UN ANNIVERSARIO DI LUTTI E DRAMMATICI RICORDI: L'OCCASIONE PER UNA REALE PACIFICAZIONE DELLA CALABRIA;
Reggio 1970

LE TANTE LACRIME DI REGGIO, 50 ANNI FA.
QUANDO LA CITTÀ PRECIPITÓ NEL BUIO

di SANTO STRATI – Non c’è niente da celebrare, in questo 50.mo anniversario della Rivolta di Reggio. Non sono d’accordo sul nome dato al Comitato (del quale peraltro con molta cortesia il sindaco Falcomatà mi ha chiamato a far parte) e ritengo opportuno dedicare solo un commosso e sincero ricordo ai caduti, dell’una e dall’altra parte. Questi 50 anni sono trascorsi senza lenire le lacrime e le ferite di una città abbandonata, sola e ferita, “ricompensata” con la sede del Consiglio regionale e con tante promesse mai più mantenute.

Come e perché successe saranno gli storici a dircelo, ma le ricostruzioni di parte che hanno ripreso a circolare non fanno che spargere sale su ferite mai rimarginate. Il punto principale, a ben vedere, è che è stata una lotta tra “poveri” e, peggio, tra calabresi, dove antiche rivalità tra la Città dello Stretto e Catanzaro sono emerse per responsabilità di politici distratti e assenti, forse troppo occupati a coltivare il proprio serbatoio elettorale, piuttosto che ragionare in termini positivi per il bene comune, per il benessere dei calabresi e della loro terra.

Non è stata, come qualcuno superficialmente, insiste a dire una guerra per un pennacchio, ma sono esplose le umiliazioni di anni, il senso dell’abbandono, la sensazione del tradimento e della cattiveria, come se ci fosse una punizione divina da eseguire, in termini politici. Certo, la classe politica reggina era di poco spessore rispetto ai “giganti” che potevano vantare Cosenza (Mancini e Misasi) e Catanzaro (Pucci) e questo ha contribuito rendere inutili e superflue le lamentazioni e le difese delle ragioni del popolo reggino. Ma, quello che è ancora più infelice da rilevare è che la nascita delle Regioni che doveva consolidare i territori e dare nuova spinta all’autonomia prevista dalla Carta costituzionale, in realtà si trasformò in una epocale rissa tra città e campanili, impedendo quella comunità d’intenti che avrebbe portato a uno sviluppo armonico e più consono a tutta la regione. La conflittualità latente tra Reggio e Catanzaro scoprì il suo nervo debole: addirittura nell’attuale capoluogo ci fu chi tentò di aizzare e organizzare le masse contro le “pretese” dei reggini.

Facile, con l’occhio del poi, argomentare che non ci sarebbe voluto molto per ipotizzare un piano di sviluppo che coinvolgesse tutte le tre città calabresi (poi sarebbero nate le altre due province Crotone e Vibo Valentia) per un obiettivo comune: la lotta al sottosviluppo e un corale impegno per la crescita.

Lavoro, occupazione, benessere non erano, né sono, appannaggio di cosentini, reggini o catanzaresi: erano (e sono) un obiettivo da raggiungere per dare un futuro alle nuove generazioni di calabresi, di qualunque luogo.

Purtroppo, del pacchetto Colombo rimangono le ciminiere abbandonate della Liquichimica a Saline, gli agrumeti della Piana distrutti per un centro siderurgico che non ha mai visto la luce (con quale criterio di pianificazione industriale si poté mai pensare al ferro?), e il palazzo del Consiglio regionale. Un po’ poco per una Città che, per colmo di stravaganza, è diventata poi “metropolitana” cancellando la “provincia” senza riuscire a creare quel collante necessario per dare unità ai suoi 96 comuni.

Il capoluogo a Catanzaro ha offerto migliaia di posti di lavoro per burocrati e affini e la parvenza di un potere che non conta nulla: alla fine, probabilmente, non valeva le rivendicazioni – a volte ridicole, a volte banali – della Città dei due Mari. A testimonianza di un’inutile quanto esagerata manifestazione di potere c’è oggi il Palazzo di Germaneto, una Cittadella che vale molto, ma molto di meno dell’adiacente Policlinico universitario, che – quello sì – è vero orgoglio catanzarese. La facoltà di Medicina del Capoluogo ha espresso eccellenze di altissimo livello, la ricerca scientifica ha raggiunto risultati importantissimi e di grande rilevanza.Come l’Università di Cosenza, l’Unical, partita come unico ateneo della regione, e diventata poi un centro di eccellenza, soprattutto nel campo dell’innovazione e delle nuove tecnologie. Come è salita agli onori accademici, l’Università Mediterranea di Reggio. I tre atenei lavorano insieme e sono gli unici ad avere raggiunto l’unità d’intenti che la Calabria ha sempre sognato, con un obiettivo nobile: creare formazione, specializzazione e occupazione per i nostri giovani ai quali, qualcuno fino a pochi anni fa, ha sistematicamente rubato il futuro. La fuga dei cervelli calabresi non è una finzione, ma un’amara realtà, che va bloccata. Qualcuno sta tornando, moltissimi non vorrebbero andare via: lavoro a casa propria significa crescita e sviluppo per la propria terra e per i figli che verranno.

Ecco questo triste anniversario può essere l’occasione per una reale e definitiva “pacificazione” (consentiteci il termine) tra le Calabrie e i calabresi. Gli errori, gli orrori, i morti, le stragi, i feriti, i mutilati, gli arrestati, meritano ampia riflessione e soprattutto cordoglio, con l’augurio e la debole speranza che possa servire come esempio negativo di come non si governa con la violenza o con l’indifferenza. Il ricordo di quei giorni è praticamente vivo in chi ha superato i 60 anni: i giovani non sanno nulla, ma hanno diritto di conoscere, sapere e capire il perché. I ragazzi che tiravano sassi e molotov oggi hanno quasi settant’anni e non li ha mai abbandonati l’idea che non avevano ragione, ma la loro rabbia, ricordiamocelo, era figlia di un torto mai riparato. (s)

I NUMERI DI SEDICI MESI DI STATO D’ASSEDIO

Ancora oggi è difficile mettere nero su bianco i numeri definitivi della Rivolta di Reggio: iniziò il 14 luglio con uno sciopero generale e le prime barricate improvvisate, si quietò il 9 novembre 1971, con il ripristino delle libertà costituzionali per la città, che con il decreto il ministro dell’Interno Restivo aveva sospeso il 6 febbraio dello stesso anno. I morti all’interno dei fatti di Reggio sono cinque: Bruno Labate, Angelo Campanella, Carmine Jaconis e i due poliziotti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti. Il primo stroncato da un infarto durante un attacco dei dimostranti alla Questura di Reggio, il secondo colpito da una assurda sassaiola contro il treno che portava a casa il suo reparto, il II celere di Padova. Dobbiamo aggiungere a queste morti “della rivolta” le sei vittime del Treno del Sole del 22 luglio, il cui attentato non aveva niente a che vedere con i disordini reggini? E non si devono calcolare le cinque giovani vite di soldati stroncate accidentalmente durante i 16 mesi della rivolta? E non si dovrebbe aggiungere la misteriosa fine di cinque ragazzi anarchici che forse avevano scoperto carte “pericolose” sui disordini di Reggio e il probabile coinvolgimento di servizi deviati? Il bilancio è quasi 500 feriti tra le forze dell’ordine, oltre mille tra la popolazione civile, almeno dieci mutilati o invalidi permanenti. 1231 persone denunciate, di cui 446 in stato di arresto. I danni economici per la città di Reggio sono stati di svariate decine di miliardi di lire, impossibile calcolare quanto costò allo Stato questa rivolta frutto della “follia” di cittadini disperati e di politici indifferenti e volutamente distratti.