di FRANCO CIMINO – Sono alla tastiera per il mio solito appuntamento con la scrittura. Fermo, però. Le dita ancora non partono. Non si muove neppure il pensiero. E dire che io scrivo talmente tanto che ormai mi stanco prima di scrivere. Di più, mi affatica il pensare, la cosa più agevole che vi sia. La più leggera, di peso. La meno impegnativa, per qualità, per il suo modo di volare alto e di scendere piano, senza farti pagare nulla. Neppure la responsabilità di rappresentarlo. Pensare è la resistenza della libertà nell’uomo. La forza insopprimibile che lo lascia libero anche dentro le più dure prigioni. E che lo salva, quando si raccoglie nelle allucinazioni, dalla follia. Scrivere, poi, è la “liberazione” della libertà. Una cosa talmente bella e purificatrice che del dovere-piacere di farlo assillo i miei ragazzi. Ai quali non mi stanco mai di dire:”se, come è vero, leggere migliora la qualità della vita, scrivere la salva”. Scrivere di tutto di sé e del sé, quale sentire, si tiene dentro. Il sentire che ammutiamo. Il sentirsi che assordiamo. E quell’io profondo che continua a essere lo sconosciuto con cui camminiamo a fianco tutta la vita, salvo poi, per non molti accorgersene quando, però, ormai è troppo tardi. Quell’io, per nulla nascosto, che ci bussa in petto e scambiamo (tutti lo scambiamo) per rumore.
“Scrivete ragazzi, scrivete! Scrivete poesie!” Questo, prima di iniziare il programma delle diverse discipline che mi sono state assegnate. Specialmente, nelle classi prime. E, poi, ancora: “ragazzi miei scrivete un pensiero ‘filosofico’. Dai su, scrivetelo!” E loro inizialmente a resistere. Dapprima con il silenzio sbarrato, quindi con le frasi tipiche:” ma prof che dice, poesia, filosofia, ma qui siamo per studiarle, non per farle!” E quel loro sguardo, i nuovi, verso quel prof pazzo, che sfortunatamente gli é stato assegnato (è proprio a loro, poverini!). E gli altri ragazzi e ragazze, avanzati di corso, i miei vecchi studenti, diciamo, a pensare ciclicamente: “vuoi vedere che in estate il prof non sia uscito di testa o che non abbia preso a bere di primo mattino?” Infine, tutti a cedere generosamente dopo la risposta alla due domande. La prima: “ma come si scrive una poesia, prof?” La seconda:” come si pensa in “filosofico”?( estremizzazione mia personale del loro concetto). La mia risposta è sempre stata quella più incoraggiante, anche se la meno competente. Questa: “per scrivere una ‘poesia’, che sia la tua senza che della poesia ne abbia la pretesa, devi aspettare che il cuore batta. E forte. Tanto forte di emozione che sarà esso stesso a importi di scrivere.” Per la filosofia: “lasciare che, nel pieno silenzio, il pensiero si involi fino a quel punto del cielo in cui l’uomo sin dal suo nascere pensante, ha attaccato le domande a cui ha paura di rispondere. Anzi, ha paura di porsi. Sono le stesse tue, le mie, e quelle di tutti, che nascondiamo sotto il cuscino, esorcizziamo con i sogni, contrastiamo nel bagno della nostra preparazione mattutina, magari gettandovi sopra qualche canzone stonata a squarciagola o aspettando che la mamma ci bussi forte alla porta per denunciare il ritardo della nostra uscita”. E aggiungo ciò che sostengo da sempre. Soprattutto, ora. “Noi siamo tutti poeti e filosofi e, perché no ?anche psicologi. Come il corpo è fatta per i tre quarti d’acqua, il resto di noi è composto di pensiero e sentimenti, di emozioni e sensazioni. La poesia è in noi, la poesia siamo noi. E così nel pensare è l’uomo che si eleva dalla finitezza della materia che lo copre”.
Vabbè, l’ho fatta lunga anche questa volta. Lunga e noiosa, con una ridondanza che forse rappresenta lo sterile tentativo di coprire la mia difficoltà di scrivere oggi qualsiasi cosa. Eppure, il cuore mi batte fortissimo che quasi non riesco a trattenerlo in petto. E la mente a stento riesce a contenere questa forza inarrestabile che le si muove con più intensità dentro. Inquieta, nervosa, spaventata, si muove. Pensoso delle gravi difficoltà della Città, vieppiù gravata dalle pesanti sofferenze da Covid, preoccupato per lo stato in cui versa la politica, qui da noi, arrabbiato per il modo in cui forze politiche di destra centro e sinistra e i numerosi sedicenti possessori di pacchetti di voti, stanno trattando le imminenti scadenze elettorali e con una disinvoltura “privatistica” che neppure nei condomini si registra più, avrei voluto parlare delle cose nostre. Sì, di Catanzaro. E a Catanzaro. Alla Città prima che ai cittadini. Avrei voluto avvertirla dei pericoli che corre in questo nuovo abbandono della politica. In questo completo abbandonarsi della politica alle beghe dei piccoli giochi di potere, tutti indifferenti alla umanità che soffre dentro il corpo ferito del sempre più incerto capoluogo. Avrei voluto dirle di me e dei miei propositi per poterla aiutare ancora. E più fortemente. E per poterla sostenere secondo i suoi bisogni e i miei sogni per lei. Lo farò domani.
La mia penna è andata dove più oggi batte il cuore. All’Ucraina, che da due giorni tiene anche me attaccato al televisore. Le immagini che arrivano dalle dirette televisive, solo interrotte, e disturbate dal parolaio dei numerosi esperti nei salotti “antagonisti”, sono dure. Devastanti. Sono anch’io con il fiato sospeso dinanzi alla paura che si compia la minaccia della Russia di dare l’assalto finale alla popolosa Città di Kiev, con le migliaia di morti che copriranno di corpi e di sangue le strade della capitale. Impressiona il coraggio del giovane presidente della Ucraina, cui le truppe russe danno la caccia per toglierlo di mezzo nell’avanzata dell’esercito invasore. Commuove la sua rinuncia alla salvezza per lui e la sua famiglia, che gli USA gli hanno offerto con una operazione al bisturi, che lo vedrebbe prelevare per portarlo in Inghilterra o negli stessi States. Commuove la resistenza in armi degli uomini e delle donne che sono rimasti in quella terra per difendere, con il proprio stesso corpo, la patria aggredita. Commuove, fino alle lacrime, quel pellegrinaggio verso la salvezza di centinaia di migliaia di famiglie e persone che tentano di fuggire dalla guerra per poter mettere in salvo i vecchi e i bambini. E commuovono assai di più proprio loro, i bambini. La guerra, lo ripeterò fino alla noia, è sempre un delitto contro l’umanità. E non c’è ragione mai che la giustifichi in chiunque la porti, specialmente nei confronti dei deboli e dei popoli che vogliono essere liberi. La guerra fa schifo. E dobbiamo dirlo anche a quanti, con sottigliezze incomprensibili, di tipo ideologico, mettono sullo stesso piano aggressori e aggrediti. La guerra non si combatte con le ragioni della guerra. Ma con quelle della Pace, e non perché essa sia la sua faccia opposta. Come per il bene, il male e per la bellezza il brutto, la Pace è un valore assoluto che annulla a priori tutti gli elementi negativi. Il mio pensiero particolare oggi è ai bambini ucraini, a quelli che sono costretti a fuggire, ai tanti che sono già morti e il cui numero non sapremo mai. Ai loro genitori che ne piangono il distacco. Ai loro padri che rischiano la vita per difendere il loro paese. Il mio pensiero va alle donne ucraine, e a quelle polacche e bielorusse, che con eguali sentimenti, vivono nella nostra Città una sofferenza indicibile. È per tutte loro che chiedo il nostro massimo impegno, quello del Comune in particolare, la massima vicinanza, materiale e morale, per sostenerle pienamente. Adesso che, finalmente, Catanzaro potrà vederle e riconoscerle oltre le pareti di quelle abitazioni nelle quali svolgono un lavoro indispensabile per la buona tranquillità delle nostre vite. E per tornare ai nostri ragazzi delle scuole, domani, lunedì, gli si dica loro:” dai su, scrivete una poesia!” Quanto dolore vero e quanto amore leggeremmo! Un primo passo verso la Pace. Da qui. (fci)