ISTRUZIONE, QUEL SETTORE CHE RISOLLEVA
IL SUD E RIDUCE I DIVARI TERRITORIALI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La riduzione dei divari territoriali e lo sviluppo socio economico del Mezzogiorno passa attraverso l’investimento nell’istruzione. È quanto ha ribadito la Svimez, attraverso l’ultimo numero di Informazioni Asili nido e infrastrutture scolastiche: il Pnrr non colmerà i divari territoriali,  dedicato al tema dei servizi per la prima infanzia e dell’istruzione.

Si tratta, infatti, settori interessati da profondi divari territoriali nella dotazione di infrastrutture adeguate, nella quantità e qualità dei servizi offerti a bambini e alunni, negli esiti dei processi di apprendimento e formazione. Per l’Associazione, infatti, la qualità e l’adeguata dotazione di infrastrutture scolastiche e per la prima infanzia sono elementi centrali per la crescita del Sud, in particolare per la partecipazione femminile al mercato del lavoro e all’accumulazione di capitale umano.

«Al Nord, il tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 49 anni scende dall’85% per le donne senza figli al 66 per le madri con figli di età inferiore ai 6 anni (-22%). Nel Sud cala in maniera ancora più accentuata: dal 58% ad appena il 38 per le donne con figli in età prescolare», si legge nel documento, in cui viene evidenziato come «anche per la carenza di servizi per l’infanzia, nelle regioni meridionali la maternità riduce il tasso di occupazione delle giovani donne di oltre un terzo. La disponibilità di asili nido e del tempo pieno scolastico incide positivamente sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro».

«Stime recenti della Banca d’Italia – si legge – confermano che nelle province italiane il tasso di attività delle madri di bambini con meno di tre anni tende a crescere con la disponibilità di servizi di assistenza alla prima infanzia a parità di caratteristiche individuali delle madri (età, titolo di studio, nazionalità). La qualità delle infrastrutture scolastiche favorisce l’accumulazione di capitale umano determinando il successo dei processi di apprendimento sin dalle prime fasi dei percorsi di studio. A tale riguardo, numerosi studi evidenziano come la frequenza dell’asilo nido promuova lo sviluppo delle abilità cognitive e non cognitive dei bambini, soprattutto nei contesti di fragilità familiare».

«A parità di condizioni di contesto, punteggi medi più deludenti nei test Invalsi – viene rilevato – sono tipicamente associati a maggiori carenze infrastrutturali delle scuole, in particolare a causa della mancanza di impianti sportivi e della vetustà degli edifici. Le differenze nella dotazione e qualità delle infrastrutture scolastiche contribuiscono a spiegare parte del divario di competenze degli studenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Ad esempio, l’offerta del tempo pieno, che ha effetti positivi sull’acquisizione di nuove conoscenze, può essere attivata prevalentemente in scuole con spazi per il servizio mensa. La disponibilità del tempo pieno e la presenza di scuole dotate di mensa sono legate da una correlazione positiva e statisticamente significativa».

Inoltre, viene evidenziato come la disponibilità «sin dalla prima infanzia, di infrastrutture scolastiche adeguate favorisce i processi di integrazione sociale e accumulazione delle conoscenze degli studenti, contribuendo alla prevenzione e al contenimento delle situazioni di marginalizzazione e disagio che inducono all’abbandono prematuro del percorso scolastico. Nelle regioni italiane, la minore diffusione del tempo pieno tende ad essere associata a tassi più elevati di dispersione scolastica».

Il Mezzogiorno, infatti, soffre «di un grave ritardo nell’offerta di servizi per la prima infanzia». Basti vedere come in Calabria ci sono 9 posti nido autorizzati (tra pubblici e privati) per 100 bambini tra gli 0-2 anni nel 2020. Situazione ancora più drammatica in Campania, dove ce ne sono solo 6,5, in Sicilia 8,2 e in Molise 9,3, inserendole tra le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo dei Lep per i posti autorizzati da raggiungere entro il 2027, che3 sono il 33% della popolazione di età compresa tra i 3 e i 36 mesi.

I divari regionali più marcati si osservano per la disponibilità di mense scolastiche, la cui assenza limita la possibilità di offrire il tempo pieno. Meno del 25% degli alunni meridionali della scuola primaria frequenta scuole dotate di mensa (contro circa il 60% nel Centro-Nord); meno del 32% dei bambini nel caso delle scuole dell’infanzia (contro circa il 59% nel Centro-Nord). Le situazioni più deficitarie interessano Sicilia e Campania, con percentuali inferiori al 15%. In Calabria, nella scuola dell’infanzia solo il 28% frequenta una scuola dotata di mensa, il 23,7% nella Scuola Primaria, il 19,4% nella Scuola Secondaria di I grado, e il 3,1% nella Scuola Secondaria di II grado. Per quanto riguarda istituti dotati di palestre, il dato più basso si registra nella scuola dell’infanzia, con l’8,1%.

Per quanto riguarda la sicurezza, la percentuale di alunni che frequentano scuole dotate di entrambe le certificazioni di agibilità e prevenzione incendi, nella nostra regione i dati sono preoccupanti: nella Scuola dell’infanzia è solo ‘8,4%, nella Scuola Primaria il 12,6%, nella Scuola Secondaria di primo grado il 10,7% e nella Scuola Secondaria di secondo grado il 20,3%.

Dai dati di spesa pubblica di fonte Conti Pubblici Territoriali risulta che il progressivo disinvestimento dalla scuola ha interessato soprattutto le regioni meridionali: tra il 2008 e il 2020, la spesa per investimenti nella scuola si è ridotta di oltre il 20% al Sud contro il 18% del Centro-Nord. Nel 2020, a Sud risultano investimenti pubblici per studente pari a 185 euro, contro i 300 del Centro- Nord. Un differenziale di spesa che tende ad amplificare ancora di più i divari.

Le risorse del Pnrr, per la Svimez, rappresentano, dunque, un’occasione unica per colmare i gap territoriali nella filiera dell’istruzione. Le risorse disponibili sono pari a 11,28 miliardi di euro, di cui 10,73 risultano assegnati agli enti territoriali. Il “Piano per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia” e il “Piano di messa in sicurezza e riqualificazione delle scuole” concentrano circa l’80% delle risorse stanziate; agli interventi per mense e palestre sono destinati circa 600 milioni e alla costruzione di nuove scuole 1,2 miliardi circa.

Per la realizzazione di nuove scuole e la messa in sicurezza degli edifici scolastici, si è confermata sostanzialmente la “quota Sud” rispetto a quella prevista dai criteri ex ante fissati dai decreti ministeriali di riparto. Con riferimento agli asili nido, si è determinata una riduzione di 3 punti (52%). Le “quote Sud” delle linee di investimento per mense e palestre sono risultate ridimensionate rispetto alle previsioni dei decreti di riparto delle risorse del Mim (41 contro 57,9% per le mense e 43 contro 54,3% per le palestre) per motivazioni diverse per le due linee di intervento.

Sebbene la “quota Sud” sia stata rispettata, «gli enti territoriali delle tre regioni meridionali più popolose – Sicilia, Campania e Puglia – hanno avuto accesso a risorse pro capite per infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana, nonostante le marcate carenze nelle dotazioni infrastrutturali che le contraddistinguono», ha ricordato l’Associazione.

«La distribuzione provinciale delle risorse assegnate ai Comuni – si legge – segnala significative differenze intra-regionali, soprattutto nelle regioni più grandi: in quasi tutte quelle meridionali, la provincia con il maggior fabbisogno di investimenti non coincide con quella che ha ricevuto le maggiori risorse pro capite. Questa situazione caratterizza, in particolare, Napoli e Palermo che si trovano tra le ultime quindici province nella graduatoria per risorse pro capite assegnate pur avendo, ad esempio nel caso delle mense, una percentuale bassissima di alunni che possono usufruirne (rispettivamente 5,7 e 4,7)».

«Lo studio propone, inoltre – viene spiegato – un’analisi di correlazione a livello provinciale tra indicatori di fabbisogno e risorse allocate per verificare se, e in che misura, l’allocazione degli stanziamenti ha rispettato la finalità di riequilibrio territoriale del Pnrr. I risultati mostrano che l’ammontare di risorse assegnate non sono legate ai fabbisogni effettivi dei territori. Solo nel caso del Piano asili nido le risorse assegnate aumentano con il fabbisogno, in linea con le finalità perequative».

La Svimez  ha evidenziato che « 1)la mancata mappatura iniziale dei fabbisogni si è riflessa in un’allocazione delle risorse che ha penalizzato alcune realtà meridionali; 2) Per le risorse assegnate attraverso procedure a bando risultano differenze tra province, non correlate al fabbisogno infrastrutturale».

La Svimez, dunque propone «di superare l’approccio dell’allocazione delle risorse mediante bandi competitivi che penalizzano le realtà con minore capacità amministrativa, attraverso una identificazione ex ante degli interventi sulla base dei fabbisogni reali; 2) un’azione di riprogrammazione delle risorse per la coesione che consenta di completare, dopo il 2026, il percorso di riduzione e superamento dei divari territoriali nelle infrastrutture scolastiche: con le risorse europee del Fesr (regionale e nazionale) e con il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) 2021-2027». (ams)

Adriano Giannola (Svimez): Autonomia rischia di sostituire le Regioni allo Stato

«Il disegno di legge approvato dal governo il 15 marzo 2023, poi dal Senato il 23 gennaio 2024 e ora all’esame della Camera, rappresenta un pericoloso disegno dell’autonomia differenziata che finisce per sostituire le Regioni allo Stato». È quanto ha detto Adriano Giannola, presidente della Svimez, nel corso dell’audizione in Commissione Affari Istituzionali.

Per la Svimez, infatti, il ddl «non favorisce, affatto, la coesione del Paese; appare, in più parti, incostituzionale; è impraticabile sotto il profilo finanziario; non prevede Fondi di perequazione territoriale e, infine, cristallizza la spesa storica invece di superarla. Da qui, il «rischio maggiore è che, al termine di questo processo – ha spiegato Giannola – nasca un Grande Nord, seguito per contraltare da un Grande Sud, entrambi nell’ambito di una Piccola Italia non ancora confederale ma che certamente non avrebbe nulla a che vedere con un federalismo realmente cooperativo e solidale».

Il timore del presidente, infatti, è che «la fretta di chiudere la partita dell’autonomia rafforzata finisca per forzare regole e principi non derogabili, con un approdo finale basato su Intese tra Stato e singole Regioni che richiedono maggiori poteri, approvate dal Parlamento con una legge non emendabile».

«Inoltre, se le Funzioni che prevedono la determinazione dei Lep (soprattutto Sanità, Istruzione e Mobilità locale) non possono essere trasferite – ha spiegato Giannola – se prima non si definiscono i Livelli Essenziali delle Prestazioni e non si trovano le risorse per finanziarli, per tutte le altre, oggi a legislazione concorrente (dai porti all’energia, dal lavoro alla tutela del territorio, solo per citarne alcune) si possono stipulare subito le Intese».

In definitiva, la Svimez teme questa «Babele di Regioni sovrane, all’interno di uno Stato Arlecchino, (timore che non a caso paventano anche la maggior parte dei Sindaci di qualunque parte politica) cui risponderà la soluzione del Grande Nord, per la cui nascita basterà attivare l’articolo 117 comma 8, perfetto – e non casuale – complemento del 116 terzo comma». (rrm)

 

AL SUD SEMPRE PIÙ IMPRESE SONO “BIO”
SI DEVE COGLIERE OCCASIONE DI SVILUPPO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il 23,6% delle imprese al Sud è bio, ossia utilizza risorse biologiche, inclusi gli scarti, nelle proprie produzioni, contro il 19,7% delle imprese del resto del Paese. È quanto emerso dall’indagine realizzata dal Centro Studi Tagliacarne e Svimez su un campione di 2 mila imprese industriali, con un numero di addetti compreso tra 5 e 499 unità.

Un dato, quello rilevato, che non dovrebbe stupire: in Calabria, infatti, come rilevato dall’ultimo rapporto Crea 2022, è prima in Italia per la superficie agricola utilizzata per coltivazioni biologiche, ossia il 36,3%, oltre che per il numero di produttori esclusivamente bio, che sono 8.122 (+2,2% rispetto al 2020), 1.188 produttori/trasformatori (+5,2%), 382 trasformatori esclusivi (+6,4%). Gli 8.110 produttori esclusivi calabresi sono pari al 13,03% del totale nazionale (62.333). Come già sottolineato dal Crea, infatti, «l’agricoltura  un fiore all’occhiello della Calabria da valorizzare al massimo, anche perché ha tanti risvolti positivi sul fronte della sostenibilità ambientale, della tutela della biodiversità, della sicurezza alimentare, della nutrizione salutistica, dell’offerta turistica, della qualità della vita di residenti e turisti».

Per il direttore del Centro Studi Tagliacarne, Gausto Esposito, «in una fase in cui si ripropone in maniera rinnovata il tema della crescita della base produttivo-manifatturiera del Mezzogiorno, la filiera della bioeconomia si pone come un prezioso asset a livello locale», questo perché «esprime una forte capacità di creare collegamenti tra segmenti diversi a valle e a monte della catena produttiva, come quello dell’agricoltura, che costituisce tradizionalmente un’eccellenza del territorio, e del recupero delle relative produzioni».

«Il profilo dinamico di queste imprese – ha detto il direttore Esposito – in investimenti nella duplice transizione e la maggiore sensibilità ai temi della sostenibilità, anche in termini sociali e di attenzione all’occupazione, deve porre questo segmento di imprese al centro di policy di rilancio della crescita per il Sud, anche attraverso politiche di incentivazione mirate».

Tornando all’indagine, è stato rilevato come il 59,8%  ha investito o investirà in tecnologie 4.0 tra il 2017 e il 2024, (contro il 56,3% del Centro Nord). Mentre il 50,0% ha adottato un modello di “open innovation” ovvero aperto alle collaborazioni con Università, clienti e fornitori per una crescita strutturata del territorio e per il rafforzamento delle filiere produttive (contro il 46,1%).

Dati che, per il direttore della Svimez, Luca Bianchi, «conferma quanto rilevato dalla Svimez in questi anni circa le potenzialità di sviluppo offerte dai nuovi settori dell’economia circolare e della bioeconomia in particolare per il Mezzogiorno, a condizione che le importanti esperienze oggi presenti siano accompagnate da politiche industriali e di filiera funzionali a renderle più solide e a favorirne la crescita anche dimensionale».

«Anche per questo la scelta bio può essere una potente chiave di sviluppo per il Sud», si legge nell’indagine, in cui viene sottolineato come «essere “bio” rende le imprese più smart, non solo al Mezzogiorno».

La scelta “bio”, nel complesso, si rileva nel Mezzogiorno come nel resto d’Italia un potente stimolo per investire in green e in innovazione su cui ha puntato il 63,2% delle imprese nazionali della bio-economia (contro il 35,5% delle non bio). Nel Meridione, infatti, il 63,4% delle imprese bio ha investito tra il 2017 e il 2024 in processi e prodotti a maggior risparmio energetico, idrico e/o a minore impatto ambientale (contro il 37,0% delle non bio), in linea con quanto si è verificato nel Centro-Nord dove (63,2% contro il 35,2% nelle non bio). Anche per questo il 57,3% di queste imprese meridionali ha investito o investirà in R&S nello stesso periodo (contro 45,3% delle non bio). Essere “bio” si traduce, inoltre, pure in una maggiore attenzione ai lavoratori non solo dal punto di vista sociale, ma anche professionale. Il 61,0% delle imprese bio del Mezzogiorno ha avviato percorsi formativi per i propri dipendenti nel biennio 2017-2019 e ha intenzione di continuare le attività di formazione anche nel biennio 2022-2024 (vs il 57,0% delle non bio meridionali). Una quota che si presenta anche più elevata nel Centro-Nord (62,5% contro il 54,7%).

Ma, oltre a investire sul bio è importante destinare delle risorse anche al digitale che, come rivelato dal Centro Tagliacarne e dalla Svimez, spinge la produttività di oltre una impresa “bio” meridionale su quattro.

Nel Meridione, in particolare, queste realtà imprenditoriali che hanno già puntato tra il 2017 e il 2021 sul digitale dichiarano di avere ottenuto una maggiore produttività nel 28,0% dei casi, una migliore qualità dei prodotti e minori scarti (24,4%), una maggiore velocità nel passaggio dal prototipo alla produzione (23,2%), nuove funzionalità del prodotto derivanti dall’Internet of things (22,0%).

Molta attenzione, poi, alla transizione ecologica: le aziende “bio” del Mezzogiorno, infatti, intraprendono questa strada per aumentare la competitività e rispondere alle regole nazionali e internazionali. iù della metà di queste imprese dichiara, infatti, di aver investito tra il 2017 e il 2021 sia per rispondere alle regole e alle normative imposte a livello nazionale ed europeo (nel 56,1% dei casi), sia per aumentare la propria competitività (nel 52,4% dei casi). Mentre il 30,5% di queste imprese della bioeconomia del Sud d ha sostenuto investimenti ambientali per reagire all’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche e il 29,3% lo ha fatto perché convinto che l’inquinamento e il cambiamento climatico rappresentino un rischio per l’azienda e la società. (ams)

A Roma l’incontro tra Svimez e il Dicastero per lo sviluppo umano integrale del Vaticano

Si è parlato dei divari di cittadinanza e la situazione del Mediterraneo nell’attuale contesto geo-politico ed economico, nel corso dell’incontro, svoltosi a Roma, tra una delegazione della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno e la prof.ssa Alessandra Smerilli F.M.A, docente di economia politica e statistica e segretario generale del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale di Città del Vaticano.

Per la Svimez erano presenti il direttore generale Luca Bianchi, il consigliere scientifico prof. Carmelo Petraglia e la ricercatrice e vicedirettrice della Rivista giuridica del Mezzogiorno Agnese Claroni. Per il Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale erano presenti anche la dott.ssa Serena Viti e il dott. Andrea Marchesani(rrm)

SVIMEZ, DOVE VANNO LA CALABRIA E IL SUD
CRESCITA DEBOLE E DIVARIO IN AUMENTO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dove andrà la Calabria, se continua a registrare numeri bassi e negativi? La domanda sorge spontanea, leggendo i dati del report Dove vanno le regioni italiane della Svimez, in cui è emerso come il Pil della nostra regione, nel triennio 2023-2025, crescerà solo dello 0,40%, portando un esiguo contributo alla crescita del Sud.

All’incontro hanno partecipato Luca Bianchi, direttore generale della Svimez, Fedele De Novellis, partner Ref, Stefano Prezioso, vicedirettore Svimez, Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi di Confindustria, Alessandra Faggian, docente di Economia applicata al Gran Sasso Science Institute.

Un dato, quello presentato dall’Associazione, che non si discosta troppo dalle previsioni provvisorie dell’Istat, che indicava a dicembre 2023 una variazione del Pil calabrese del 3,2%. Guardando il dato del Mezzogiorno, secondo le stime della Svimez, la Calabria in sostanza nel prossimo triennio raggiungerebbe la stessa cifra del Sud, ossia il 3,5.

Un dato preoccupante, considerando che la nostra regione ha tutte le carte in regola per essere motore di sviluppo del Mezzogiorno. Eppure, secondo le stime di Svimez, il tasso di crescita sarà solo dello 0,8%, seguito da Basilicata (0,7%) e Molise (0,5). Andando più nello specifico, la Calabria, per il prossimo triennio, contribuirà alla crescita cumulata del Pil dello 0,25% per le spese Pa, dello 0,04% per l’export, dello 0,37% con la spesa delle famiglie e dello 0,10% con gli investimenti.

Preoccupano, poi, i dati relativi sul valore aggiunto delle imprese strutturate, ossia multinazionali estere e italiane, gruppi domestici italiani, con i dati del 2020: è solo del 39,8% contro il 44,9% del Mezzogiorno e del 57,3% dell’Italia.

Anche per quanto riguarda gli addetti alle unità locali per mille abitanti, in Calabria se ne registrano solo 152,9 contro i 194,1 del Mezzogiorno e i 292,2 dell’Italia. Preoccupano, infine, i dati riguardanti il bilancio della popolazione residente: Quello complessivo è -149.056, quello migratorio -94.892 e quello naturale -54.164.

«Nel corso degli ultimi anni – si legge nel Rapporto – l’economia italiana, al pari delle altre economie europee, è stata sottoposta a una serie di shock straordinari – legati alla pandemia e alla crisi energetica – cui sono corrisposte reazioni altrettanto eccezionali delle politiche, sia quella fiscale che quella monetaria. Ciascun territorio ha risentito di tale instabilità in maniera diversa, a seconda del grado di esposizione a tali shock della propria struttura produttiva».

«D’altra parte, i differenziali di crescita fra le diverse macroaree sono stati nel complesso contenuti – viene spiegato – un risultato che in parte deriva dal fatto che alcuni shock hanno colpito settori presenti, pur in maniera non uniforme, sull’intero territorio nazionale, ma che può essere spiegato anche con le misure compensative adottate dalla politica di bilancio per sostenere le imprese e le famiglie che di volta in volta sono state colpite nelle varie fasi della crisi. In definitiva, nel corso degli ultimi anni, nonostante le difficoltà che hanno attraversato il sistema economico, le politiche hanno avuto successo nel prevenire un ulteriore allargamento dei divari territoriali».

«Dalla pandemia – continua il Rapporto – sono derivati effetti differenziati sui settori manifatturieri. Alcune filiere hanno subito conseguenze permanenti, penalizzando soprattutto le regioni dell’Italia centrale. Anche i settori dei servizi privati sono stati caratterizzati da una elevata instabilità, in particolare nelle attività assoggettate alle misure di distanziamento sociale, quindi nei settori degli alberghi e ristoranti e negli spettacoli. Tali andamenti sono stati condivisi dalle diverse regioni, ma hanno naturalmente avuto impatti maggiori nei territori a vocazione turistica che, dopo essere stati più penalizzati dalle chiusure imposte a seguito della pandemia, hanno poi registrato una fase di recupero più vivace».

«Le risorse del Superbonus sono state assorbite in misura maggiore dalle regioni del Centro-Nord. Gli effetti del ciclo degli investimenti in costruzioni sulla crescita sono stati però maggiori al Sud, dato il peso più elevato delle costruzioni sull’economia. Un altro aspetto significativo delle tendenze recenti, a sua volta legato al ciclo delle costruzioni, è rappresentato dalla crescita dell’occupazione, che è rimasta vivace, nonostante la decelerazione dell’economia. Tale andamento ha caratterizzato tutte le aree del Paese, ma è risultato più intenso nelle regioni del Mezzogiorno. I rincari dei prezzi osservati nel 2022 e nel 2023 hanno interessato con particolare intensità alcune componenti del paniere dei prezzi, come l’energia e l’alimentare, che incidono in misura maggiore sulle fasce di reddito inferiori. Una conseguenza è stata l’impatto maggiore degli aumenti dei prezzi sul potere d’acquisto delle famiglie del Mezzogiorno. Dalla fine dello scorso anno le tensioni inflazionistiche hanno iniziato a rientrare. Nel 2024-25 la riduzione dell’inflazione avrà effetti di segno opposto a quelli osservati nel corso del passato biennio, restituendo potere d’acquisto in misura maggiore alle famiglie delle fasce di reddito inferiori e ai territori più deboli del Paese».

La Svimez, poi, ha evidenziato come «la recente revisione del Pnrr ha ridimensionato gli investimenti pubblici e incrementato i contributi alle imprese; tuttavia, l’apporto delle risorse messe in campo resta significativo, specie nel Sud dove queste da sole contribuiscono per quasi due terzi alla spesa complessiva prevista in investimenti pubblici nel biennio 2024-2025. Molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni di portare a termine i programmi di spesa».

«Le prospettive sono caratterizzate da una fase di crescita molto debole – viene spiegato – in parte spiegata proprio dal percorso di normalizzazione delle politiche, monetarie e fiscali, che sta orientando le scelte dei Governi europei. Il 2023 è stato per l’economia italiana un anno di decelerazione, con una variazione del Pil modesta, prevista intorno allo 0,7 per cento che si declina, a scala territoriale, in uno 0,9 per cento nelle regioni settentrionali, dello 0,6 per cento nelle regioni del Centro, e allo 0,4 per cento nel Mezzogiorno. Le tendenze per il 2024-25 sono segnate ancora da ampi margini di incertezza».

«In questo contesto, il 2024 dovrebbe far registrare, sempre a scala nazionale – si legge ancora – una live contrazione rispetto all’anno precedente (+0,6%), seguita l’anno successivo da una modesta accelerazione (+1,1%). Eppure, questa crescita relativamente contenuta in buona parte dipende dall’implementazione del Pnrr, specie al Sud. Ci attendiamo che le tendenze delle principali ripartizioni territoriali mantengano dei differenziali fra le macroaree relativamente contenuti, come già osservato negli anni scorsi. Ad ogni modo, anche se la tendenza generale è una relativa vicinanza tra le varie circoscrizioni, questo non elemina alcune differenze strutturali andate consolidandosi nel corso del tempo».

«Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, al Nord, dovrebbero crescere di più, in particolare queste tre regioni quando riparte la domanda estera “giocano un’altra partita” rispetto al resto del Paese. Toscana e Lazio continuano ad allontanarsi da Umbria e Marche al Centro; anche il Sud al suo interno vede percorsi differenziati. Per certi versi, è qui che risiede la vera sfida del Pnrr: aggredire nei territori più in difficoltà da tempo quei nodi che ne ostacolano la crescita a saggi comparabili con le regioni più dinamiche. Interrompendo, così, la frammentazione dei percorsi di sviluppo regionali che si è consolidata da inizio millennio fino alla pandemia».

«Emerge, come è normale aspettarsi, una correlazione negativa piuttosto netta tra il tasso di crescita del Pil e l’indice di precarietà. Nelle regioni in cui la crescita è stata relativamente più intensa (i.e. Trentino Alto-Adige, Lombardia, Emilia-Romagna, ecc.) l’indice di precarietà assume valori più contenuti, e viceversa (come in Calabria, Sicilia, Sardegna). La bassa crescita, quindi, agisce anche sulla qualità dell’occupazione, oltre che sulla quantità di lavoro attivata. A sua volta, ciò dà luogo a un feed-back sulla crescita stessa. In regioni nelle quali la domanda interna ha assunto un’importanza preminente nell’orientare la congiuntura, come quelle meridionali e/o del Centro, una maggiore quota di occupazione precaria implica una capacità reddituale aggregata anch’essa relativamente minore. La spinta sulla domanda, in definitiva, ne risulta depotenziata».

la Svimez, poi, ha voluto porre l’attenzione sul fattore demografico, «che ha acquisito un peso crescente nell’orientare la performance dei singoli territori, specie se valutata con l’indicatore Pil pro capite precedentemente richiamato. Questo indice, infatti, oltre a risentire della minore/maggiore capacità di produrre reddito è influenzato, per l’appunto, dalle fluttuazioni della popolazione, in particolare quella in età lavorativa». (ams)

 

PNRR, LA VERA SFIDA PER IL MEZZOGIORNO
È LA MESSA IN SICUREZZA DELLA QUOTA SUD

di LIA ROMAGNO – La sfida dell’attuazione del Pnrr per l’Italia vale tra il 2 e il 2,5% di Pil in più, percentuali superiori alla media europea. A “pesare” l’impatto del piano per il sistema Paese è stato ieri il commissario europeo per l’economia, Paolo Gentiloni.

«La proiezione sulla misura aggiunta di Pil nel 2026 per i diversi Paesi dal Next Generation Eu è una media dell’1,4% aggiuntivo – ha affermato intervenendo a un evento per i quarant’anni di Affari&Finanza, a Milano –. Si va da Paesi che hanno nel 2026 un Pil tra il 4 e 5% in più, come la Grecia. Altri che stanno al 3%, come la Spagna. L’Italia tra il 2 e 2,5%, quindi è sopra la media europea. Ovviamente sono modelli matematici che possono essere confermati o meno. Questo ci dice che la potenzialità dello strumento è notevole».

La sfida «si gioca nei prossimi due tre anni in modo decisivo», ha sottolineato Gentiloni, considerando che il processo di revisione, approvato dal Consiglio europeo lo scorso 8 dicembre, ha allungato le scadenze per molti obiettivi, «quindi – ha affermato – quest’anno sarà più leggero».

Dopo i ritardi e le criticità che hanno segnato la prima parte del 2023, dovute anche alle ricadute delle tensioni geopolitiche, il Piano è ripartito. L’Italia «si è rimessa in carreggiata», ha affermato il commissario europeo, dicendosi poi «soddisfatto dell’Italia: Mi fa piacere che il governo consideri il piano come figlio suo e non una strana eredità. Penso che la revisione del piano, non priva di controversie – pensiamo alle città che hanno lamentato alcuni definanziamenti – abbia un vantaggio: è diventato il piano dell’attuale governo, non più eredità più o meno subita che un governo precedente o quello prima addirittura aveva negoziato con la Commissione europea senza contributo dell’autorità attuale. E il piano ha mostrato di potersi adattare, sia sulle materie energetiche, sia nel tener conto dell’inflazione».

«Le sfide rimangono perché la quinta rata vale poco più di 10 miliardi e l’ultima del 2026 ne vale 40. Poi le cose bisogna farle e bisogna toglierci dalla testa che se abbiamo rispettato alcuni tempi e alcuni obiettivi negoziati con la Ue ora sia tutto in discesa: l’impegno più sostanziale verrà nei prossimi due-tre anni», ha ribadito.

La portata della sfida la fanno i numeri del Piano: 194,4 miliardi, di cui 71,8 miliardi di euro in sovvenzioni e 122,6 in prestiti, 66 riforme e 150 investimenti. Finora la Commissione ha erogato oltre il 50% dei fondi destinati all’Italia nell’ambito del Recovery and Resilience Facility, oltre 102 miliardi.

Se l’Ue nei prossimi giorni darà il via libera anche alla quinta rata- la richiesta di pagamento è partita alla fine di dicembre – la dote già incassata salirà a 113 miliardi, pari a oltre il 58% dei 194,4 miliardi stanziati in sede europea.

Finora, secondo la relazione sull’attuazione del Pnrr presentata dal ministro degli Affari Europei e regista dell’ “operazione” Pnrr, Raffaele Fitto, sono state spese circa la metà delle risorse già incassate, ovvero 45,6 miliardi su 102, il 23% dell’importo totale. Da qui la necessità di spingere sull’acceleratore su cui ha messo l’accento anche la premier Giorgia Meloni.

Il Pnrr resta un cantiere aperto, sia sul fronte interno, sia su quello europeo: la scorsa settimana il via libera del Consiglio dei ministri al nuovo decreto per l’attuazione del piano che punta a velocizzarne la messa a terra, anche introducendo norme mirate a una maggiore responsabilizzazione dei soggetti attuatori (l’iter di conversione prenderà il via dalla Commissione Bilancio di Montecitorio).
Ieri l’invio alla Commissione europea di una richiesta di revisione del “nuovo” piano, adottato dal Consiglio Ue l’8 dicembre scorso. Riguarda essenzialmente la «correzione di alcuni elementi tecnici nel Pnrr, così come approvato nell’ultima Cabina di regia», ha spiegato il ministro Fitto, sottolineando la «continua e proficua collaborazione tra il governo italiano e la Commissione europea».

«La revisione consentirà la corretta attuazione del Pnrr così come modificato lo scorso dicembre», ha aggiunto il ministro che oggi sarà a Bruxelles dove in mattinata, nella sede del Parlamento europeo, vedrà la presidente Roberta Metsola, mentre nel pomeriggio sarà invece a Palazzo Berlaymont per incontrare il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, il Commissario per il bilancio e l’amministrazione, Johannes Hahn, e quello per la Giustizia, Didier Reynders.

La portavoce dell’esecutivo Ue, Veerle Nuyts, ha chiarito che le modifiche tecniche riguardano «correzioni di errori materiali», «modifiche per chiarire la formulazione di alcuni traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi», e sono necessarie «per assicurare la coerenza di tutto il testo con la decisione del Consiglio Ue che ha approvato la revisione del Piano» a dicembre.

La Commissione dovrebbe impiegare meno di due mesi per completare la sua valutazione della richiesta italiana, hanno assicurato fonti comunitarie.

Per il Mezzogiorno la sfida è vitale e passa dalla messa in sicurezza della “Quota Sud”, un punto su cui ha insistito il direttore generale dello Svimez, Luca Bianchi, intervenendo al convegno Quale sviluppo per il Mezzogiorno e la Calabria organizzato dalla Cgil a Lamezia Terme, cui ha preso parte anche il presidente della Regione, Roberto Occhiuto.

Bianchi ha chiamato in causa la debolezza amministrativa degli enti locali meridionali di fronte a quella che è «un’occasione decisiva» per accorciare la distanza con il resto del Paese e avviare il rilancio del Sud.

«C’è stata una rimodulazione che rischia di ridurre la quota Sud. Dobbiamo pertanto spingere innanzitutto sulla qualità amministrativa per regioni come la Calabria. Bisogna concentrarsi per mettere a terra le risorse perché non è possibile che non si raggiunga la quota del 40% che è la quota prevista per il Mezzogiorno dalla quale non si può derogare – ha affermato –. Al Governo diciamo di supportare e rafforzare le amministrazioni locali nell’attuazione perché questo Pnrr serve anche a ridurre i divari territoriali e non si può assolutamente derogare questo obiettivo». (lr)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia] 

AUTONOMIA, IL “RICATTO” DI LEGA VALE
DI PIÙ DEI DIRITTI DEI CITTADINI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTANei prossimi giorni la Camera dovrà esaminare il decreto legge sull’autonomia differenziata. Il percorso va avanti senza intoppi malgrado dal Paese e in particolare dal Sud si levino voci di dissenso rispetto ad una riforma che  è definita “Spacca-Paese”. 

A nulla sono valse le tante perplessità sollevate da diverse prestigiose Istituzioni. La Banca centrale  ha invitato a procedere «con la necessaria gradualità» sulla strada dell’autonomia differenziata, «diversamente, vi sarebbe il rischio di innescare processi difficilmente reversibili e dagli esiti incerti» . 

La Svimez rafforza il pensiero «l’Autonomia differenziata non solo penalizzerà i cittadini del Sud ma indebolirà anche le regioni del Settentrione». È una visione, quella dell’Associazione che guarda all’intero Paese.

Luca Bianchi, direttore di Svimez (l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno), demolisce così la riforma portata avanti dal ministro Roberto Calderoli, che arriva adesso alla  Camera per essere approvata a tappe forzate. 

Si sono anche dimessi quattro esperti dall’organismo tecnico voluto dal ministro leghista  per individuare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), necessari per attuare l’Autonomia differenziata. Nomi “pesanti” visto si tratta di Giuliano Amato e Franco Gallo, ex presidenti della Corte Costituzionale, Alessandro Pajno, ex Presidente del Consiglio di Stato, e Franco Bassanini, ex Ministro della Funzione pubblica, che hanno annunciato il passo indietro con una lettera inviata al Ministro del Carroccio e al Presidente del Comitato di esperti sull’Autonomia differenziata, Sabino Cassese

Ma si è mobilitata anche l’intellighenzia meridionale con una 24 ore di interventi per raccogliere firme contro. 

«Il Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc), presieduto dal professore Massimo Villone, esprime grande soddisfazione per avere raggiunto e largamente superato le firme necessarie (ne bastavano 50mila, ne sono giunte oltre 65mila), in anticipo rispetto alla conclusione della campagna per la presentazione della legge costituzionale di iniziativa popolare – per la modifica in particolare degli articoli 116, terzo comma, e 117, primo, secondo e terzo comma del Titolo V della Costituzione – contro l’autonomia differenziata voluta dal Governo e da alcune Regioni del Nord». 

Infine la manifestazione recente, fonte di tante polemiche, a Roma, per iniziativa di Vincenzo De Luca ha mobilitato molti sindaci «L’autonomia calpesta e offende il Sud». È un’accusa durissima quella lanciata dai Sindaci del Meridione, scesi in piazza a Roma per protestare contro l’autonomia differenziata. 

Circa un migliaio i primi cittadini convocati in piazza Santi Apostoli dal Governatore della Campania e dall’Anci campana per dire no alla riforma. Una mobilitazione ampissima di un Sud che comincia a capire cosa rischia con questa riforma mentre, come un bulldozer,  il ministro va avanti con questa riforma che possiamo chiamare secondo porcellum. Questo excursus per dimostrare come le voci contrarie sono tante e molto autorevoli. 

Malgrado ciò si continua in un percorso che viene approvato perché il ricatto della Lega di far cadere il Governo pesa sulla maggioranza. 

Il Presidente del Veneto Luca Zaia avverte gli alleati: «l’accordo sull’autonomia è uno dei pilastri di questa maggioranza, insieme al presidenzialismo e alcune altre riforme. Se non passasse verrebbe meno l’oggetto sociale della maggioranza. E oggi non ho nessuna ragione di pensare che con serietà non si affronti il tema», dice il Governatore leghista.  

Fra l’altro la riforma viene nascosta dietro una esigenza di efficienza, ma é invece chiaro che il tema di fondo è quello di trattenere il cosiddetto residuo fiscale, spostando il diritto costituzionale di avere le stesse risorse per ogni cittadino alla prevalenza dei territori, che si fanno piccoli  Stati e che trattengono le risorse che vengono prodotte nella Regione interessata. 

Il vecchio progetto di Bossi che partiva dalla secessione e che adesso si attua invece tenendosi la colonia ben stretta ma con diritti di serie B. È una vera e propria fuga con un bottino, che tutto il Paese ha contribuito a creare. Prodromico alla formazione di una macroregione del Nord, che avrebbe il suo Sud nella Toscana, Umbria forse e che, a parere dei leghisti, ma anche dei politici dell’Emilia Romagna, adesso formalmente pentiti, potrebbe competere meglio con il cuore produttivo europeo della Baviera e d’Ile  de France. 

I dati dimostrano invece che aver puntato solo sulla locomotiva del Paese ha portato a crescite molto contenute e assolutamente meno rilevanti di quelle di Francia, Germania e persino Spagna. 

Il tema, che sopratutto Fratelli d’Italia deve porsi, vista la sua vocazione unitaria, é se si può consentire ad una Forza, che rappresenta poco meno del 9% degli elettori e poco meno del 5% degli aventi diritto al voto, di costituzionalizzare la spesa storica e mettere le basi per una possibile divisione del Paese senza ritorno, per un mero calcolo politico degli altri partner governativi. 

In una realtà comunitaria che ha bisogno invece dell’Italia, uno dei Paesi fondatori, e del suo contributo per una progressiva maggiore  forza dell’Unione, in una situazione sempre più complessa, che vede una Federazione Russa protesa a mire espansionistiche che bisogna bloccare, anche con un esercito comune. Siamo molto lontani dalle visione  di Altiero Spinelli, ma che va recuperata e che è l’unica con un futuro. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’OPINIONE / DAVIDE TAVERNISE (M5S): «Svimez certifica il rischio di questa Autonomia differenziata»

di DAVIDE TAVERNISE – L’autonomia differenziata, così com’è stata licenziata al Senato, rappresenta l’ultimo tassello per la completa perdita del diritto alla salute in Calabria. Lo spiega bene il rapporto Svimez “Un Paese due cure” che pone l’attenzione sul divario già esistente fra nord e sud e sulle prospettive future, non proprio consolatorie.

Un allarme, quello lanciato dall’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che si basa su dati tristemente noti riletti sotto una nuova luce: quella dell’autonomia differenziata. Ciò che esce fuori è una fotografica in bianco e nero, dove i punti luce non riguardano quelle regioni, come la Calabria, che risultano inadempienti anche rispetto al raggiungimento dei Lea.

Il rischio che il testo di Calderoli possa realmente ampliare le disuguaglianze tra le regioni nelle condizioni di accesso al diritto alla salute è concreto, non una presa di posizione ideologica né una sterile opposizione partitica. Necessario a questo punto fare marcia indietro o apportare profondi correttivi al testo, al fine di garantire in maniera uniforme il diritto alla salute su tutto il territorio nazionale. Per far questo il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: si deve tornare ad investire in Sanità, prevedendo una quota maggiore di quel 6,6% del Pil che oggi viene destinato alla spesa sanitaria, molto più basso rispetto ad altri Paesi europei.

Non è più possibile accettare che oltre il 43% dei malati calabresi preferisca curarsi fuori regione, per ricevere cure adeguate che l’organizzazione sanitaria regionale non riesce ad erogare, un fenomeno che coinvolge anche il 23,6% di pazienti pediatrici. O ancora non sembra possibile che il 42,5% delle donne calabresi tra i 50 e i 69 anni non si sia mai sottoposta a programmi di screening oncologici gratuiti, offerta che dovrebbe essere garantita in tutta Italia in maniera uniforme perché compresa tra i Lea. Tutto ciò è dovuto sempre al mancato investimento, che trova compimento nel dato più sconfortante di tuttti che riguarda lo stanziamento di risorse pubbliche destinate alla sanità: a fronte di una media nazionale che è pari a 2,140 euro, la spesa corrente più bassa si registra in Calabria con 1,748 euro.

L’autonomia differenziata, per come è stata pensata, non riuscirà a colmare questi divari che oggi sono evidenti e preoccupanti ma che non trovano risposte adeguate da parte del governo centrale e da quello regionale. (dt)

(Davide Tavernise è consigliere regionale e capogruppo del Movimento 5 stelle)

AL SUD NON SERVONO ANALISI TECNICHE
SONO NECESSARIE POLITICHE DI SVILUPPO

di PIETRO MASSIMO BUSETTACinquant’anni di rapporti sono tanti e il video di Pasquale Saraceno da un lato emoziona dall’altro ci fa capire che non servono le analisi e le ricette tecniche, che sono rimaste sempre le stesse, ma la volontà politica di attuarle. 

Il Mezzogiorno sarà quello che la sua industria manifatturiera diventerà. E purtroppo ancora la dimensione di essa non è tale da trascinare la crescita del Pil. Nel 2022 il Sud cresce infatti come la media UE ma il contributo dell’industria é meno della metà che nelle altre aree. Se recupera lo stesso livello di crescita é per il contributo dei servizi e delle costruzioni. 

Chiarissimo il rapporto, ricco dei dati importanti, che vengono,  presentati, con una capacità di sintesi non comune, dal direttore Luca Bianchi

Ma il tema diventa le politiche per il futuro. La domanda che aleggia nella bella sede della Camera di Commercio di Roma, nella Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano sita nella Piazza di Pietra é se quelle che sono in atto hanno forza sufficiente per superare, in un numero di anni contenuti, i grandi divari ancora esistenti nel reddito pro-capite, nel tasso di occupazione e disoccupazione, nell’export per addetto, nella infrastrutturazione di ferrovie, porti, autostrade, nei diritti di cittadinanza relativi alla sanità, alla scuola.  

E la presenza del ministro Raffaele Fitto diventa il momento più caratterizzante dell’incontro. E l’argomento principe è quello del Pnrr che dovrebbe essere lo strumento per quella rivoluzione necessaria per riequilibrare il Paese oltre che la Zes unica, soluzione per accrescere quella quota di manifatturiero ancora così contenuta. 

Il Ministro sta operando bene per l’Italia se è vero che è riuscito ad incassare tutte le rate in scadenza, primo Paese dell’Unione che lo ha  fatto. Ed anche nel senso di riorganizzare lo strumento per eliminare i finanziamenti che sono destinati ad opere che non potranno essere ultimate e collaudate entro la metà del 2026. Quindi sta operando certamente per il Paese. 

La domanda però può porsi anche in modo diverso è cioè se questa riorganizzazione del Pnrr, in parte dovuta agli errori commessi nell’impostazione dal Governo Draghi, non possa penalizzare il Sud e far perdere di vista l’obiettivo vero dello strumento, che non è quello di salvare il Paese Italia e di spendere tutte le risorse a fondo perduto e a credito, ma quello di eliminare i divari, recuperare alcuni diritti di cittadinanza, incrementare in modo decisivo la base manifatturiera dell’area. 

Se la Zes unica potrà, esempio innovativo in Europa, che riguarda un’area così vasta con 20 milioni di abitanti, attrarre investimenti importanti che in collegamento con la vocazione mediterranea della zona risponda alla domanda di proiettarsi verso l’Africa proveniente dall’Europa. 

Questa domanda rimane in sospeso e le conclusioni di Adriano Giannola non risolvono la questione. Anche il presidente di Svimez sembra essere perplesso di come possa essere gestita in modo virtuoso una Zes così ampia, e suggerisce  che in ogni caso bisognerà concentrare l’interesse sulle aree portuali alle quali facevano capo le otto Zes, come erano state concepite in una prima fase.  

Mentre per il Pnrr la critica ad alcuni sistemi  relativi agli asili nido che vengono, con il sistema adottato, dati a chi li ha già ed ha capacità di vincere i bandi  é dura. Quando si tratta di diritti il sistema dovrebbe essere quello dell’obbligo di portare avanti i progetti, di averli forniti dal Centro e di  sostituire  le amministrazioni locali nel caso di inadempienza o incapacità. E l’Italia non si può permettere di perdere anche questa occasione. 

I dati snocciolati sulla povertà, sullo spopolamento, sul lavoro femminile (sette donne su 10 che non lavorano), l’obiettivo di diventare la Rotterdam d’Europa difficile da raggiungere, fanno riflettere su una occasione unica da non perdere, senza voler ripetere luoghi comuni diffusi. 

Se il Sud e il Paese mancano quest’ultima occasione bisognerà rassegnarsi a perdere 8 milioni di abitanti da qui al 2080. Ma può un Paese come l’Italia competere con francesi e tedeschi non mettendo a regime il Mezzogiorno? Lasciando il 33% della popolazione non a regime senza scossoni sociali, come quello che si annuncia con l’autonomia differenziata, che facciano saltare le basi della coesione? 

Sono domande che sembrano di fantapolitica ma che sono assolutamente attuali, anche se sembra che le forze di maggioranza e di opposizione non si pongono. Nemmeno nelle parti più avvertite che in altre occasioni hanno dimostrato un senso dello Stato e delle Istituzione che ha salvato il Paese da derive semplicistiche e spesso anche populiste. 

Dire che il Paese sarà quello che il Sud sarà é una frase abusata, ma sempre assolutamente valida e condivisibile. E certamente il nostro Paese, dopo 162 anni dalla unificazione politica, non può aspettare ancora per quella economica. Ma nessuno regalerà nulla e il Mezzogiorno ancora non riesce a mobilitarsi sul principio “aiutati che Dio ti aiuta”. La scarsa presenza di movimenti meridionalisti alla presentazione del rapporto, tranne i vertici dell’associazione Guido Dorso, la dicono lunga sulla mancanza di un lavoro di squadra assolutamente indispensabile. 

Quando ci convinceremo in più che ormai non serve l’approfondimento tecnico per capire cosa bisogna fare quanto la forza politica per imporre le soluzioni dei tre drivers manifatturiero, turismo e logistica, il problema/opportunità del Mezzogiorno si avvierà verso la soluzione. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’OPINIONE / Tonino Russo: Servono azioni per vero sviluppo e lavoro, non assistenzialismo

di TONINO RUSSOLe previsioni della Svimez per il triennio 2023-2025 ci parlano di un Sud che ha partecipato attivamente alla ripartenza nel biennio 2021-2022, anche se si registra che “il Pil del Mezzogiorno, nonostante la ripresa sostenuta, rimane ancora di oltre sette punti al di sotto del livello del 2008, da quando ha preso le mosse una lunga stagione di ampliamento dei divari territoriali”.

L’analisi dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno ci dice anche che restano non sciolti i nodi drammatici del lavoro povero, dei bassi salari, della precarietà dell’occupazione: questioni che riportano in primo piano l’esigenza di tutelare le fasce deboli della popolazione, ma al tempo stesso l’urgenza di promuovere politiche attive del lavoro, perché i sussidi erogati in favore di chi si trova in situazioni di grave disagio non si trasformino in forme di assistenzialismo che mortificano la persona e non fanno crescere il tessuto delle nostre comunità nel suo insieme.

Così com’è importante, più in generale, coinvolgere i lavoratori nelle scelte che riguardano la gestione delle aziende, come si propone la Cisl promuovendo la proposta di legge di iniziativa popolare per l’attuazione dell’art. 46 della Costituzione: la partecipazione fa crescere l’impresa, migliora produttività e redditi.

Tornando al Sud e alla Calabria, non c’è dubbio che la coesione sociale sia fortemente a rischio nel nostro territorio e che sia necessario impegnare maggiori risorse per la tutela dei soggetti fragili anche rilanciando le politiche regionali di welfare, perché nessuno sia lasciato indietro. Ma è fondamentale che si attivino, al tempo stesso, processi di formazione per nuove competenze, realizzare le condizioni per agganciare crescita e ripresa, per creare nuovo lavoro.

La stagione dell’assistenzialismo, pur necessaria, deve essere finalizzata non a perpetuare dipendenze, ma a creare autonomia, a restituire dignità alle persone. È questo l’obiettivo verso il quale tendere, non limitandosi alla protesta, ma partecipando senza stancarsi ai tavoli nazionali e regionali del confronto, proponendo soluzioni per un utilizzo efficace dei finanziamenti del Pnrr, dei fondi per la coesione, di tutte le risorse disponibili per lo sviluppo. Oggi più che mai non serve il conflitto che rischia di essere fine a sé stesso; serve invece un grande patto sociale per un’alleanza a favore del lavoro(tr)

[Tonino Russo è segretario generale di Cisl Calabria]