di MIMMO NUNNARI – Le prime Università in Italia nacquero nel Medioevo prevalentemente con lo scopo di formare il futuro clero; poi, col tempo furono ammessi anche studenti laici e si cominciò con lo studio di Lingua latina o Grammatica, Retorica e Dialettica e Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica.
Stiamo parlando di un periodo a cavallo tra l’XI e il XII secolo, quando nacquero Bologna (1088) – cui spetta anche il primato di Università più antica dell’Europa – Padova (1222) e Napoli, fondata nel 1224 da Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia, che ha invece il primato di primo ateneo statale.
Se allarghiamo lo sguardo al mondo scopriamo che il primo centro di produzione e diffusione del sapere nasce in Africa nell’859, con l’ateneo di Al Qarawiynn, che si trova in Marocco, nella città imperiale di Fès, cui segue l’Università Al Azhar del Cairo, fondata nel 975. Facciamo questo tuffo nella storia delle Università per sottolineare quanto importanti queste istituzioni siano state nel gettare le basi per lo sviluppo, lavorando a pianificare e costruire il futuro e consentendo a territori e comunità di agganciare più facilmente il trend della crescita e del progresso.
Oggi, in una concezione moderna, le Università sono viste come depositarie di una sorta di “responsabilità morale”: istituti in grado anche di promuovere pratiche sostenibili, capaci di fornire alle generazioni future gli strumenti necessari per affrontare e gestire un mondo sempre più eco-sostenibile e solidale. In Italia, anche in questo settore del sapere, da sempre si sono fatti due pesi e due misure.
Nel Sud più periferico – Calabria e Basilicata, per fare un esempio – gli atenei sono stati istituiti soltanto molto secoli dopo le altre. Nel 1972 è nata Cosenza e nel 1982 Potenza, università regionali che sono arrivate non solo in ritardo ma con enormi difficoltà dopo umilianti attese, dinieghi, ostacoli, cavilli burocratici, diritti negati.
Per fortuna, pur dopo secoli, il gap nord sud in questo campo è stato in qualche modo colmato e adesso in Calabria ci sono tre Università statali: l’Unical di Cosenza, la Mediterranea di Reggio, la Magna Grecia di Catanzaro, atenei che hanno dato (e danno) tanto alla regione, formando laureati e ricercatori in grado di competere con chiunque, a livello nazionale e internazionale. L’Unical – che è stata la prima – continua a macinare risultati, ed è sul podio, tra altri grandi atenei italiani.
La Mediterranea si è guadagnata riconoscimenti importanti per gli studi di Architettura, Ingegneria e Agraria e la Magna Grecia ha una sua collaudata esperienza per le facoltà di Giurisprudenza e Medicina. Se questi tre Atenei riuscissero a mettere insieme le enormi potenzialità la Calabria ne trarrebbe sicuramente vantaggio. Accade tutto questo? A chi guarda dall’esterno sembra di no. Salvo rare, occasionali collaborazioni, gli atenei calabresi appaiono più in conflitto, anziché in armonia, tra loro. Sembra abbiano ereditato il vecchio vizio della politica calabrese, che vive di municipalismi, rancori, provincialismi, senza capire che le differenze, se messe insieme, sono ricchezza.
Domanda: serviva creare tre facoltà di Giurisprudenza in regione (Catanzaro, Cosenza, Reggio), cui si può aggiungere Messina, che sta lì, ad un braccio di mare? Tutto ciò in un territorio che conta un numero di avvocate e avvocati che lo rende il più densamente popolato di professionisti: con quasi sette avvocati ogni mille abitanti. Altra domanda: serve un’altra facoltà di Medicina, oltre Catanzaro? In questo caso la risposta è sì: per una serie di ragioni, locali e nazionali, come carenza di medici generici, di specialisti, di strutture sanitarie che assicurino a tutti il sacrosanto diritto alla salute.
Tuttavia, già la sola ipotesi che possa nascere una nuova Medicina (all’Unical) ha scatenato istituzioni, politica, opinione pubblica e vertici dell’ateneo catanzarese. Sono stati fatti pure cortei (funerali) di protesta, portando in processione bare; cose di pessimo gusto. Addirittura si chiama in causa il Consiglio comunale per evitare gli “scippi” e il rettore della Magna Grecia Giovambattista De Sarro dice un no, chiaro e deciso, a un’altra facoltà di Medicina: “Non aiuterebbe”, rivendicando che Catanzaro ha 40 anni di storia e ammonendo: “Nessuno può improvvisare di fare il docente a Medicina, ci vuole una conoscenza delle problematiche che non si inventa in due giorni o in due anni”.
Un ragionamento sbagliato, nella regione con la sanità più massacrata d’Italia, senza contare che una sana competizione aiuterebbe Catanzaro, anziché danneggiarla: quantomeno servirebbe alla facoltà catanzarese a scalare la graduatoria dei migliori e dei peggiori corsi medicina in Italia (fonte Censis) che trova in testa Pavia (108 punti) mentre Catanzaro è al terz’ultimo posto (71,5 punti), poco prima di Chieti-Pescara, che è l’ultima. (mnu)