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L'OPINIONE / Mons. Francesco Savino: Non è sufficiente condannare la mafia

L’OPINIONE / Mons. Francesco Savino: Non è sufficiente condannare la mafia

di MONS FRANCESCO SAVINO – Sento il dovere, innanzitutto, di ringraziare tutti voi qui presenti e, in particolare, i confratelli Vescovi, i relatori e gli organizzatori di quest’iniziativa, che si colloca come momento culturale particolarmente significativo nella serie di appuntamenti pensati per dare rilievo al decimo anniversario della visita di Papa Francesco in Calabria, nella Diocesi di Cassano all’Jonio.

Sono indelebili le parole che il 21 giugno 2014 il Papa pronunciò durante l’omelia della Messa, celebrata nella spianata di Sibari, nei primi vespri della Domenica del Corpus Domini: «Quando all’adorazione del Signore si sostituisce l’adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione; quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza. La vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa, che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».

Sul senso della scomunica e, in particolare, di quella con cui Papa Francesco ammonì i mafiosi, si sono interrogati i relatori che sono intervenuti nella due sessioni della tavola rotonda.

Occorre anche chiederci, guardando oltre la vita più consueta delle comunità cristiane: quanto quelle parole hanno scosso la coscienza dei mafiosi? E quanto quelle parole continuano a interpellare la nostra coscienza di cristiani, impegnati nella sequela del Risorto e inviati ad annunciare la vita buona del Vangelo in questo territorio?

Il rischio, infatti, può essere quello di ridurre la questione a ricercare e a elaborare una veste giuridica per configurare un nuovo reato nell’ordinamento canonico della Chiesa, con la conseguente sanzione. Ma è sufficiente la configurazione di un reato e della relativa pena perché le parole profetiche del Papa sortiscano l’effetto per le quali sono state pronunciate dieci anni or sono?

Certamente una tale prospettiva è utile, se viene considerata nel più ampio contesto del fine della pena canonica e, in particolare, della tipologia delle pene medicinali, a cui appartiene la scomunica, ovvero quello di fare in modo che il criminale receda dalla contumacia e ritorni nella comunione ecclesiale, garanzia della comunione con il Signore Risorto.

Tuttavia, per coloro che non hanno affatto a cuore la comunione ecclesiale, né tantomeno la propria comunione con Dio, che fine potrà mai sortire una eventuale scomunica? È chiaro che non è affatto sufficiente sanzionare quando manca quasi del tutto il senso di appartenenza al popolo di Dio.

È necessario, perciò, domandarci quale “conversione pastorale” richiedono le parole profetiche di Papa Francesco per l’evangelizzazione in Calabria.

Tenterò, perciò, di abbozzare alcune piste. La prima pista possiamo accoglierla nell’opportunità costituita dal cammino sinodale in atto che, ancor prima di offrire risposte e risultati, riconsegna uno “stile” di essere Chiesa che cammina insieme, che sa ascoltare, che dialoga con il mondo, che esercita la propria vocazione profetica a partire dalla testimonianza di una vera e propria “differenza” costituita dalla “vita buona del Vangelo”, che si pone con uno stile autenticamente diaconale nei confronti degli uomini e delle donne, di cui sa condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce” (GS, n. 1). Questo “stile”, antico quanto la Chiesa stessa, è davvero “sostanziale”. D’altra parte, la mentalità mafiosa attecchisce proprio quando alla fatica del camminare insieme si preferisce l’apparente facilità del ricercare e del perseguire innanzitutto interessi individuali o familiari, slegati dal bene della comunità.

Una tale mentalità diabolica – Papa Francesco nella sua omelia parla significativamente di “adorazione del male” – può insinuarsi anche nella Chiesa, a tutti i livelli e in tutte le sue articolazioni. Come Chiesa, perciò, saremmo condannati a tacere se noi per primi non facessimo continuo esercizio sinodale.

Una prima conversione pastorale, perciò, riguarda l’identità più profonda del nostro essere Chiesa. Solo praticando la sinodalità, infatti, potremo incidere significativamente su quella cultura marcatamente individualistica e familistica su cui si annida la cultura e l’organizzazione mafiosa.

In tale pratica sinodale rientra anche la fatica pastorale per la riqualificazione dell’Istituto Teologico Calabro, che da alcuni anni è al centro della riflessione di noi Vescovi calabresi e che, nei prossimi mesi, si concretizzerà. In questo processo di riqualificazione sarà urgente e necessario rilanciare le due licenze di specializzazione in teologia dell’evangelizzazione e in teologia morale sociale, sollecitando una teologia contestuale, che contribuisca significativamente allo sviluppo integrale della nostra gente e al bene della nostra terra di Calabria.

Una seconda “conversione pastorale”, di carattere più generale, ma urgente e cogente per un’evangelizzazione seriamente efficace in Calabria, riguarda la sfida e l’opportunità costituita dall’iniziazione cristiana.

In un contesto socio – culturale come il nostro, nel quale ancora, almeno per tradizione, le famiglie continuano a chiedere il battesimo per i propri figli e i fanciulli ricevono ancora, nella maggioranza dei casi, i sacramenti della Confermazione e dell’Eucaristia, le nostre Diocesi hanno la grave responsabilità di elaborare insieme percorsi significativi perché l’itinerario di iniziazione incida profondamente nella cultura della nostra gente e la conduca a testimoniare la vita buona del Vangelo nei diversi contesti.

Nonostante alcuni tentativi e alcune sperimentazioni in atto, il modello di iniziazione cristiana utilizzato nelle prassi pastorali delle nostre Diocesi, infatti, rimane quello collaudato all’inizio degli anni ’70 dello scorso secolo quando, almeno nella grande maggioranza dei casi, la prima evangelizzazione – come esperienza dei valori della fede.

Per il nostro Meridione quel sistema era già allora precario, perché alcuni dei tre “grembi generatori” – famiglia, scuola, paese – che quel modello implicava erano compromessi: lasciavano spazio a elementi sub-culturali ancestrali, custoditi e trasmessi dalla famiglia/clan, che contaminano la genuinità della fede con elementi di tipo religioso-magico. Così, alcuni “riti di passaggio” nelle famiglie/clan avvenivano e continuano ad avvenire in concomitanza con feste e momenti religiosi e più specificamente sacramentali. L’urgenza di un nuovo modello di iniziazione cristiana è quindi improcrastinabile!

Non è sufficiente “condannare”. È necessario, piuttosto chiederci in modo autocritico dove abbiamo pastoralmente fallito come Chiese in Calabria e riscoprire il potenziale che il Vangelo offre per una vera e propria trasformazione culturale.

In questa direzione, il cammino sinodale in atto sta ricordando alle nostre comunità cristiane tre attitudini fondamentali perché possano tornare a essere grembi generativi, soprattutto in Calabria: la capacità di discernere, ovvero la capacità che si ha di porsi dentro il presente convinti che anche in questo tempo è possibile annunciare il Vangelo e vivere la fede cristiana; la capacità di vivere forme di adesione radicale e genuina alla fede cristiana, che sanno testimoniare già con il loro semplice esserci la forza trasformatrice di Dio nella nostra storia; una revisione del legame ecclesiale, in grado di renderne visibile il carattere missionario ed

In Calabria e non solo in Calabria qualcosa di simile è stato proposto anche dai convegni regionali. Si è potuto sintetizzarlo secondo questa scansione: sulle orme di Gesù, nel suo nome e in continuità con la sua prassi, la comunità cristiana compie [o deve riprendere o cominciare a compiere] anche oggi questa triplice attività: attività kerygmatica, attività liberatrice, attività convocatrice.

Per la prima (Kerygmatica), l’evangelizzazione deve necessariamente essere profetica, secondo una declinazione che è una progettualità confrontata continuamente con quella del Regno di Dio, o meglio con il progetto già in fieri della regalità di Dio e, pertanto, secondo una progettualità profetica e testimoniale, che mira ad un’anticipazione escatologica attraverso una formazione critica e autocritica.

Per la seconda (liberatrice) l’evangelizzazione diventa prassi continua come ministerium visitationis (a fronte delle tante e spesso immani solitudini esistenziali di oggi), ministerium consolationis (riproponendo e attualizzando la tenerezza di Dio a fronte delle durezze e delle tante ferite dei nostri contemporanei) e come ministerium medicationis (curando e, ove possibile, guarendo le ferite umane e colmando il bisogno di felicità cui aspira ogni essere umano). Ne derivano un impegno permanente della comunità cristiana per la dignità della vita umana, per la salvaguardia del creato, per la difesa degli oppressi.

Per la terza (convocatrice) l’evangelizzazione genera continuamente, nello Spirito di Gesù e nell’accoglienza della sua Parola e della sua Prassi, una fraternità contemplante e agente, nel recupero continuo della significanza esistenziale, nell’impegno per rendere trasparenti i sacramenti e le nostre celebrazioni, nella condivisione di beni materiali oltre che spirituali.

Si vuole troppo? Si cerca di ritornare al Vangelo. Questo ciò che ci ha invitati a fare Papa Francesco il 21 giugno 2014.

Possiamo ancora restare indifferenti verso tale urgenza? La riflessione di questa tavola rotonda è un tentativo per dire con chiarezza il nostro impegno comune per l’evangelizzazione permanente nella nostra Calabria. (fs)

[Mons Francesco Savino è vescovo di Cassano allo Ionio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Calabra]