REDDITO DI CITTADINANZA, TRA POLEMICA
ELETTORALE E SOSTEGNO PER I PIÙ DEBOLI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVoto di scambio o grido di dolore? Il reddito di cittadinanza continua ad essere un tema centrale rispetto all’andamento della competizione elettorale.

In molti lo ritengono uno strumento che è stato utilizzato in modo perverso da un raggruppamento politico senza scrupoli. Il Movimento Cinque stelle lo difende a spada tratta sfidando chiunque voglia eliminare una misura che, sostengono, ha salvato molti dalla povertà in un periodo particolarmente difficile, prima caratterizzato dalla pandemia ed ora da un aumento dell’inflazione che sta erodendo molti dei redditi degli italiani e delle pensioni, soprattutto quelle più basse. 

La cosa più facile é dire che incoraggia molti a scegliere di non lavorare, perché è molto più comodo avere un sussidio, che ti arriva mensilmente, piuttosto che faticare per avere un salario decente. E poiché tale strumento è utilizzato prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno il pensiero conseguente é che i meridionali sono nullafacenti, scansafatiche, e per essere completi aggiungerei anche mandolinari e mangia spaghetti. Completando la serie di luoghi  comuni che individuano le popolazioni dello stivale. 

Peraltro lo strumento ha colpito  pesantemente una certa imprenditoria del Nord che era abituata, soprattutto per i lavori occasionali e stagionali, ad avere tutta la manodopera che serviva loro. Ed in molti casi avere manodopera bianca e che parla in italiano è molto più comodo che  averla nera e che balbetta la lingua. Ma ha disturbato anche molta imprenditoria del Sud, abituata ad avere una massa disponibile che pressava  sul mercato del lavoro e che invece con tale strumento è venuta meno. 

Il tema è diventato di quelli dirompenti soprattutto perché  le forze politiche, che ritengono che tale strumento vada abolito o perlomeno pesantemente modificato, si sono convinte che abbia indirizzato il voto di molti elettori verso il Movimento5S, adesso partito, che del suo mantenimento ne ha fatto un cavallo di battaglia della campagna elettorale. 

Mentre dall’altra parte il Movimento 5S sostiene che è un loro merito aver saputo interpretare le esigenze di una popolazione marginale, che versa in stato di grande bisogno. Certamente non si può nascondere che alcune volte lo strumento può incoraggiare alcuni, abituati a vivere di espedienti, mettendo insieme reddito  di cittadinanza e lavoretti in in nero, a rinunciare ad un vero lavoro strutturato.

La verità però è che di lavori che abbiano una dignità sufficiente per essere chiamati tali,  nel Mezzogiorno, ve ne sono pochi e che le esigenze di un mercato del lavoro asfittico, nel quale l’offerta dei lavoratori sopravanza pesantemente la domanda delle imprese, sono sempre estremamente limitate.

Il macigno dell’esigenza della creazione di un saldo occupazionale di oltre 3 milioni di posti di lavoro,  per arrivare al rapporto popolazione occupati dell’Emilia-Romagna,  sta sempre lì ad incombere per dare quella spiegazione del fenomeno che molti non vogliono comprendere. Se ogni anno vi sono 100.000 persone che abbandonano la realtà del Sud, con un costo per le varie casse regionali di oltre 20 miliardi, considerato che ogni individuo per essere portato alla scuola media superiore  costa 200 milioni, è evidente che la realtà meridionale è più complessa di quanti la vogliano semplificare con stereotipi che sarebbe l’ora di abbandonare. 

E che invece la capacità di affrontare le difficoltà che la vita presenta é forse molto più grande nei ragazzi del Sud di quanto non abbiano coloro che evitano pure di  andare all’università, perché tanto il lavoro lo trovano facilmente dopo le scuole medie superiori. Tra parentesi non bisogna dimenticare che moltissimi di coloro che emigrano ogni anno, per  il primo periodo, che spesso non si limita a pochi mesi,  vengono aiutati pesantemente dalla famiglia, con rimesse importanti perché la remunerazione che percepiscono non è sufficiente per mantenersi fuori casa, cosa che provoca il primo salasso. 

 Il secondo si verificherà quando i genitori compreranno loro la casa nella periferia milanese. La gente del Mezzogiorno é in cerca di una forza politica che lo rappresenti, che si prenda carico di una problematica che dal 1860 è diventata sempre più irrisolvibile.

Stanca di vedersi utilizzare come colonia dove si può catapultare la Brambilla animalista a Gela, come la Fascina semi moglie a Marsala,  cerca, delusa  da molti partiti che dichiarano di volersene occupare solo a parole, qualcuno che la rappresenti adeguatamente e che possa contrapporsi ad una Lega che porta 100 rappresentanti nel Parlamento italiano, e ad un partito unico del Nord, nel quale si inserisce anche Bonaccini del PD, che vuole quell’autonomia differenziata che in assenza dei Lep, dei quali non si parla più, possa consentire ai bambini di Reggio Emilia di avere quei servizi che quelli di Reggio Calabria non riescono nemmeno a sognare. 

Per questo quello che viene dal Mezzogiorno e che andrebbe adeguatamente interpretato é un grido di dolore, una richiesta di aiuto, ma anche un moto di rabbia, perché ormai in tanti si sono stancati di essere sudditi, non di un re, ma di una realtà nordica che indirizza risorse, investimenti, infrastrutture, servizi in generale solo verso una parte.

E che al momento opportuno fa carte false per non perdere l’investimento della Intel, che porterà tanti posti di lavoro in un Veneto che non ha nemmeno il capitale umano da impiegare nelle fabbriche. 

Quando Conte dice a Renzi di provare a scendere tra la gente, senza la sicurezza che lo protegga, in modo assolutamente sbagliato perché  è sembrata una minaccia, evidenzia che il Sud è diventato una polveriera e che il pericolo che il bisogno possa portare a delle reazioni scomposte  é immanente.  

D’altra parte anche il segnale di Cateno De Luca, che oltre ad avere poco meno del 30%, non essendo supportato da alcun partito alle elezioni regionali siciliane, riesce a portare due rappresentanti nel Parlamento nazionale dà la dimensione di un disagio che non può essere ridotto alla questua di un popolo mendicante. 

Ma non mi pare che tali chiavi di lettura siano comprese da una realtà nazionale che continua il suo percorso, minacciando con Zaia di far saltare la formazione del nuovo Governo se non si procede immediatamente con quell’autonomia differenziata che sarà un ulteriore passo verso la secessione di fatto di una parte del Paese, che apre un panorama che potrebbe portare a  scenari non prevedibili. (pmb)

Biondo (Uil): Da politica mancata giusta attenzione su effetti del Pnrr in Calabria

Il segretario regionale di Uil CalabriaSanto Biondo, ha evidenziato come «in questa campagna elettorale manca dalla politica la giusta attenzione verso il Piano nazionale di ripresa e resilienza e le sue ricadute sul Mezzogiorno e, in particolare, sulla Calabria».

«Dobbiamo annotare, per l’ennesima volta – ha aggiunto – che il Sud viene considerato dalla politica un luogo da frequentare solo in occasioni elettorali, che abbondano di slogan ad effetto ma mancano di soluzioni concrete ai problemi reali del Mezzogiorno. Se rifiutiamo l’idea che manchi nella politica la giusta competenza per affrontare i problemi reali del Sud, dobbiamo accreditare il dubbio che ci sia malafede».

«Rispetto al Pnrr, che dovrebbe incidere su ripresa economia regionale già dal prossimo anno – ha proseguito – non si affronta una discussione seria, mentre purtroppo è ritornato prepotentemente nel dibattito politico elettorale il tema pericoloso dell’autonomia differenziata. Noi siamo convinti che per mettere a terra gli investimenti previsti dal Pnrr, per trasformare gli stessi in opere concrete e funzionali alla crescita economica, sociale e culturale del Mezzogiorno, sia necessario apportare delle modifiche mirate alle procedure attuative dello stesso».

«Queste modifiche dovranno intervenire in particolare in due ambiti – ha spiegato – sugli interventi che vedono come soggetti attuatori i Comuni beneficiari di risorse attribuite dall’amministrazione centrale su base competitiva e, poi, gli interventi di incentivazione a favore delle imprese. Intanto, dobbiamo dire che alcune procedure non prevedono nessuna clausola di protezione per quelle risorse che non vengono assegnate al Sud e alla Calabria, per mancanza di domande da parte dei Comuni ritenute ammissibili dai bandi».

«Conoscendo le difficoltà amministrative degli enti territoriali calabresi – ha detto ancora – se non verranno apportare delle modifiche ai meccanismi allocativi delle risorse e non ci saranno interventi per rafforzare la macchina pubblica nei territori, il rischio di perdere le provvidenze previste dal Pnrr è molto alto. Soprattutto per gli interventi che rientrano nell’area dei diritti di cittadinanza, la possibile mancanza di adesione ai bandi da parte dei Comuni è inaccettabile e, pertanto, richiederebbe l’intervento dello Stato».

«Per quanto riguarda l’ambito dedicato agli incentivi alle imprese, ancora – ha detto ancora – vi è il rischio concreto che questa parte di risorse sia assorbita, principalmente, dai territori nei quali il tessuto produttivo è più forte e dinamico. Per tali ragioni nelle aree più debili del Paese, come la Calabria, dal punto di vista degli insediamenti produttivi sarebbe necessaria una strategia organica, una politica industriale da parte del Governo per attrarre gli investimenti privati, che faccia leva sul progetto Zes, sul porto di Gioia Tauro, sull’area industriale che lo circonda».

«Se questi correttivi non dovessero essere applicati, purtroppo – ha annotato – non potrà mai essere chiaro definire dove andranno a finire queste risorse, se si disperderanno in centinaia di rivoli o, come nelle nostre speranze, verranno utilizzare per cambiare la narrazione del Sud e, soprattutto, della Calabria».

«Il 2023 non dovrà essere l’anno della disfatta per il Mezzogiorno – ha concluso – ma quello della sua definitiva rinascita. Per questo invitiamo la politica ad esercitare un’azione forte nei confronti dell’attuale Governo e di quello che uscirà dalle urne del prossimo 25 settembre finalizzata a correggere lo stato di fatto del Piano nazionale di ripresa e resilienza». (rcz)

RISCOPERTO IL SUD PER NON PERDERE VOTI
MA I MERIDIONALI NON SONO MICA FESSI

di GIOVANNI MOLLICACrediamo non si sia mai vista, in Italia, una campagna elettorale nazionale così sgangherata e becera. Adesso che è quasi terminata abbiamo l’impressione che il merito – o, meglio, il demerito – sia soprattutto di esponenti politici di sesso maschile. 

Che hanno ecceduto in attacchi personali (il nemico fascista, traditore della Nato, temuto da Ue e americani), in proposte cialtronesche (meno tasse per tutti, aumento delle pensioni, migliaia di nuovi posti di lavoro). 

Fino ad arrivare a più o meno aperte minacce da bulli di periferia (“…dovranno buttare sangue” e “…vieni senza scorta se hai il coraggio”).

Immaginiamo lo sconforto di Draghi. Viene il dubbio che il suo No a un nuovo incarico derivi dalla triste riscoperta dell’attualità del motto mussoliniano: “Governare gli Italiani non è impossibile: è inutile”.

In questo guazzabuglio di chiacchiere senza costrutto, diviene sempre più evidente che “l’agenda Draghi” è una pura invenzione: quello che un qualsiasi nuovo governo dovrebbe perseguire è “il metodo” dell’ex Presidente della Bce: affrontare i problemi del Paese uno a uno e con serietà.

E, soprattutto, dire la verità alla gente, anche se è poco gradita. Basta con le menzogne.

Solo Meloni – forse perché donna, più equilibrata dei maschietti e meno usa alla rissa e ai toni arroganti (chiedo scusa per il femminismo d’antan) – è rimasta una spanna al di sopra di polemiche. Più squallide che efficaci. Non parliamo di “politica” ma di “buona educazione”.

È anche vero, però, che le elezioni non sono un pranzo di gala e la conclusione della campagna elettorale merita qualche ulteriore riflessione. 

Vanno analizzati con realismo e crudezza sia l’eredità lasciata dall’attuale governo che gli aspetti più “politici” del confronto, sottolineando la sospetta tempistica con la quale alcuni leader hanno affrontato problemi che riguardano la vita dei cittadini.

In altre parole, la credibilità di un’iniziativa dipende anche dal momento nel quale viene proposta: le forze politiche che pontificano sull’energia solo quando appare imminente il suo razionamento sono poco affidabili, soprattutto se hanno ignorato il tema per anni. 

Magari irridendo con l’accusa di “sovranismo” chi sosteneva la necessità di una minore dipendenza dall’estero.

Lo stesso dubbio nasce se si parla di Ponte sullo Stretto, da realizzare immediatamente dopo essere andati al governo. 

Quando, solo poche settimane fa, chi oggi lo promette è uscito dall’aula per non votarne l’inserimento tra i programmi urgenti dell’Esecutivo.

Analogamente, gli strenui difensori di Draghi dovrebbero avere l’onestà intellettuale di ammettere che si è circondato di Ministri e Sottosegretari culturalmente e tecnicamente inadeguati rispetto ai pesantissimi compiti che il Premier aveva loro affidato. Giovannini, Carfagna, Gelmini e lo stesso Cingolani – a nostro personalissimo parere – si sono guardati bene dall’affrontare temi fondamentali per i loro Dicasteri. Che l’abbiano fatto per ignoranza (difficile!) o solo al fine di evitare grane, poco cambia perché il loro fingere di non vedere è la negazione del “metodo Draghi” ed espone il Premier all’accusa di “doroteismo”. 

Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.

L’esempio più eclatante è la Questione meridionale che si porta appresso un’infinità di “grane” – sarebbe meglio chiamarli drammi –, impossibili da occultare sotto il tappeto di media compiacenti. Così è accaduto che a pochi giorni dal voto è emersa la prorompente crescita del M5S nel Meridione, rendendo indispensabile una reazione da parte dei partiti che perdevano vistosamente i consensi che, scioccamente, credevano acquisiti.

In epoca non sospetta avevamo detto che solo chi era convinto che gli elettori del Sud fossero idioti poteva credere di prenderli in giro a lungo e in modo così volgare; ma evidentemente l’arroganza e il cinismo dei leader politici, degli opinion maker da salotto romano e dei direttori di media asserviti ai loro editori supera le più pessimistiche congetture.

Adesso sono in molti a tentare, pateticamente, di “metterci una pezza”.

Si è improvvisamente scoperto che “L’Italia non cresce se non cresce il Sud”, dopo che, per vent’anni, sono stati ignorati gli appelli di tanti meridionalisti disperati. 

Compreso chi scrive. Ci si accapiglia sul Ponte di Messina senza capire che è la premessa dell’individuazione di aree territoriali innovative, nelle quali sperimentare il futuro del trasporto, della mobilità e dell’economia green. 

Proiettandosi verso il Mediterraneo, l’Africa (Moraci).

Altro argomento che ha dominato la campagna elettorale è il ruolo dell’Italia nell’Ue e nel sistema politico internazionale. Non certo dal punto di vista economico (come sarebbe doveroso) né in quello geostrategico (da definire urgentemente, vista la nostra posizione geografica e quanto accade nel Mediterraneo) ma esclusivamente per quanto concerne lo schieramento. 

Ricorda l’intimazione “Amiken o Nemiken?” del soldato nazista creato dal grande Bonvi. Senza accettare la geniale risposta “Semplice conoscente”. 

Un’alternativa tragica che non dovrebbe essere la premessa ma la conseguenza logica delle prime due scelte. 

L’atlantismo può benissimo convivere con la nuova globalizzazione, senza essere figlio della Guerra fredda.

Aver evitato il confronto sulle fonti energetiche, sul futuro del Sud e sull’atlantismo sono solo alcuni dei tanti temi furbescamente utilizzati per mascherare la carenza di sensibilità sociale e di una vera cultura di governo da parte dei futuri policy maker. 

Speriamo che questo sia l’ultimo Parlamento imbelle, più legato alle poltrone che ad affrontare i problemi del Paese. Un Parlamento nelle cui spire Draghi è rimasto avvinto e dai cui riti (riteniamo) non vede l’ora di scappare.

Tornando all’oggi, era facile prevedere che l’aver fatto del Reddito di Cittadinanza l’unico efficace strumento di ricerca del consenso in un terzo del Paese diverrà un elemento di stravolgimento dei risultati elettorali e nella formazione di maggioranze omogenee. 

E darà nuovo vigore a metodi di governo basati sul compromesso. Finalizzati soprattutto all’ingresso nella “stanza dei bottoni”, allo scopo di non far fare ciò che serve veramente al Paese. Speriamo di sbagliarci. (gm)

L’AUTONOMIA PREMIA LE REGIONI RICCHE
MA IL SUD NON CHIEDE ASSISTENZIALISMO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA Il Mezzogiorno è diventato, negli ultimi giorni, da soggetto dimenticato nei programmi dei partiti ad elemento di attenzione notevole, da quando si è percepito che probabilmente molti dei seggi del maggioritario sono ancora contendibili. 

Ed allora il PD, che con Boccia era quasi pronto a varare l’autonomia differenziata nel Conte due, diventa difensore di un Sud che con essa verrebbe discriminato. Ma un’altra forza sta tentando di caratterizzarsi come difensore dei diritti del Sud, ponendosi in modo molto deciso a difendere quel reddito di cittadinanza, tanto contestato da molte forze nazionali, che hanno stupidamente consegnato al Movimento lo scudo di difensore di tale provvedimento. Si tratta dei Cinque Stelle che sulla base di tale difesa stanno recuperando molti dei consensi che avevano perso.

Il risultato è che l’immagine di un Mezzogiorno, che chiede assistenzialismo e norme che portino a fregare il pubblico, sta diventando prevalente. Eppure sul vero tema che dovrebbe essere centrale rispetto alle politiche ed ai programmi non si concentra l’attenzione né dei partiti né della opinione pubblica nazionale. 

Il vero tema è quello che si racchiude in pochi dati: popolazione del Mezzogiorno pari a poco meno di 21 milioni di abitanti, occupati, compresi i sommersi, 6 milioni e 100.000. In un rapporto funzionale, come quello esistente in Emilia-Romagna, gli occupati dovrebbero essere circa 9 milioni, quindi mancano all’appello oltre 3 milioni di posti di lavoro. Chi si stupisce del fatto che vi sia una popolazione così numerosa che ricorra al Reddito  di cittadinanza evidentemente ha poca dimestichezza con i dati.

Lamentarsi che vi siano tanti fruitori e poi lavorare, come ha fatto il ministro Giorgetti, per portare l’Intel a Torino, che costringerà migliaia di persone ad emigrare, visto che forza lavoro disponibile in Piemonte non se ne trova, è una contraddizione in termini. E assume come inevitabile il fatto che la gente del Mezzogiorno o debba trasferirsi, desertificando il territorio, oppure deve rimanere nei propri territori in una situazione di indigenza.

Ma l’attenzione a questa parte dello sviluppo purtroppo anche lo stesso Mezzogiorno non riesce ad averla adeguatamente, dando consenso non a chi propone un progetto  credibile in tempi non infiniti, ma piuttosto a chi promette ogni giorno di dare un pesce per sfamarsi senza mai insegnare a pescare. Bisogna invece gridare che il Mezzogiorno non vuole essere più assistito, ma vuole ritrovare la dignità di essere industrializzato adeguatamente, e questo non significa diventare la batteria del Paese, quanto piuttosto finalmente far funzionare le Zes  manifatturiere, che stentano a decollare, visto che non funzionano da moltiplicatori di consenso. 

Il Mezzogiorno deve pretendere che vi sia un progetto per la propria logistica, che preveda che i porti frontalieri di Suez siano messi a regime, collegandoli  adeguatamente con la rete ferroviaria italiana, costruendo il  ponte sullo stretto di Messina. Come pure che il turismo, oggi anche se in crescita, con presenze equivalenti per tutto il Mezzogiorno a quelli della sola Ibiza, abbia un progetto che lo faccia passare ad industria turistica, che riesca a dare occupazione adeguata ai tanti giovani. 

Il primo soggetto che dovrebbe rifiutarsi di essere trattato da mendicante, al quale dare le mollichine che avanzano dal lauto pranzo dei signori,  dovrebbe essere proprio il Sud. Pretendere che l’offerta di lavoro diventi tale da assorbire quei tanti giovani disoccupati che si offrono sul mercato, ma che non vogliono essere sfruttati con lavori stagionalizzati, contrattualizzati per quattro ore per poi farne dodici.  

Ma su un progetto di sviluppo vero del Sud non vi è alcun indirizzo, perché non ci sono idee, non vi è una visione sistemica, una volontà vera di affrontare e risolvere il problema, anche perché destinare risorse importanti al Sud, anche quando provengono dall’Unione Europea, significa sottrarle alle mille esigenze che un Nord bulimico continua ad avere, con il risultato non auspicato magari di mettere  fra l’altro il Sud in condizione di competere proprio con le realtà che si vogliono proteggere. 

Prima fra tutti i porti di Genova e Trieste che dallo spostamento dei movimenti nei porti del Sud temono di perdere la loro centralità.

È un approccio che invece di moltiplicare i tavoli a disposizione pensa che l’unico modo sia quello di tenere alcuni in piedi per monopolizzare gli unici posti a sedere. Approccio che viene teorizzato nel principio della locomotiva e dei vagoni, per cui un Sud, che per lunghi anni prima dell’Unificazione aveva rappresentato grandi eccellenze oltre che problematiche non indifferenti, diventa una palla al piede che rallenta lo sviluppo di tutto il Paese. (pmb)

[courtesy il Quotidiano del Sud / l’altravoce dell’Italia]

LO SPETTRO DI UN CAMBIAMENTO DEL PNRR
SPAVENTA IL SUD: SALVARE IL 40% DEI FONDI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – La storia degli ultimi anni ci insegna che le risorse che provengono dalla Comunità Europea sono sempre servite come un aiuto più che alle parti più fragili a sostenere il Paese. Contrariamente a quello che è accaduto alle realtà comunitarie che hanno utilizzato molto bene i fondi strutturali, il nostro Paese ha ritenuto l’utilizzazione di tali risorse come un fatto assolutamente marginale e riguardante soltanto le parti più disagiate. 

Il loro impiego o la loro perdita era un fatto che riguardava le Regioni e nemmeno spesso il Ministero per le politiche di coesione; il meccanismo del disimpegno automatico non era assolutamente studiato mentre l’unico correttivo che si poneva era quello di contenere le risorse ordinarie destinate a quei territori in modo che quelle definite strutturali servissero a sostituire quelle ordinarie. 

Che avessero effetto o che non si utilizzassero era un problema che non riguardava il Paese. Ogni tanto considerata l’incapacità strutturale di spesa, dovuta ad amministrazioni inadeguate ed alla mancanza di investimento nelle strutture amministrative comunali e regionali, per qualche emergenza si attingeva a tali fondi che spesso sono diventati il bancomat pronto all’uso. 

Il Next Generation UE ha cambiato l’approccio facendo capire al Nord che si presentava un’occasione unica con la quale venivano messi a disposizione del Paese oltre 209 miliardi, che potevano essere un’occasione importante per una serie di obiettivi da raggiungere e per finanziare numerosi progetti che per mancanza di risorse erano rimasti nei cassetti, soprattutto di amministrazioni ben dotate da un punto di vista amministrativo ed agguerrite nel caso in cui i progetti venivano messi a bando. 

L’occasione si è rivelata talmente ghiotta che gli equilibri complessivi del Paese si sono adattati a tale importante intervento dell’Unione Europea, che attiene al primo debito che ricadrà  su tutti i contribuenti comunitari. Le fasi che si sono succedute adesso ci vedono nella fase operativa della spesa, che dovrà concludersi per il 2026. Che ci fosse una volontà di continuare il gioco delle tre carte, in cui il Sud perde sempre, emerge dal fatto che l’unico progetto cantierabile, il ponte sullo Stretto di Messina, che vi era nel Mezzogiorno, non è stato inserito, con scuse risibili, nei progetti finanziabili.

Perché se è vero che probabilmente in quattro anni il Ponte sullo stretto non si poteva completare è anche vero che moltissimi dei lavori sulle due sponde di preparazione potevano essere finanziate con il Pnrr, cosa che non si è pensato minimamente di fare, mentre molte delle opere già finanziate con altre risorse, una per tutte la Palermo-Catania di alta velocità farlocca, 2 ore per duecento chilometri, viene inserita nel Pnrr per liberare risorse.  

Il retro pensiero che purtroppo pervade ogni decisione relativa alla spesa delle risorse europee è un mantra nel pensiero nazionale: “le risorse che vanno al Sud sono perse e non servono allo sviluppo del Paese”. 

Il concetto che vi sia una locomotiva che bisogna far correre, che fondamentalmente staziona dall’Emilia a Milano fino a Venezia, lasciando indietro peraltro anche la Toscana, il  Piemonte e la Liguria è qualcosa che ha pervaso il pensiero dominante nazionale, aiutato dalla propaganda continua di una Lega Nord, sedicente buona amministratrice di Regioni e Comuni, senza peraltro nessuna prova a favore.

Anzi con la pandemia si è vista come la ricca ed efficiente Lombardia sia caduta pesantemente, dimostrando tutta la propria inadeguatezza. Ricorderemo tutti l’assessore al welfare Giulio Gallera della Regione lombarda poi sostituito dalla Moratti. E prima la gestione del Veneto del Mose ci dimostra quanta sia falsa l’immagine propalata. 

Il pericolo che adesso si corre e che in un accordo, che vede insieme l’Emilia Romagna  di Bonaccini con Zaia e Fontana che nei rispettivi partiti hanno un peso non indifferente, si proceda ad un cambiamento del Pnrr, che porti a dirottare le risorse destinate per esempio per finanziare l’alta velocità Salerno Reggio Calabria o la Napoli Bari per aiutare le imprese energivore a chiudere i propri bilanci senza chiudere le imprese.

Operazione assolutamente opportuna se non prevedesse come sempre di utilizzare le risorse per il Mezzogiorno come il bancomat per tutto quello che di emergenza ci può essere. Ed allora l’attenzione deve essere massima, perché quel 40%, maldigerito dagli amministratori nordici, molto più contenuto della percentuale assegnata all’Italia sulla base di tre parametri, popolazione, tasso di disoccupazione, e reddito pro capite, che ha portato il Paese ad avere risorse molto più abbondanti sia a fondo perduto che in prestito di quanto non siano state destinate a Francia e Germania, diminuisca ulteriormente. 

E potrebbe scendere al di sotto del 33% della popolazione. Essere riusciti a chiudere il Pnrr destinando risorse importanti al Mezzogiorno, anche se più contenute di quelle che si dovevano assegnare, è stata una grande vittoria dovuta ad un Governo che è riuscito a contrapporsi alle volontà di tanti di limitare gli importi destinati ad esso.

Ma oggi il quadro politico probabilmente muterà. Il Partito Unico del Nord potrebbe ritornare alla carica, come sta facendo già nella comunicazione, per continuare a strappare altre risorse ad un Sud spesso disattento, nel quale i Presidenti delle Regioni non riescono a fare nemmeno una comunicazione congiunta sull’autonomia differenziata. 

L’attenzione è dovuta non solo per evitare che si continui quello scippo che è assodato avviene con i fondi ordinari, che se fossero destinati in base alla spesa pro capite dovrebbero essere aumentati di 60 miliardi, ma anche con quelli straordinari considerata la debolezza della amministrazione governativa centrale. E questo non per l’interesse di una parte ma perché come è chiaro a molti, il Paese sarà quello che saranno i giovani quel che saranno le nostre donne sopratutto del nostro Mezzogiorno. 

Pensare che basti tagliare lo stivale e farlo affondare da solo, soluzione semplicistica che pare vogliano adottare con l’autonomia differenziata, non è una soluzione per il Paese ma piuttosto un modo di  continuare in quella deriva che ormai da oltre 10 anni viene immaginata e temuta da Adriano Giannola. (pmb)

MEZZOGIORNO, STRATEGIA FALLIMENTARE
TOLGONO AL SUD PER LE REGIONI RICCHE

di GIOVANNI MOLLICA – Negli ultimi giorni, Calabria.live, ha ospitato una perfetta rappresentazione dell’incapacità di questo Governo di comprendere l’urgenza di cambiare la pluridecennale e fallimentare strategia adottata per interrompere il degrado sociale ed economico dell’estremo Sud e la perdita di competitività del Paese.

Lo spunto iniziale è venuto dall’articolo nel quale Roberto Di Maria stigmatizzava lo spreco di denaro pubblico derivante dal velleitario tentativo di ristrutturare la Logistica del glorioso porto di Genova, al fine di renderlo competitivo con gli scali del Mare del Nord.

Gli addetti ai lavori non condizionati da interessi diretti sanno bene che la Lanterna ha ormai ben poco da offrire al Paese. 

Doveroso modernizzarne le dotazioni, ma aspettarsi che possa produrre ricchezza analoga a quella di altre realtà mediterranee e anseatiche è una pericolosa illusione. O uno studiato inganno. Serve solo a togliere risorse a Gioia Tauro, Augusta e Taranto che rappresentano il vero futuro del Paese.

A tale riflessione si sono contrapposte le dichiarazioni del Ministro Giovannini che, al Meeting di Rimini, ha ribadito la validità del modello di portualità nazionale fondato sugli scali liguri e dell’Alto Adriatico. 

L’ottusa protervia del Ministro nel sostenere un’idea di sviluppo vecchia e ampiamente fallita non è passata inosservata: sia il direttore di Calabria.live, Santo Strati, che il segretario della Uiltrasporti Calabria, Giuseppe Rizzo, hanno contestato con durezza le parole di un ministro che mostra di ignorare il ruolo della Logistica nel mondo globalizzato, ma anche temi come la coesione nazionale e la Questione meridionale. 

Il che è ancora più grave. Triste dimostrazione della totale e acritica adesione alla stantia teoria del trickle down (gocciolamento) che concentra sulla parte ricca del Paese più risorse possibili nella convinzione che anche la parte povera, in qualche modo, ne trarrà beneficio. Quel “Put the money where the mouth is” (metti i soldi dove c’è la bocca) di thatcheriana memoria, espressione di un’iniqua cultura ultra liberista che tante ingiustizie ha causato nel mondo. Respinta da leader come Xi Jinping e Biden e in contrasto con le direttive europee sulla politica di coesione per uno sviluppo sostenibile, equilibrato e inclusivo. 

È veramente incomprensibile come Draghi, europeista per antonomasia, accetti senza reagire esternazioni che contraddicono platealmente il suo meritorio impegno. 

Spiace anche il prudente silenzio elettorale della Cgil e, soprattutto, della Cisl il cui segretario confederale, Luigi Sbarra, da calabrese, avrebbe dovuto reagire di fronte a quest’ennesima mortificazione dell’estremo Sud. 

Alle suddette denunce si è aggiunto – il 28 agosto, sempre su Calabria.live –  l’articolo di Pietro Spirito che, dando al tema un’interpretazione ancora più ampia, ha deplorato l’inadeguatezza del governo e delle forze politiche nell’affrontare un tema che determinerà gli assetti economici planetari dei prossimi decenni. 

Una mancanza di attenzione figlia di una visione della Logistica a trazione settentrionale sostenuta da forze politiche inadatte a guidare il Paese intero.

A questa situazione quasi disperata, si aggiungono i limiti della classe politica meridionale che, invece di coalizzarsi verso obiettivi comuni – neanche il leader di partito più ignorante può oggi credere che la Logistica e le sue derivazioni possano essere concepite su scala locale e non su modelli sovraregionali se non euromediterranei –, preferisce tentare di arraffare un consenso locale fragile quanto transitorio.

Sul quali moderne teorie di Economia dei Trasporti – e/o realtà di consolidato successo -, il ministro basi le sue balorde ricette non è dato sapere. Certo è che è ignora sprezzantemente l’autorevolissima schiera di tecnici, economisti ed esperti che hanno elaborato e continuano a divulgare solidi programmi neo meridionalisti che, oltre a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, favoriscono quella coesione che, incredibilmente, sembra essere il meno importante obiettivo dei governi italiani.

È ormai evidente che avere Giovannini come interlocutore è assolutamente inutile. Resta la speranza di suscitare l’attenzione del Premier, ultima dea per un Meridione il cui voto potrebbe dare risultati inattesi. 

Come nel 2018. Se ciò accadesse, si può essere sicuri che alcuni partiti accuseranno i cittadini del Sud di “avere sbagliato a votare”. (gmo)

C’È POCO MEZZOGIORNO NEI PROGRAMMI
PERÒ È BOOM DEL “TURISMO ELETTORALE”

di SANTO STRATI – In attesa di conoscere domani la composizione finale delle liste e quindi le candidature definitive per il voto del 25 settembre, non possiamo fare a meno di mettere in evidenza due aspetti di quella che si preannuncia una “cruenta” e pessima campagna elettorale.

Il primo riguarda tutta la popolazione del Mezzogiorno (un terzo degli italiani): nei vari programmi elettorali elaborati sì in tutta fretta c’è poca considerazione per il Sud, diremmo uno sguardo superficiale della serie “fa fine e non impegna”. Di tutte le belle parole e le dichiarazioni d’impegno programmatico, se vogliamo analizzare con cura i documenti proposti agli elettori dalle singole formazioni e coalizioni, non c’è da scialare. L’altro aspetto, non meno singolare, in grado di far arrabbiare il più tranquillo degli elettori, quello che crede ancora nella democrazia e nella scelta consapevole del voto, riguarda il fenomeno del “turismo elettorale”. C’è un gran daffare con spostamenti, a volte incompatibili con la logica della conoscenza del territorio, per attribuirsi un seggio, un collegio sicuro. La conferma che questa legge elettorale – il Rosatellum – che colpevolmente il Parlamento appena sciolto in quattro anni s’è guardato bene di aggiornare e modificare, neanche dopo la soppressione di 345 parlamentari votata da tutti quei partiti che adesso lacrimano a dirotto, questa legge elettorale fa davvero acqua da tutte le parti. 

L’hanno mantenuta cinicamente in vita con l’idea (sbagliata) di fottere l’avversario, gli uni contro gli altri, tutti convinti di poter usufruire del premio di maggioranza previsto dal Rosatellum, senza pensare che se già col vecchio parlamento di 945 membri eletti c’era comunque un problema a costituire una sana maggioranza in grado di sostenere senza affanno un governo, adesso, con la riduzione del numero dei parlamentari e la nuova mappatura dei collegi, c’è il rischio serio che non ci siano “posti sicuri” e garantiti. Il che, ovviamente, non è vero, salvo che gli elettori non s’incazzino veramente e puniscano i giochi di Palazzo fatti sulle loro teste. Per cui, tranne alcune blindature che fanno inorridire perché sicure al 99,9%, tutti i candidati se la giocano senza sapere come andrà a finire.

Facciamo il caso della Calabria: da 30 parlamentari ne sono rimasti a rappresentare la regione appena 19, con un nuovo disegno dei collegi che lascia francamente a desiderare. Un elemento spicca subito agli occhi: gli elettori della Piana devono votare i candidati del collegio di Vibo e quelli di Vibo devono scegliere per la loro area candidati di Palmi, Gioia e Rosarno. Vista l’antica e mai sopita rivalità tra il Vibonese e la Piana diventa davvero difficile immaginare un voto che non sia espresso malvolentieri. 

Un voto, per quel poco che vale la volontà popolare, che – a livello nazionale – porta a zero il valore delle urne: nei collegi plurinominali (ovvero a elezioni proporzionale) ci sono i “prescelti”  delle segreterie dei partiti o dei leader (il prof. Conte ne sa qualcosa, ma nessuno degli altri si salva, né Letta, né Berlusconi, né la Meloni, né Salvini a proposito di “nomi” calati dall’alto e assolutamente “intoccabili”). Bene, per questo s’è attivato il fenomeno, non nuovo, ma oggi portato a estreme conseguenze, che ci piace battezzare “turismo elettorale”. 

Giusto per fare qualche esempio, il ministro della Cultura, il ferrarese Franceschini va a Napoli, Maria Elena Boschi (Italia Viva) viene in Calabria, la Lorenzin (pd, romana, va in Piemonte), Fassino (pd, piemontese) corre in Veneto, ma la lista dei “fuorisede” è lunga. Se guardiamo in Calabria, non mancano i maldipancia in casa Cinque Stelle con i due magistrati paracadutati al Senato (Federico Cafiero de Raho, che è stato comunque procuratore antimafia a Reggio e un legame anche modesto almeno ce l’ha con i calabresi) e il palermitano Spampinato alla Camera. Premesso che l’unica possibilità di raggiungere il quorum per i Cinque Stelle sta nel voto di chi riceve il Reddito di Cittadinanza e ha paura di perderlo (ma non è detto che si rechi alle urne) i numeri del 2018 appaiono un miraggio lontanissimo e un ricordo molto sbiadito.Della pattuglia uscente (al di là delle rinunce: Morra, Corrado, Misiti, etc) sarà molto difficile trovare tracce nel nuovo Parlamento che uscirà dalle urne il 25 settembre.

Gli elettori sono a dir poco schifati da queste “scelte” fatte sulla loro testa e, ancora una volta, a cominciare da Letta e finire a Berlusconi, sono decisioni che non hanno tenuto in alcun conto i sentimenti della base (pur con qualche lieve eccezione in Calabria: a Reggio si candida Cannizzaro e a Vibo Mangialavori, espressioni del territorio).

Più che un invito al voto, sembra, quindi, un gioco delle tre carte: vince sempre e solo l’imbonitore (imbroglione) che propone abilmente la carta sbagliata agli allocchi che lo stanno a guardare.

Dopo la presentazione delle liste, ne riparleremo.

Torniamo, invece, per un momento ai programmi elettorali che trascurano come sempre il Sud. Belle parole nel programma PD che parla di cambio di paradigma per colmare il divario e genericamente indica la necessità di razionalizzare i meccanismi di incentivazione, per favorire l’occupazione. Francamente con un ex ministro per il Sud, oggi vicesegretario come Provenzano, proveniente dalla Svimez, era lecito aspettarsi molto, ma molto di più. 

Né cambia con la controparte: nei 12 punti del programma del centrodestra la parola Mezzogiorno nemmeno compare e per i 5 Stelle c’è solo il riferimento al stabilizzazione della decontribuzione per proteggere e creare nuovi posti di lavoro. Un po’ pochino, se permettete. 

L’unica formazione che si è ricordata del Sud (ma non raggiunge la sufficienza, se si deve dare un voto scolastico) che parla di risorse Ue per il Mezzogiorno con un capitolo dedicato che sviluppa in 12 punti linee programmatiche che appaiono più auspici che modelli di intervento. Auguri e speranze: le solite promesse elettorali da dimenticare il giorno dopo lo spoglio.

La verità è che la gente è disorientata, aggredita dall’inflazione, con la paura di un ritorno del covid e le ristrettezze che il continuare della guerra ucraina inevitabilmente dovranno essere introdotte. Avremo un inverno al freddo e da queste elezioni prevediamo un solo vincitore sicuro: chi fabbrica fazzolettini di carta. Ne serviranno tantissimi per asciugare le lacrime di chi non vedrà più né Montecitorio né Palazzo Madama e di quelli, poveri illusi, portatori d’acqua, pardon di voti, che per un istante, fino al 25 settembre ci avevano fatto un pensierino.

Il Rosatellum non premia capacità e competenza ma rivela la debolezza di una democrazia imperfetta che si misura con la crescita dell’astensionismo. Quest’ultimo spesso involontario (succede di frequente in Calabria), ma anche qui il Parlamento uscente ha fatto orecchie da mercante all’unica proposta seria, partita dai giovani del circolo Valarioti di Rosarno: “voto sano da lontano” (ovvero la possibilità di votare anche lontano da casa). Neanche per idea. (s)

MA QUALI MERIDIONALISTI DI PROFESSIONE
GIANNOLA DIFENDE RUOLO DELLA SVIMEZ

di SANTO STRATI – È passato quasi un mese dal Convegno di Sorrento promosso dalla ministra per il Sud Mara Carfagna con l’organizzazione affidata allo Studio Ambrosetti, ignorando del tutto la Svimez, ma la sottile polemica sui “meridionalisti di professione” continua a strisciare insidiosa.

È un modo di pensare che, alla luce delle ultime proposte della ministra Gelmini sull’autonomia differenziata (che è tornata improvvisamente alla ribalta) va respinto in toto, perché non si può ignorare il grandissimo sforzo e il ruolo precipuo recitato dalla Svimez a favore del Sud.

Non si può immaginare un “Mezzogiorno senza Svimez”, anche perché si farebbe torto ai padri fondatori Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno non erano figli del Meridione, bensì esponenti della politica e dell’economia dell’Italia industriale del Nord: basti pensare a Beneduce, Menichella, Giordani, Cenzato e Saraceno e al loro impegno per sostenere una politica di industrializzazione e di crescita che vedesse protagonista l’intero Paese e non soltanto le già sviluppate economie del Settentrione.

A dar fuoco alle polveri, con la consueta amabilità che lo contraddistingue è stato qualche giorno fa il presidente della Svimez Adriano Giannola con una lettera al Corriere del Mezzogiorno che aveva pubblicato un editoriale di Marco Demarco che ascriveva l’ostracismo riservato alla Svimez a una guerra d’indipendenza della ministra per il Sud rispetto a De Luca e ai “professionisti del Mezzogiorno”.

Secondo Giannola, “l’enfasi sulla presunta novità del «Mezzogiorno senza Svimez» si deve, probabilmente, alla “scoperta di una novità a ben vedere vecchia di trent’anni; un fuoco fatuo, un abbaglio per l’acuto interprete (Demarco) di vicende nazionali «viste da Sud».

Si commenta da sola – scrive Giannola – l’allusione al «meridionalista di professione» della Svimez: tali sarebbero Saraceno (Iri), Rodolfo Morandi (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia), Menichella (istituto ricostruzione industriale-Banca d’Italia), la Cassa del Mezzogiorno presieduta da Pescatore, ecc… che furono in sintonia con i Governi, in autonomia e con discreto successo. Oggi – certo – non si può cercare di stare dignitosamente sulle spalle di quei giganti – chiosa Giannola nella sua lettera.

“A scanso di equivoci – prosegue il presidente della Svimez – Demarco commette un errore marchiano quando afferma che Sorrento inaugura l’era di un “Mezzogiorno senza Svimez». C’è da chiedersi dove egli fosse nella boriosa-sterile stagione dei boys della Nuova Programmazione, o in quella dei patti territoriali e da quale spiaggia abbia osservato i disastri delle politiche di coesione tanto case a Governi e «Governatori». In altri termini, non si è accorto che sul Mezzogiorno da più di trent’anni il Governo ragiona senza e spesso contro la Svimez.

“A Sorrento – scrive Giannola – la politica ha provato a verniciare a nuovo uno scenario preso a prestito; autorevoli sponsor contribuiscono da par loro con suggestioni che hanno un qualche distillato di analisi untradecennali. Certo fa effetto – a noi, non a Demarco – vedere all’improvviso declamati slogan Svimez mai assurti prima alle luci della ribalta del governo. Ben venga perciò se la volenterosa ministra saprà «cambiare rotta» al Paese costruendo quel «Secondo Motore», anche esso rigorosamente marcato Svimez pur non rivendicando copyright”.

Giannola rimarca nella sua lettera che “il quesito oggi non è se e come la Svimez sia in gioco, ma quale sostanza e credibilità possa attribuirsi all’annuncio di cambio di rotta. Ora (la ministra è baciata dalla fortuna) le risorse abbondano, vanno spese: è il progetto che rimane ignoto. In attesa di verificare la sequenza intenzioni-fatti non professiamo affatto granitica fiducia. Ministeri-chiave (mobilità sostenibile e transizione) a fronte di un’emergenza energetica che mette a rischio gli appuntamenti con la decarbonizzazione di Ue 2030 e 2050, palesano evidente inerzia, carenza di visione e di condivisione di questa opzione nel Pnrr. Di questo, sia consapevole la ministra e si attivi con fantasia. Serve a poco proclamare slogan Svimez (messi volentieri a disposizione) se dopo il maquillage non si passa in sala macchine ad accendere «il motore» per innescare quella sapiente, controllata reazione a catena che vale molto di più dell’ossessione del 40% al Sud. Per garantire un percorso di riequilibrio territoriale nei diritti di cittadinanza e va condiviso nel Paese grande malato d’Europa”.

È una replica, questa di Giannola che i nostri politici (ma non soltanto quelli carichi di pulsioni meridionalistiche) dovrebbero utilizzare come monito a una continua “distrazione” sui problemi del Mezzogiorno e sull’ – ahimè – crescente divario Nord-Sud. “Sul Sud– scrive ancora Giannola – si ha pieno diritto di ragionare: dico anzi che è tempo che Milano rompa il silenzio che, finora, segnala evidenze del suo malessere in fortuiti «fuori onda». Scenda invece in campo, magari aprendosi al confronto sul rivendicazionismo del «vento del Nord» e la bocconiana idea che per «far correre Milano» vale la pena di «rallentare Napoli» (Tabellini). Proporrei al presidente di Ambrosetti di ragionare sulla crisi di Milano che, per correre e non zoppicare, oltre a prendersela con Napoli crede di poter tornare locomotiva, con la scorciatoia di una incostituzionale autonomia che un’altra ministra di affretta a sfornare, senza che il presidente del Consiglio batta ciglio”.

Quest’ultimo riferimento alla Gelmini dovrebbe ulteriormente indurre a riflettere. Nel primo governo Conte la ministra Erika Stefani dovette battere in ritirata con le carte pronte per un’autonomia differenziata che mortificava il Sud e non aiutava, sicuramente il Nord. La Gelmini, si ritrova con una patata più bollente di prima che ha subito provocato la stizzita reazione della “collega” di partito Carfagna.

Il problema è e rimane ancora una volta la necessità di ragionare in termini di Paese e non di Nord-Sud dove l’uno corre e l’altro arranca. L’occasione del Pnrr è sicuramente più unica che rara e questo treno, una volta perso, non ha locomotive d’emergenza né corse aggiuntive su cui poter contare. Il Mediterraneo è la vera sfida (Giannola chiama “la via di Damasco – il cambio di rotta – da molti anni indicata dalla Svimez al Governo. Il vento gira e gonfia le vele di un Euro-Mediterraneo che da noi è ancora in cerca di identità, da costruire in casa prima che sull’altra sponda”.

Il fatto è che da troppo tempo gli illuminati rapporti della Svimez che avrebbero dovuto costituire un faro ideale per una sequela di governi insensibili al problema Mezzogiorno, non vengono presi in considerazione. Sono allarme circostanziati, con indicazioni di soluzioni affatto peregrine e che, anzi, potrebbero rappresentare il percorso più adatto per sostituire la parola crisi con ripartenza, la parola abbandono con ripresa, il termine degrado con sviluppo. La verità è che manca una precisa volontà politica a vedere finalmente crescere e avanzare il Mezzogiorno per un malcelato timore di un improbabile quanto impossibile “sorpasso”. I numeri del Pil sono impietosi e indicano ancora sofferenza in tutto il Meridione, ma senza i consumi delle popolazioni del Mezzogiorno – questo ancora non lo vogliono capire al Nord – le fabbriche e le industrie settentrionali si troveranno con ricavi dimezzati o azzerati. Ma alla popolazione del Mezzogiorno, oltre a offrire pari dignità abbattendo qualsiasi divario in qualsiasi campo, occorre offrire occupazione e lavoro stabile, garantire il futuro fino ad oggi rubato alle nuove generazioni del Sud. Se riparte il Sud, non dimentichiamolo, riparte il Paese. E non è uno slogan. (s)

L’OPINIONE / Nino Foti: Le criticità e le opportunità di sviluppo per il Mezzogiorno

di NINO FOTI – L’appuntamento di oggi mette al centro del dibattito politico il concetto di Mezzogiorno come punto di forza per la rinascita del nostro Paese e lo fa focalizzando l’attenzione sull’importanza di investire sul capitale umano, quello che c’è già, e soprattutto quello che va potenziato, fatto esplodere e diventare fondamenta di sviluppo etico, sociale ed economico.

È bene evidenziare tuttavia, quali sono le criticità che al momento limitano lo sviluppo del Mezzogiorno e concentrarsi sulle opportunità. Nel nostro Sud peggiorano le condizioni di vita delle famiglie e diminuiscono le opportunità di crescita delle imprese. Esiste inoltre un importante problema di natura sociale. Una parte rilevante della popolazione si sente intrappolata da una struttura sociale e da una cultura politica che rende difficile la cooperazione e la solidarietà tra cittadini. Tuttavia, mai come in questo periodo storico abbiamo di fronte una possibilità di cambiamento importantissima, forse l’ultima.

In soli 8 anni ci saranno a disposizione oltre 150 miliardi di euro considerato che ci troviamo nella fase di passaggio tra due cicli di programmazione della politica di coesione. Per il completamento del ciclo 2014/2020 dovranno essere spesi entro il 2023, oltre 30 miliardi di euro ai quali si aggiungono i fondi della programmazione 2021/2027 che assegnano al Mezzogiorno 55 miliardi di euro, da utilizzare entro il 2030. Ulteriori risorse saranno poi disponibili, come sappiamo, con il Pnrr da spendere entro il 2026 -circa 86 miliardi-, pari al 40,8% dei 211,1 miliardi complessivi del Pnrr.

Ma come investire tutte queste risorse? Sicuramente, continua Foti, partendo dalle infrastrutture, con due opere chiave come l’Alta Velocità e il Ponte sullo Stretto. Nel primo caso bisogna fare attenzione alle soluzioni da mettere in campo. Al momento ad esempio esiste una proposta del Ministero dei Trasporti che presenta diversi aspetti poco chiari. Innanzitutto è prevista la costruzione di un nuovo tracciato più lungo (445 Km) rispetto a quello attuale (393 Km) che andrebbe ad attraversare, senza un apparente valido motivo, le zone più impervie della Calabria tagliando i Parchi Nazionali del Pollino e della Sila e che, nonostante costi 22,8 milioni di euro, collegherebbe Roma e Reggio Calabria in 4 ore, non riducendo quindi in modo drastico i tempi di percorrenza. Un’opera che, per via della maggiore lunghezza del tracciato costerebbe oltre 2,5 miliardi in più rispetto ad un altro progetto esistente, già proposto in un documento condiviso da Professori ordinari di Strade, Ferrovie, Aeroporti e Trasporti di tutte le università Calabresi e Siciliane che, consentirebbe invece di collegare Roma e Reggio Calabria in 3 ore.

Sul Ponte sullo Stretto invece, basterebbe riprendere il progetto esecutivo già approvato che consentirebbe, con un dovuto aggiornamento tecnologico e finanziario, di iniziare subito a costruire. L’importante è fare tesori degli errori del passato. Ricordo, ad esempio, che la chiusura della società concessionaria Stretto di Messina spa, ad opera del Governo Monti nel 2012, ha obbligato lo Stato italiano al pagamento di penali per oltre 700 milioni di euro – per le quali ad oggi sono ancora aperti dei contenziosi – ai quali vanno aggiunti i soldi spesi per le opere propedeutiche, circa 300 milioni e i costi per la smobilitazione dei cantieri e il ripristino dei terreni già predisposti per l’opera pari a circa 150 milioni di euro. In sintesi, invece di spendere 1 miliardo 300 milioni per realizzare il ponte sono stati spesi circa 1 miliardo e 150 milioni per non farlo.

Oltre a questi aspetti, abbiamo elaborato, con il Dipartimento per il Mezzogiorno di Noi con l’Italia, 5 idee per la ripartenza del Sud: fare sistema nelle vie del mare con un hub unico per i 4 porti transhipment del Mezzogiorno, investire sull’orientamento per migliorare l’accesso delle donne al mercato del lavoro, investire sulla formazione dei giovani per abbattere il digital divide culturale, istituire una Commissione Parlamentare per la sburocratizzazione, rimettere la persona al centro dello sviluppo investendo sulle periferie, sul contrasto alla povertà educativa e sui servizi alla persona.

Per concretizzare queste idee inoltre, impostando una programmazione concreta ed articolata, sarebbe opportuno che l’Italia si dotasse di un Ministero per il Futuro, sulla falsa riga di quello già attivo in Svezia. (nf)

È ORA DI APRIRE LA VERTENZA CALABRIA
FRONTE COMUNE TRA SINDACATI E REGIONE

È stato deciso di presentare unitariamente al Governo, facendo fronte comune Governo regionale e sindacati confederali, al Governo la Vertenza Calabria: un documento composto da cinque punti chiave – che deve essere definito in un prossimo incontro – su cui l’esecutivo guidato da Mario Draghi si dovrà concentrare per risolvere le troppe e continue emergenze in Calabria.

Che sia l’inizio di una svolta? Di sicuro, lo è l’incontro da cui è nato questo documento, che ha visto, per la prima volta, il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, confrontarsi, presso la sede di rappresentanza di Roma della Regione Calabria, con il segretario generale nazionale della Cgil, Maurizio Landini, il segretario generale nazionale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, e il segretario confederale della Cisl, Andrea Cuccello (in rappresentanza del segretario generale nazionale della Cisl, Luigi Sbarra).

Presenti, anche i segretari regionali, Angelo SposatoTonino RussoSanto Biondo che, in una nota congiunta, hanno ribadito che «la Calabria  non può rischiare la marginalità».

Occhiuto, invece, ha ricordato come «in Calabria abbiamo un’alta qualità della rappresentanza sindacale, l’ho sperimentato in questi primi mesi di governo. Nella mia Regione abbiamo tanti problemi, ma la nostra è anche una terra di grandi opportunità, e il mio compito non è quello di lamentarmi, ma di trovare delle soluzioni».

«Sono molto soddisfatto dell’incontro odierno – ha spiegato –. Coinvolgere i corpi intermedi, i sindacati, è per me un percorso ineludibile. Voglio cambiare la Regione che ho l’onore di governare, ma per farlo ho bisogno della partecipazione attiva di tutte le energie positive del Paese. Con Cgil, Cisl e Uil abbiamo affrontato tanti argomenti, dalle infrastrutture al lavoro, dal Pnrr alla sanità. Abbiamo stabilito un metodo di lavoro concreto, che, ne sono convinto, già nelle prossime settimane potrà far intravedere i primi importanti passaggi».

«L’obiettivo comune – ha proseguito – è quello di presentare al governo una ‘vertenza Calabria’, per chiedere al presidente del Consiglio, Mario Draghi, e all’intero esecutivo uno scatto in avanti in merito ad emergenze la cui risoluzione non può più essere rinviata. Questa ‘vertenza’ avrà cinque punti chiave, indispensabili tanto per il governo regionale quanto per i sindacati. 1. Il rifacimento e l’ampliamento della Strada Statale Jonica; 2. Lo sviluppo e il reale finanziamento delle Zone economiche speciali, e in particolare della Zes incidente sul porto di Gioia Tauro; 3. Risorse certe per avere una linea ferroviaria ad alta velocità e ad alta capacità fino a Reggio Calabria; 4. La possibilità di investire più facilmente e con meno vincoli burocratici sulla produzione di energia da fonti rinnovabili; 5. Lo sblocco delle assunzioni e l’assorbimento del bacino dei precari per la sanità, e in particolare per i pronto soccorso».

«Queste le priorità individuate oggi – ha spiegato ancora –. La Regione costruirà nel più breve tempo possibile un cronoprogramma con costi, numeri e tempistiche per la realizzazione di questi punti. Sottoporremo il documento ai segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil, e loro tramite fisseremo un nuovo incontro con i leader nazionali dei tre sindacati per stilare la versione definitiva della ‘vertenza Calabria’ da presentare al governo nazionale».

«Stiamo scrivendo una bella pagina di politica e di relazioni sindacali – ha concluso – Sono davvero felice che ci sia questa apertura di credito nei confronti della mia amministrazione e della nostra Regione. Lavoriamo per il cambiamento e per costruire la Calabria dei prossimi decenni».

«Il confronto, per il quale sottolineiamo la disponibilità del Presidente Occhiuto e delle Segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil –, dichiarano in una nota unitaria Sposato, Russo e Biondo – si è svolto in un clima costruttivo. Sono stati posti sul tappeto i temi della Zona Economica Speciale e del rilancio del Porto di Gioia Tauro, della realizzazione delle infrastrutture, della S.S. 106, dell’alta velocità ferroviaria, della sanità, del precariato».

«Il denominatore comune di questi temi centrali per la Calabria – hanno proseguito – è la creazione di nuovo lavoro insieme alla qualità e alla dignità del lavoro stesso, in una prospettiva di crescita e di sviluppo per la nostra regione. Il che comporta l’esigenza di qualificare la spesa, di avviare le opere previste e di monitorarne l’iter di realizzazione per scongiurare il pericolo dell’infiltrazione della criminalità negli appalti».

«Anche oggi, inoltre – hanno proseguito i Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Calabria –, abbiamo evidenziato l’esigenza di spendere e di spendere bene le risorse del PNRR. Urge, perciò, una riorganizzazione della pubblica amministrazione che deve essere messa in grado di affrontare le sfide che attendono la Calabria colmando i vuoti negli organici, stabilizzando le migliaia di lavoratori precari qualificati che ringiovaniscono la macchina amministrativa degli enti locali, le permettono di funzionare, la arricchiscono di competenze nuove».

«L’incontro di Roma – hanno spiegato ancora – si colloca in un percorso che da anni sta vedendo impegnate Cgil, Cisl e Uil non solo a livello regionale, ma anche a livello nazionale, come è accaduto ad esempio a Siderno nel luglio scorso, con la presenza dei tre Segretari generali Landini, Sbarra e Bombardieri, o nel giugno 2019 con la grande manifestazione di Reggio Calabria. La crescita del Paese nel suo insieme non può che ripartire dal Mezzogiorno. Apprezziamo l’apertura del Presidente Occhiuto al dialogo con le organizzazioni dei lavoratori: siamo convinti, infatti, della necessità di lavorare insieme sui programmi e di coesione».

«Ribadiamo, dunque – hanno concluso i Segretari generali regionali di Cgil, Cisl e Uil Angelo Sposato, Tonino Russo e Santo Biondo –, la nostra piena disponibilità a proseguire nei prossimi giorni il cammino del confronto su priorità e scelte strategiche. È emersa la volontà comune di aprire una vera e propria vertenza Calabria che trovi alleanze e condivisioni, per presentare in tempi brevissimi al Governo un pacchetto di proposte concrete per sbloccare tutte le risorse destinate alla nostra regione, perché sia liberata dall’isolamento rispetto degli altri territori del Paese». (rrm)