di PIETRO MASSIMO BUSETTA – “Il nostro inverno demografico”, che è una definizione che fa un po’ paura, è cominciato da molto. E sa tanto di un letargo lungo, che non prelude però ad una primavera, ma invece ad un processo inesorabile di involuzione verso l’estinzione.
In realtà, gli Italiani che vivono nel nostro Paese rappresentano soltanto meno dell’1 × 1000 della popolazione complessiva mondiale. La nostra estinzione potrebbe essere irrilevante e certamente, in ogni caso, laddove si producono dei vuoti immediatamente essi vengono riempiti. Ma che è un popolo, voglia continuare ad avere una sua identità, ad avere una politica demografica tale da non estinguersi, con tutte le sue tradizioni e la sua storia, è non solo legittimo ma certamente opportuno.
Per questo è stata salutata con molto entusiasmo l’incontro sulla natalità che si è svolto a Roma. E Papa Bergoglio e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni bene hanno fatto ad essere stati ospiti della giornata conclusiva degli Stati Generali della Natalità. Insieme sul palco dell’Auditorium della Conciliazione hanno parlato di famiglia.
Anche se non dobbiamo dimenticare che tutto quello che si farà da oggi in poi avrà effetto soltanto, per esempio sul mercato del lavoro, fra diciotto- vent’anni. E che il prossimo futuro demografico, quello più vicino a noi, è stato già scritto.
La mancanza di figli stimola psicologi e sociologi a cercare le motivazioni profonde di un processo che riguarda in generale tutte le popolazioni che, laddove raggiungono livelli economici più avanzati e tenore di vita più confortevoli, sono portati a diminuire il numero di figli, o a non averne addirittura.
D’altra parte qualcuno dice che oggi avere figli è un privilegio di chi se lo può permettere, considerato che una filiazione consapevole prevede un impegno, non solo economico, estremamente rilevante. Ma se l’Italia nel suo complesso piange il Sud è in un affanno più grande.
L’inverno demografico che colpisce l’Italia, e non ci si deve stupire che sia diventato il Paese a più basso indice di natalità in Europa, riguarda oggi soprattutto il Sud. E i dati sono a dir poco allarmanti. Il decremento è di -6,3 per mille residenti a fronte di -2,6 per mille al Centro e di -0,9 del Nord. Evidentemente su questi dati vi è l’influenza dell’emigrazione economica verso le realtà settentrionali.
Le Regioni meridionali sono tutte nelle prime posizioni della classifica della perdita della popolazione. Mettendo a confronto i dati relativi ai nuovi nati e ai deceduti la Basilicata nel 2022 ha un tasso di natalità per mille abitanti di 6 e di mortalità di 13, il Molise 5,8 nati e 14,7 deceduti, Sardegna 4,90 contro 13 e Calabria 7,30 su 12,4 decessi. Arretra anche la Puglia con 6,7 nati su 11,4 morti, la Campania con 7,9 nuovi nati e 10,9 decessi e la Sicilia con 7,6 nuovi nati e 12,3 decessi.
È chiaro che su tale processo incide molto la mancanza di servizi sociali. Il numero limitato di asili nido, che spesso non consentono alle donne di lavorare, i pochi sostegni alle madri, che in altri paesi come la Francia sono molto consistenti. Ma anche la mancanza di lavoro che fa sì che al massimo in una famiglia ci sia un componente che ha una occupazione.
La maggior parte di coloro che fanno parte della non forza lavoro sono proprio donne, magari istruite, alle quali non viene dato alcuna opportunità di un lavoro che sia consono al loro livello sociale ed alla loro formazione. Tale evidenza fa riflettere ancor di più sulle conseguenze di uno sviluppo anomalo del nostro Paese, che registra un processo migratorio importante da una parte all’altra, che certo non aiuta ne incoraggia coloro che vogliono formarsi una famiglia. E che spesso si trovano a dover emigrare in realtà nelle quali, oltre alla carenza di welfare pubblico, viene a mancare anche la rete di protezione sociale rappresentato dalla famiglia.
Che certamente, parlo dei nonni, degli zii, se presente, costituisce un aiuto non indifferente soprattutto nei primi anni di vita dei bambini. Nel 2022 la diminuzione del numero medio di figli per donna riguarda sia il Nord 1,26, sia il Centro pari a 1,16, che il Mezzogiorno che si attesta anch’esso a 1,26.
Purtroppo abbiamo distrutto quella tradizione di famiglia patriarcale, esistente ancora in passato nelle comunità meridionali, per cui in molti di noi vi è il ricordo di una nonna che aveva avuto anche otto-dieci figli. Per il Sud si prospetta una società che non riesce a mantenersi, per la mancanza di equilibrio tra nuove e vecchie generazioni, per cui diventa difficile il sostegno anche pensionistico di una popolazione con una vita media, per fortuna, sempre più lunga, ma proprio per questo con esigenze sempre più rilevanti di una sanità adeguata.
Peraltro la situazione è aggravata anche dal fatto che coloro che sono andati via per mancanza di lavoro, spesso, ritornano, dopo il pensionamento, nella loro terra di origine. Aggravando l’esigenza di sanità, già non adeguata per coloro che sono stati sempre residenti.
Riflettere sulle condizioni già presenti, ma che si aggraveranno ulteriormente nei prossimi anni, non è un esercizio di puro studio ma deve avere conseguenze operative immediate che riguardino l’esigenza di una crescita consistente in tutte le parti del Paese, ed in particolare in quelle che hanno più possibilità di crescita.
Cosa assolutamente scontata tanto che lo stesso Luigi Einaudi già in un articolo del 23 giugno del 1900 sul Corriere della Sera affermava riferendosi al Sud: «quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi trascurati prima perché ritenuti troppo sterili».
Al di là di fattori sociali, di un sentire diffuso, l’aspetto economico di sopravvivenza, di servizi alla persona di diritti di cittadinanza diffusi ed adeguati diventano un elemento fondante di qualunque politica attiva per le famiglie. Compreso quel reddito di cittadinanza, ormai quasi cancellato, che darebbe ai cosiddetti occupabili maggiori certezze di poter affrontare periodi di difficoltà avendo un ombrello protettivo per superare momenti difficili.
Ma tutto questo prevede che vi sia una produzione di reddito adeguata alle tante esigenze di una società evoluta. L’Italia non può più accontentarsi di crescere allo zero virgola qualcosa ma deve puntare a tassi di incremento consistenti. Per questo è necessario ripensare in grande, e in questa visione anche il Ponte sullo Stretto di Messina diventa oltre che lo strumento per il recupero dei traffici mediterranei anche il simbolo di una volontà di giocare negli scacchieri internazionali un ruolo che ormai da anni abbiamo perso. (pmb)
[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]