di PINO APRILE – Buon Primo Maggio, Sud. Buon Primo Maggio ai nostri ragazzi costretti a emigrare come i loro padre e i nonni, dopo aver studiato, conquistato livelli di sapere e saper fare che avrebbero dovuto metterli al riparo da quella sorte e invece, paradossalmente, sono diventati una ragione in più per andare via.
Questo non era mai accaduto, al Sud, in tutta la storia dell’umanità, da Neanderthal a Garibaldi e i Savoia. L’emigrazione, prima di allora settentrionale e soprattutto piemontese e veneta, passò al Sud, nella direzione inversa delle risorse meridionali che andavano a finanziare lavoro e infrastrutture in casa dei vincitori della guerra civile.
E non Buon Primo Maggio agli ascari che, nelle università, nei libri di scuola, nei giornali, nelle istituzioni, nei partiti, non spiegano perché i terroni sono costretti a emigrare da quando vennero imprigionati nell’Italia unificata (che andava fatta, non così), come una colonia interna, senza diritto a quanto, a loro spese, era garantito agli altri.
Buon Primo Maggio a quelli che hanno deciso di restare al Sud, nonostante sia più difficile fare le cose facilitate altrove, pure con i soldi rubati al Mezzogiorno dallo Stato e dall’economia razzista del Nord, d’intesa con governi succubi e parlamentari e classe dirigente complice meridionale. Pur senza i trasporti pubblici del Nord (strade, treni, aerei, porti iper-finanziati persino a perdere), fanno lo stesso e spesso anche più e meglio, questi meraviglioso “rimanenti”.
E son sempre di più, perché non vogliono rinunciare al bello e ai sentimenti di casa, del paese, della radice che li rende come sono. Sono quel movimento sociale ed economico che l’etnografo Vito Teti ha definito “Restanza”, una nuova branca dell’antropologia.
E non Buon Primo Maggio a quei meschini che, dalle istituzioni al crimine organizzato, all’invidia per quel che questi eroi civili riescono a realizzare, mettono loro i bastoni fra le ruote, mirano a strappare parte dei meriti e degli utili così miracolosamente prodotti.
Buon Primo Maggio a quelli che, andati via, tornano per nostalgia, per calcolo intelligente (visto cosa c’è “fuori”, scoprono quanto si può “a casa”). E fanno. Non sono un grande flusso, ma sono un fenomeno che non c’era e cresce, mentre diminuisce l’età di quelli che rientrano. Una volta erano professionisti a fine carriera, pensionati che ridavano vita alla casa ormai vuota dei genitori. Oggi sono giovani determinati, che hanno visto mondo e questo ha ridato valore al loro paese, da cui alcuni, magari, erano fuggiti maledicendolo, per le possibilità negate. Adesso, sono loro a dare al paese quelle possibilità.
E non Buon Primo Maggio a chi, alla guida della “Nazione” (ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò), vede i dati della disoccupazione al Sud che sono i peggiori d’Europa; della povertà, che è la più profonda e diffusa d’Europa, con le regioni meridionali tutte prime nella classifica di chi sta peggio; vede i dati dello spopolamento massiccio delle città e dei borghi del Sud, anche perché non ci sono le strade, chiudono gli ospedali, le scuole e, “per rimediare”, toglie il reddito di cittadinanza, non incentiva la formazione delle famiglie, non combatte il crollo delle nascite, addirittura finanzia, pure con i soldi dei meridionali, l’emigrazione dei nostri giovani, garantendo loro facilitazioni per l’affitto di casa, sconti e altro, ma al Nord.
Buon Primo Maggio ai tarantini che si sono ribellati alla complicità dei sindacati con i padroni delle acciaierie (tacquero persino sulla Palazzina Laf, dove i “disturbatori” venivano isolati, indotti alla malattia mentale e qualcuno al suicidio). Buon Primo Maggio alla memoria a Massimo Battista, il saggio e coraggioso operaio che non lo accettò, protestò, divulgò, seppe raccogliere intorno a sé altri lavoratori “liberi e pensanti” che non vendettero la dignità e i diritti conquistati con le lotte di tanti prima di loro, a prezzi altissimi.
E Buon Primo a Michele Riondino, che su “La Palazzina Laf” ha fatto un grande film che ci ha reso giustizia; e che con Antonio Diodato e Roy Paci anche quest’anno organizza il Primo Maggio di Taranto, dedicando il concerto a Massimo Battista, ora morto di cancro (Taranto è “terra sacrificale”, nelle mappe dell’Onu). Ricordo quando nacque il Primo Maggio della mia città: ero con Massimo e gli altri, accompagnato dal collega Gianluca Coviello, li intervistavo per scrivere “Il Sud puzza”, in cui li racconto.
E non Buon Primo Maggio ai sindacalisti che si vendettero la storia del sindacato, le vite e i diritti dei loro compagni di lavoro; i politici che sapevano della “Palazzina Laf” e non mossero un dito; i giornalisti, gli amministratori, i sindacalisti che erano a libro paga dell’acciaieria o ponevano la vita degli altri al disotto dei loro vantaggi personali o di fazione o “per quieto vivere” (non dei sacrificati, ovvio).
Trovo inutile continuare, perché penso che ci siamo capiti.
Io credevo di sapere cosa fosse il Primo Maggio, giovane presuntuosello perché giornalista di vent’anni (modestamente, capisciammè). E invece, me lo spiegò un fattorino precario, occasionale e semianalfabeta della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui lavoravo (ero stato trasferito da Taranto a Bari). Era cresciuto senza famiglia, orfano, e appena fisicamente in grado, se ne fece una, sfornando figli e campandoli di mille lavoretti, elemosina e tanta Divina Provvidenza. Lo chiamavano, per questo, Gesù. Molto anziano. Io i giorni in cui i giornali chiudono, vedi il Primo Maggio, lavoravo sempre, perché pagavano tre volte tanto e avevo molte cambiali da pagare (mobili, macchina…).
E Gesù venne al giornale anche il Primo Maggio, passava per un saluto, un caffè, una mancia. Era un narratore straordinario, intelligente e arguto.
«Gesù, ma sotto il fascismo?»
«Il Primo Maggio lo festeggiavamo lo stesso. Non potevi in piazza, il comizio… Così, andavamo a Torre a Mare (un borghetto marino alle porte di Bari) e mangiavano le sardine fritte tutti insieme. Se non avevamo i soldi (cioè quasi sempre…), ce li facevamo prestare, ma il Primo Maggio doveva essere festa. Quelli del fascio, vedendo questa gente tutta insieme a far festa, venivano a chiedere: “Beh, come si sta con il Duce?”. “Non ci possiamo lamentare”, rispondevamo noi: infatti, se ti lamentavi, la pagavi cara. “E che state festeggiando: il Primo Maggio dei lavoratori?”. “No”, dicevo e loro restavano disorientati, perché la frase non coincideva con quella “proibita”, “festeggiamo quelli che vivono del lavoro”. Non sapevano che fare e andavano via, con una mezza minaccia e mezza raccomandazione: “Non fate casini, se no…”. Manganello».
«Gesù, ma se t’avessero preso, con tutti quei figli… rischiavi!»
«Sì, lo sapevamo. Ma noi volevamo essere liberi».
E io che credevo di sapere, perché scrivevo, leggevo tanti libri e a vent’anni ero giornalista.
Grazie, Gesù. E Buon Primo Maggio, ma non a tutti, solo a chi vuol essere libero, ma soprattutto vuole che anche gli altri lo siano. E la prima libertà è quella dal bisogno. (pa)