di FRANCO CIMINO – Quando scompare una persona, tra il dolore e il distacco si muovono tante emozioni e sensazioni, talune tra loro contrastanti. La dipartita di Guido Rhodio ne procura non poche. La prima è di stupore, di senso di sorpresa, che si racchiude in «ma come, Rhodio è morto?».
E l’altra, di dispiacere autentico. La frase più comune, che ho sentito e letto dalla voce e dagli occhi di tantissimi tra amici e semplici conoscenti, è anch’essa classica. Questa: «mannaggia, che peccato, mi dispiace moltissimo!». Tutte parole ed emozioni, vere e sincere, che io racchiudo in quella che è stata la mia immediata espressione, nella quale vi è lo stupore e il dispiacere, ma anche una sottile preoccupazione, quasi un timore interiore. È questa: «e adesso?». Sì, e adesso che facciamo?
Questa, la preoccupazione insidiosa. Tutto deriva da quell’uomo, che pur avanzando negli anni, progressivamente indebolendosi e gravemente ammalandosi, non ha mai smesso un solo istante di vivere appieno la vita. E di pensare, con lucidità abbagliante. Di sentire, con battito del suo debole cuore assordante. Di parlare, con quella voce acuta e tonante. Di scrivere, con quella sua penna intensa. E di vedere, con quegli occhi quasi spenti, in profondità irraggiungibili.
Tutto di questo straordinario universo di esperienze, di saperi, di studi e di studio nella ricerca continua, di sentimenti e di passioni, di intelligenza robusta e di parola alta quanto le idee che coltivava dopo averle cercate nell’Olimpo del magico pensare, egli generosamente donava. A tutti. A quanti andavano a trovarlo negli ultimi anni della sua obbligata “stanzialità”, e a quanti egli avrebbe potuto raggiungere con i mezzi della tecnologia alla quale con spirito fanciullo si applicava. Anche per dare sfogo al quel suo animo inquieto e al suo cuore cercatore. Chi riceveva qualsiasi cosa da lui, anche il rimprovero o la battuta ironica sempre pronta per sdrammatizzare le cose, che ne facesse tesoro o no, che la capisse bene o no, sapeva innanzitutto di ricevere una cesta enorme di sincerità e schiettezza. Da accompagnare, per tenerle sempre tesi, ai consigli, alle idee, alle proposte, alle sollecitazioni, che ti arrivavano in testa come la pioggia impetuosa d’agosto. E con rigore intellettuale prima ancora che morale.
Una lezione continua, la sua, simile a quella, per alcuni, dei maestri inascoltati, che prima o poi ti ritorna alla mente con la stessa forza che ha incontrato la tua respingendola. “ E adesso che si fa?” Ecco, sorpresa e dolore. Perché, tutti noi, come le sue adorate figlie e la sua amata moglie, non eravamo preparati a questa sua uscita di scena. E non possiamo fargliene una colpa, ché forse lui piano piano da tempo ci salutava. Siamo stati tutti noi a non volerlo capire, ché lui, uomo di profonda fede nella preghiera, ha resistito fin quando ha potuto. Fino al tempo che ha chiesto al Signore per mettere al sicuro i suoi infiniti amori. Tra i quali, non aggiuntivamente, ma oserei dire parimenti, vi erano le sue altre creature. L’Istituto, per esempio (questa era nella sua intenzione), per gli studi di Cassiodoro, alla cui vita e opere egli, insieme a mons Cantisani, il Vescovo infinito, il pastore illuminato, don Antonio Tarzia fondatore dell’omonima Associazione, Peppe Mercurio e mons Facciolo, aveva dedicato il tempo che trovava, moltiplicandolo magicamente, dagli altri numerosi impegni. E dagli altri suoi amori.
Lo studio della storia del luoghi, all’interno di quella più ampia locale e regionale. E, questa, a navigare nel mare grande della storia in generale, quella antica in particolare. La storia del mondo classico, nelle età che ci portano a quella Magna Graecia che era una sua passione sempre accesa. La storia, maestra di cultura e civiltà. La storia, una delle culle del sapere, in particolare quello filosofico e poi scientifica. Una sorta di camminamento illuminato per raggiungerli più facilmente. La storia, come conoscenza delle origini delle cosiddette altre storie. Non minori, non di secondaria importanza, ma filiali. La storia come strumento di comprensione del presente e vademecum culturale e politico per evitare di ripetere errori o di farne di gravi non potendo operare in alcun confronto con esperienze già vissute. La storia, come aiuto alla crescita della conoscenza del proprio Paese, fosse anche il piccolo di tutti, e all’amore per esso. Rhodio, che non volle farsi storico, studiava molto la storia e se ne rallegravava quando in lui cresceva e la conoscenza e la passione per la conoscenza. Intelligenza robusta e poliedrica, Guido si muoveva con leggiadria, anche quand’era stanco, fra i diversi saperi. Tutti, purché contenessero la cultura del bello. Era appassionato d’arte, sia quella materiale, “oggettistica” se posso azzardare una denominazione, lui mi perdonerà di averlo fatto, (prevalenti era l’interesse per le opere pittoriche e dell’artigianato artistico, o le sculture pur di piccole dimensioni), sia per quelle “bibliofile”.
A suo modo Guido era un bibliofilo. Divorava i libri con la lettura. Ed amava il libro in quanto oggetto raro, da non perdere. Acqua del sapere che sgorga dalla fonte. Cercava libri che altri abbandonavano. Per difenderli dalla rovina e dall’abbandono. E li conservava. Aveva una biblioteca di considerevole ampiezza, non solo fisica ma anche valoriale. Chi ne avrà cura per realizzare la sua volontà di consegnarla al pubblico e nei luoghi pubblici deputati, avrà da lavorare tanto, gioendo, però, assai di più. L’altra sua creatura, quella, insieme alla famiglia, più amata, è Squillace. Si potrebbero scrivere libri su questo amore “ pazzo” e, poi, ragionato, crescendo e formandosi, lui, in quel luogo abitato da giovanissimo e mai più abbandonato, la Politica. Squillace era per lui l’insieme dei variegati mondi che si muovevano in lui. Era la cultura, ben deposita, con la sua antica storia, nei luoghi più simbolici della Città. Era l’arte quella che si è potuta conservare attraverso le opere ivi presenti. Era religiosità e fede, ben radicate nella vita della Chiesa, sede episcopale, nei suoi antichi conventi, nel suo seminario, nelle sue pregiate chiede, tra le quali primeggia quasi imperiosa ancora, la Cattedrale.
Squillace era le istituzioni, che nel Comune trova il segno della pienezza della Democrazia. Era paesaggio, balcone che si affaccia sul mare e sguardo ai monti che lo proteggono amorevolmente. Era il punto d’incontro tra il mare e i monti, con una rapida carezza sulle brevi vallate che li separano e li uniscono. Squillace era, pertanto, la Calabria. Lo sguardo che lui, dal quel suo balcone, lanciava sulla Calabria era visione politica su come la nostra Terra dovesse, con la Democrazia del territorio, andare incontro al suo sviluppo e alla sua crescita culturale nella compattezza sociale. Squillace era la Politica, l’altra sua creatura in quella passione che lo accendeva come un fuoco. Politica, come servizio alla gente e spazio per la costruzione di grandi cose. Cose grandi in cui la ricchezza fosse un bene sociale e non la brutale forma della divisione tra i forti e deboli, con il prezzo che quest’ultimi, sempre più numerosi, dovessero sempre pagare all’egoismo di pochi. La Politica era anche la forma e lo strumento con cui poterla fare, militandovi.
Il suo, scelto da giovanissimo, con spirito cristiano e visione laica della stesso, fu la Democrazia Cristiana, il suo partito per sempre, tanto da pensare di poterlo ritrovare per le due idealità nella nuova formazione realizzatasi a sinistra. E qui mi fermo, perché rivederlo, mentre scrivo, nei luoghi che abbiamo insieme frequentato sotto l’egida di quella bandiera bianca scudocrociata, mi commuove fino alle lacrime. E poi, si è fatto tardi. Devo correre nella sua Città, divenuta anche nostra per il suo lascito di valori, dove tra poco lo saluteremo. Qui, per sempre. Per sempre qui.(fc)