voce degli interessi legittimi del Mezzogiorno.
Oggi, la Rete dei sindaci meridionali rappresenta più di cinquecento grandi e piccoli Comuni, è interlocutore del governo e della Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen, e costituisce, di fatto, l’embrione di una sorta di “Camera istituzionale” della rappresentanza dei diritti del Mezzogiorno che rischiano di essere ancora una volta calpestati.

Un peso che potrà/dovrà essere accresciuto dall’analoga iniziativa degli imprenditori meridionali. Il ruolo è completamente diverso, l’obiettivo no. Per dire delle differenze: mentre per i sindaci la crescita numerica più veloce possibile delle adesioni era un fatto assolutamente positivo, per gli imprenditori non è detto lo sia. Perché? Perché se i sindaci hanno in comune (e in Comune) gli stessi strumenti, le stesse norme, un modo di procedere istituzionalmente regolato e dal quale non possono allontanarsi, gli imprenditori hanno percorsi differenti a seconda dei campi di attività, dei tempi imposti da quelle e da altre collegate. Insomma: se per i Comuni la strada è una, per gli imprenditori sono tante: diciamo che partono insieme ognuno a modo suo, per ritrovarsi all’arrivo.

Questo non vuol dire non concertare l’azione, ma chi opera nel settore turistico si raccorderà con i colleghi, chi nelle costruzioni, idem, e così per l’agroalimentare, la meccanica, la comunicazione, eccetera. Quindi la prima cosa da fare è strutturare la Rete, in modo che gli aderenti trovino subito, oltre alla ragione della presenza di ognuno, la possibilità di poter subito essere operativi.

E a questo si sta lavorando, come riferiscono i due primi promotori, che ora coordinano le cose: Vincenzo D’Agostino, calabrese, creatore di Omnia Energia, e Raffaele Cariglia, pugliese, una sorta di incubatore vivente di società e cooperative. Significa che la Rete potrà partorire studi e servizi per iniziative individuali e collettive, perché non vadano perse opportunità di crescita, innovazione, lavoro. E chi se non i diretti interessati possono conoscere punti deboli, necessità e punti di forza? Chi fa impresa è abituato ad agire senza perdite di tempo, senza fronzoli, insomma, “a cavarsela” da solo. Ma sa che è più facile raggiungere risultati se si opera insieme ad altri che condividono metodi e fine; quindi ci si può attendere molto da una intesa con la Rete dei sindaci, l’affiancamento di alcuni parlamentari, forse dei presidenti delle Regioni del Sud (considerando che, per la prima volta in mezzo secolo, si sono mossi insieme, proprio in difesa delle quote di Recovery Fund spettanti al Sud e dei finanziamenti alle aziende agricole) e hanno la possibilità di farsi ascoltare a Bruxelles.

Quello che manca al Sud è una voce che abbia autorevolezza per chi rappresenta (la politica, l’economia, gli interessi), per quanti rappresenta, per come lo fa. Questa voce si comincia a sentire e ora deve trovare il modo per diventare potente. Il più efficiente che si conosca è il coro. (pap)

[Pino Aprile è direttore de LaCNews24] 

(courtesy LaCNews24)

COM’È INGIUSTO IL PAESE CON LA CALABRIA
E CRESCONO DISUGUAGLIANZA E DIVARIO

di SANTO STRATI – Il nuovo libro di Pino Aprile, il più strenuo difensore del Meridione e della sua gente, è un pugno allo stomaco e offre lo spunto per notare quanta disuguaglianza c’è ancora tra i due poli del Paese: il Nord cresce e corre, il Sud arretra e, inesorabilmente, ferma i sogni di migliaia di giovani, donne, laureati. Il divario è anche e soprattutto qui: nella palese sperequazione che si perpetra ogni giorno in qualunque campo, nonostante gli allarmi – appassionati – della Svimez, la eccellente associazione creata ai primi di dicembre del 1946 da un gruppo di personalità del mondo industriale ed economico. L’ultimo Rapporto Svimez – presentato qualche giorno fa e di cui parleremo nei prossimi giorni – lo dice chiaramente: il Nord riparte, il Sud fa fatica non solo a riprendersi dalla pandemia ma anche a programmare il suo futuro, nonostante il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il ragionamento che suggerisce Aprile (Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese, edizioni Pienogiorno), in realtà, non è che la diretta conseguenza delle tante pagine che il giornalista-saggista – oggi alla Direzione della tv calabrese LaC24 – ha dedicato al “furto” continuo e costante. Uno scippo urlato molto frequentemente con grande coraggio e onestà intellettuale anche da Roberto Napoletano sulla prima pagina del Quotidiano del Sud-L’altravoce dell’Italia: un esproprio legale e legalizzato dalla ricche regioni del Nord ai danni del Mezzogiorno.

Quando il gruppo di illuminati economisti e industriali, tra cui figuravano Pasquale Saraceno, Rodolfo Morandi, Donato Menichella e altri, nell’immediato dopoguerra diede vita all’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), non immaginava di anticipare di molti decenni l’idea che senza il Sud l’Italia avrebbe sempre marciato col freno a mano alzato. Erano industriali anche del Nord che si erano resi conto che occorreva immaginare progetti e sviluppare programmi di crescita reale per l’area più depressa del Paese, con l’obiettivo (pura illusione!) di realizzare l’unificazione anche economica dell’Italia.

Il problema è di crescita della ricchezza – per pochi – e la perdita di valore – per moltissimi. E il Covid si è rivelato un ottimo affare per i “ricchi” che sono diventati più ricchi, ma una disgrazia anche economica per i poveri che si sono ritrovati più poveri di prima. Ecco la disuguaglianza che emerge amaramente dalle pagine del libro di Pino Aprile: «la tutela sociale – scrive citando il prof. Viesti – è stata ed è in Italia più forte dove il benessere è maggiore». L’Italia era già molto disuguale da prima e il rapporto Oxfam 2020 rivela che i tre italiani più ricchi hanno quanto i sei milioni più poveri messi insieme. Il 20 per cento più ricco possiede il 70 per cento dei quasi 9300 miliardi del patrimonio nazionale; il successivo 20 per cento ha circa il 17 per cento di quei 9300 milairdi e al restante 60 per cento degli italiani rimane il 13 per cento della ricchezza. Aprile fa un esempio concreto: se fossimo una famiglia numerosa di dieci fratelli e avessimo 1000 euro, a due fratelli andrebbero 700 euro (350 a testa) ad altri due 85 a testa e ai rimanenti sei fratelli 21,60 euro a testa. Banalmente viene da pensare che forse è persino ottimistica come considerazione. Già, perché, soprattutto in Calabria, il divario, la sperequazione intollerabile, ha raggiunto livelli che dovrebbero far vergognare l’intera classe politica. E non solo quella del Mezzogiorno. Anzi è l’intera classe politica del Paese che dovrebbe fare un serio esame di coscienza sulle mancate promesse che, ad ogni elezione, vengono riproposte, salvo a rimangiarsi tutto, con la colpevole indifferenza dei parlamentari eletti al Sud.

Avevano provato con l’autonomia differenziata Emilia, Piemonte e Veneto a legittimare lo scippo con il pretesto della “spesa storica” (altra truffa ai danni delle regioni povere) secondo cui chi spende di più prende di più, chi è in difficoltà può restare a guardare. Il colpaccio dell’autonomia differenziata non è passato, anche a causa della pandemia, che ha accentuato, per altri versi, la dicotomia costante tra nord e sud, ma il divario non si è ridotto, anzi cresce, cresce continuamente e i numeri sono sconsolanti. Prendiamo i nostri giovani: «pur essendo la generazione più colta di sempre – fa notare Aprile – sono anche la prima, dall’Unità a oggi, a stare peggio dei loro genitori». È un problema di opportunità e di visione strategica.

Abbiamo quasi una generazione di inoccupati, ovvero di ragazzi che non hanno la più pallida idea di cosa sia il lavoro: con una scolarizzazione decisamente alta (abbiamo tre atenei che sfiorano l’eccellenza) la Calabria è la più grande esportatrice di cervelli. Prepara, forma i suoi ragazzi, ne fa laureati di altissimo valore, poi non offre loro alcuna occasione per esercitare una professione o un’attività di ricerca o di specializzazione. Li costringe a prendere il trolley verso le regioni intelligenti che non vedono l’ora di “utilizzare” le loro competenze, verso Paesi che fanno del merito una questione essenziale per la crescita e lo sviluppo e selezionano, per valorizzare, le capacità e le competenze che non hanno avuto costi di formazione. Dodici milioni di giovani – dice Aprile – corrono l’alto rischio di diventare i nuovi poveri, già oggi, persino se lavorano, perché è il crescita il fenomeno mondiale dei poor workers, quelli che, pur avendo un’occupazione e un reddito, non riescono a uscire dallo stato di bisogno.

Ci ha abituati all’indignazione Pino Aprile con i suoi libri, ma stavolta si supera ogni ragionevole rassegnazione: il quadro che, in modo ineccepibile, riesce a tracciare sulla disuguaglianza è terribile e amarissimo. I nostri ragazzi che vanno in Emilia, in Lombardia, in Piemonte “sopravvivono” grazie alle rimesse di genitori e nonni, mentre la Regione Calabria che spende e spande in cavolate varie non è riuscita dalla sua costituzione (era il 1970, non dimentichiamolo) a creare un percorso di sviluppo per i giovani, che metta in primo piano il problema lavoro. L’occupazione significa benessere non solo economico, ma possibilità di immaginare e costruire un futuro: ai nostri ragazzi abbiamo – tutti quanti – rubato il futuro e non ci sono scusanti. Quanti giovani calabresi vorrebbero restare nella propria terra, in famiglia, tra amici, nella sicurezza della casa dei genitori o dei nonni e devono, invece, guardare ai mercati che offrono loro opportunità di crescita. Il South Smartworking (ovvero, il lavoro da casa, fatto al Sud, nella casa di famiglia) è stato una boccata di ossigeno per molti giovani occupati che, causa pandemia, hanno lasciato momentaneamente le sedi di lavoro (chiuse) di Milano, Torino, Trieste, etc. E non vogliono, giustamente, ritornare al Nord perché hanno toccato con mano una qualità della vita che è ben differente da antipatiche routine quotidiane consumate nel ristretto di camere ammobiliate e sistemazioni di fortuna. È a loro che bisogna pensare, bisogna permettere alle nuove generazioni di disegnare il proprio futuro, immaginare una famiglia, poter crescere dei figli. Ma nel nostro Paese – grida giustamente Aprile – quello che manca è l’equilibrio: e chi più ha più trae per sé sottraendo a chi meno può.

In quest’ottica un buon utilizzo delle risorse che arrivano dall’Europa, il PNRR, potrebbe essere fondamentale per modificare almeno lo status sociale che ci sbatte in faccia l’ignobile differenza tra nord e sud: ai bambini in difficoltà, in Calabria – fa notare Aprile per chi l’avesse dimenticato – si spende undici volte meno che per quelli dell’Emilia Romagna. È desolante per non dire agghiacciante: la carenza di servizi riduce ulteriormente il potere di acquisto di chi vive al Sud. Dove – è bene rimarcarlo – non servono sussidi ma opportunità di lavoro, stabile e con un compenso dignitoso e adeguato. Ne sanno qualcosa le migliaia di precari utilizzati nella catena del commercio, sfruttati in virtù del bisogno, sottopagati e trattati come simil-schiavi che devono dire sempre di sì. È un quadro che emerge nitidamente dalle pagine di Aprile e che muove, inesorabilmente, una semplice domanda: ma quant’è ingiusto il Paese nei confronti dei calabresi? Se lo ricordino, questi ultimi, quando andranno alle urne per non premiare, nuovamente, i dispensatori professionali di speranze, soprattutto quelli ai quali della Calabria non interessa proprio niente. (s)


Stasera alle 21.30 a Reggio al Circolo del Tennis per i Caffè Letterari del Circolo Rhegium Julii Pino Aprile sarà intervistato dal direttore di Calabria.Live Santo Strati. Partecipano Enzo Filardo e Mario Musolino.

Pino Aprile è il nuovo direttore di LaC News 24

Prestigioso incarico per Pino Aprile, che è il nuovo direttore della testata LaC News 24.

«Ho accettato di prendere il timone delle testate televisive e online de LaC News24 – ha spiegato Aprile nel suo editoriale – perché credo che questo gruppo abbia la visione e la forza per dare voce potente al Mezzogiorno, nella difesa dei diritti negati o “concessi” come fossero un favore, una regalìa, con lo sconto, al ribasso, perché se si tratta del Sud, non può che essere meno: salute, trasporti, rispetto, istruzione».

«La sottrazione di risorse pur destinate al Mezzogiorno – ha aggiunto – di investimenti pubblici, la negazione di opere pubbliche essenziali stanno desertificando una terra potenzialmente ricca come poche al mondo. Il ritardo di sviluppo e infrastrutture è una scelta politica non sempre adeguatamente contrastata da chi dovrebbe rappresentare e difendere il Sud. Credo che i meridionali siano poco informati, su questo e sulla legittima e coraggiosa reazione di chi finalmente pretende il giusto, come fanno centinaia di sindaci dei Comuni del Mezzogiorno, alcuni esponenti delle regioni, pochi parlamentari nazionali ed europei».

«Il Mezzogiorno è, invece – ha proseguito – ancora raccontato come questione di ordine pubblico e basta. La mafia versa il sangue al Sud e i soldi al Nord, perché, essendo un fenomeno economico (pur se criminale), coglie le occasioni e sceglie le più produttive. Anche in questo, il Sud, ma in ispecie la Calabria, sta vivendo una stagione inedita, grazie a una schiera di magistrati, investigatori, che stanno assestando colpi tremendi alla ‘ndrangheta e alla masso-mafie. E c’è chi cerca di delegittimarne l’opera. Ho conosciuto l’editore e i colleghi de LaC News24 in occasione della giornata a sostegno del lavoro della Procura di Catanzaro, guidata dal dottor Nicola Gratteri, fatto oggetto di attacchi di rara violenza. Il 18 gennaio 2020 ci ritrovammo in migliaia a testimoniare vicinanza agli inquirenti che avevano appena varato la maxi-retata del Rinascita Scott. Una manifestazione nata da un giro di telefonate con amici preoccupati del clima che si stava creando. Non si tratta di adesioni acritiche: sbagliano anche i magistrati, perché umani e fallibili, ma un conto è chiedere che, nei modi previsti da procedure e leggi siano corretti gli errori (c’è il processo anche per questo), un conto condannare tutto il loro lavoro per gli inevitabili errori».

«Il sostegno de LaC News24 a quella manifestazione (cui mancò tanta “società civile”) fu totale – ha detto ancora –. E lo apprezzai molto. Quando, poi, iniziò il maxi-processo Rinascita Scott e scoprii che si sarebbe svolto in inedita e, per me, inspiegabile clandestinità di Stato, cercai in tutti i modi di trovare una via perché una tale, grandiosa anche nei numeri, opportunità di riflessione e analisi della comunità fosse davvero pubblica. Ancora una volta, trovai ascolto da parte de LaC News24, che a tempo di record, con uno sforzo ammirevole di tecnici e giornalisti, mise in piedi quanto necessario e la trasmissione che conduco con Pietro Comito, “Rinascita Scott. Processo alla ‘ndrangheta” è l’unica in Italia che racconti e faccia vedere, nei limiti dei paletti posti da una ordinanza della magistratura, cosa sta avvenendo nell’aula bunker, nonostante sapessimo a quali reazioni saremmo andati incontro (ricordo che per un servizio fatto, in buona parte, con filmati de LaC News24, al bravissimo collega della Rai, Riccardo Iacona, sono state rivolte critiche durissime)».

«Così – ha detto ancora – quando l’editore dell’emittente mi ha proposto di prendere le redini della sezione informativa della loro azienda, ho chiesto di essere garantito su alcune cose, che riassumo così: LaC News24 è in Calabria, per la Calabria, ma deve pensarsi “dalla Calabria”, nel senso di guardare al proprio futuro come emittente meridionale; e, nel rispetto di tutte le opinioni, la sua azione a tutela dei diritti sacrosanti e calpestati del Mezzogiorno dev’essere ancora più decisa, marcata. Avute rassicurazioni su questo, ho firmato. La squadra che vado a dirigere è forte, qualificata, coesa; e questo è frutto di buone scelte dell’editore e del lavoro di chi mi ha preceduto. Ho letto, come voi, la lettera di dimissioni del mio predecessore, Pasquale Motta. È coerente con la sua storia. Attendiamo con lui, serenamente e con fiducia (vera, non per modo di dire), la chiarezza che verrà dall’opera dei magistrati».

«Giudicateci per quel che faremo, per come lo faremo – ha concluso –. Qualcosa potremo sbagliarla, ma siamo capaci di correggerci. Uno dei miei primi libri si chiama “Elogio dell’errore” (senza esagerare…)». (rrm)