COM’È INGIUSTO IL PAESE CON LA CALABRIA
E CRESCONO DISUGUAGLIANZA E DIVARIO

di SANTO STRATI – Il nuovo libro di Pino Aprile, il più strenuo difensore del Meridione e della sua gente, è un pugno allo stomaco e offre lo spunto per notare quanta disuguaglianza c’è ancora tra i due poli del Paese: il Nord cresce e corre, il Sud arretra e, inesorabilmente, ferma i sogni di migliaia di giovani, donne, laureati. Il divario è anche e soprattutto qui: nella palese sperequazione che si perpetra ogni giorno in qualunque campo, nonostante gli allarmi – appassionati – della Svimez, la eccellente associazione creata ai primi di dicembre del 1946 da un gruppo di personalità del mondo industriale ed economico. L’ultimo Rapporto Svimez – presentato qualche giorno fa e di cui parleremo nei prossimi giorni – lo dice chiaramente: il Nord riparte, il Sud fa fatica non solo a riprendersi dalla pandemia ma anche a programmare il suo futuro, nonostante il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il ragionamento che suggerisce Aprile (Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese, edizioni Pienogiorno), in realtà, non è che la diretta conseguenza delle tante pagine che il giornalista-saggista – oggi alla Direzione della tv calabrese LaC24 – ha dedicato al “furto” continuo e costante. Uno scippo urlato molto frequentemente con grande coraggio e onestà intellettuale anche da Roberto Napoletano sulla prima pagina del Quotidiano del Sud-L’altravoce dell’Italia: un esproprio legale e legalizzato dalla ricche regioni del Nord ai danni del Mezzogiorno.

Quando il gruppo di illuminati economisti e industriali, tra cui figuravano Pasquale Saraceno, Rodolfo Morandi, Donato Menichella e altri, nell’immediato dopoguerra diede vita all’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), non immaginava di anticipare di molti decenni l’idea che senza il Sud l’Italia avrebbe sempre marciato col freno a mano alzato. Erano industriali anche del Nord che si erano resi conto che occorreva immaginare progetti e sviluppare programmi di crescita reale per l’area più depressa del Paese, con l’obiettivo (pura illusione!) di realizzare l’unificazione anche economica dell’Italia.

Il problema è di crescita della ricchezza – per pochi – e la perdita di valore – per moltissimi. E il Covid si è rivelato un ottimo affare per i “ricchi” che sono diventati più ricchi, ma una disgrazia anche economica per i poveri che si sono ritrovati più poveri di prima. Ecco la disuguaglianza che emerge amaramente dalle pagine del libro di Pino Aprile: «la tutela sociale – scrive citando il prof. Viesti – è stata ed è in Italia più forte dove il benessere è maggiore». L’Italia era già molto disuguale da prima e il rapporto Oxfam 2020 rivela che i tre italiani più ricchi hanno quanto i sei milioni più poveri messi insieme. Il 20 per cento più ricco possiede il 70 per cento dei quasi 9300 miliardi del patrimonio nazionale; il successivo 20 per cento ha circa il 17 per cento di quei 9300 milairdi e al restante 60 per cento degli italiani rimane il 13 per cento della ricchezza. Aprile fa un esempio concreto: se fossimo una famiglia numerosa di dieci fratelli e avessimo 1000 euro, a due fratelli andrebbero 700 euro (350 a testa) ad altri due 85 a testa e ai rimanenti sei fratelli 21,60 euro a testa. Banalmente viene da pensare che forse è persino ottimistica come considerazione. Già, perché, soprattutto in Calabria, il divario, la sperequazione intollerabile, ha raggiunto livelli che dovrebbero far vergognare l’intera classe politica. E non solo quella del Mezzogiorno. Anzi è l’intera classe politica del Paese che dovrebbe fare un serio esame di coscienza sulle mancate promesse che, ad ogni elezione, vengono riproposte, salvo a rimangiarsi tutto, con la colpevole indifferenza dei parlamentari eletti al Sud.

Avevano provato con l’autonomia differenziata Emilia, Piemonte e Veneto a legittimare lo scippo con il pretesto della “spesa storica” (altra truffa ai danni delle regioni povere) secondo cui chi spende di più prende di più, chi è in difficoltà può restare a guardare. Il colpaccio dell’autonomia differenziata non è passato, anche a causa della pandemia, che ha accentuato, per altri versi, la dicotomia costante tra nord e sud, ma il divario non si è ridotto, anzi cresce, cresce continuamente e i numeri sono sconsolanti. Prendiamo i nostri giovani: «pur essendo la generazione più colta di sempre – fa notare Aprile – sono anche la prima, dall’Unità a oggi, a stare peggio dei loro genitori». È un problema di opportunità e di visione strategica.

Abbiamo quasi una generazione di inoccupati, ovvero di ragazzi che non hanno la più pallida idea di cosa sia il lavoro: con una scolarizzazione decisamente alta (abbiamo tre atenei che sfiorano l’eccellenza) la Calabria è la più grande esportatrice di cervelli. Prepara, forma i suoi ragazzi, ne fa laureati di altissimo valore, poi non offre loro alcuna occasione per esercitare una professione o un’attività di ricerca o di specializzazione. Li costringe a prendere il trolley verso le regioni intelligenti che non vedono l’ora di “utilizzare” le loro competenze, verso Paesi che fanno del merito una questione essenziale per la crescita e lo sviluppo e selezionano, per valorizzare, le capacità e le competenze che non hanno avuto costi di formazione. Dodici milioni di giovani – dice Aprile – corrono l’alto rischio di diventare i nuovi poveri, già oggi, persino se lavorano, perché è il crescita il fenomeno mondiale dei poor workers, quelli che, pur avendo un’occupazione e un reddito, non riescono a uscire dallo stato di bisogno.

Ci ha abituati all’indignazione Pino Aprile con i suoi libri, ma stavolta si supera ogni ragionevole rassegnazione: il quadro che, in modo ineccepibile, riesce a tracciare sulla disuguaglianza è terribile e amarissimo. I nostri ragazzi che vanno in Emilia, in Lombardia, in Piemonte “sopravvivono” grazie alle rimesse di genitori e nonni, mentre la Regione Calabria che spende e spande in cavolate varie non è riuscita dalla sua costituzione (era il 1970, non dimentichiamolo) a creare un percorso di sviluppo per i giovani, che metta in primo piano il problema lavoro. L’occupazione significa benessere non solo economico, ma possibilità di immaginare e costruire un futuro: ai nostri ragazzi abbiamo – tutti quanti – rubato il futuro e non ci sono scusanti. Quanti giovani calabresi vorrebbero restare nella propria terra, in famiglia, tra amici, nella sicurezza della casa dei genitori o dei nonni e devono, invece, guardare ai mercati che offrono loro opportunità di crescita. Il South Smartworking (ovvero, il lavoro da casa, fatto al Sud, nella casa di famiglia) è stato una boccata di ossigeno per molti giovani occupati che, causa pandemia, hanno lasciato momentaneamente le sedi di lavoro (chiuse) di Milano, Torino, Trieste, etc. E non vogliono, giustamente, ritornare al Nord perché hanno toccato con mano una qualità della vita che è ben differente da antipatiche routine quotidiane consumate nel ristretto di camere ammobiliate e sistemazioni di fortuna. È a loro che bisogna pensare, bisogna permettere alle nuove generazioni di disegnare il proprio futuro, immaginare una famiglia, poter crescere dei figli. Ma nel nostro Paese – grida giustamente Aprile – quello che manca è l’equilibrio: e chi più ha più trae per sé sottraendo a chi meno può.

In quest’ottica un buon utilizzo delle risorse che arrivano dall’Europa, il PNRR, potrebbe essere fondamentale per modificare almeno lo status sociale che ci sbatte in faccia l’ignobile differenza tra nord e sud: ai bambini in difficoltà, in Calabria – fa notare Aprile per chi l’avesse dimenticato – si spende undici volte meno che per quelli dell’Emilia Romagna. È desolante per non dire agghiacciante: la carenza di servizi riduce ulteriormente il potere di acquisto di chi vive al Sud. Dove – è bene rimarcarlo – non servono sussidi ma opportunità di lavoro, stabile e con un compenso dignitoso e adeguato. Ne sanno qualcosa le migliaia di precari utilizzati nella catena del commercio, sfruttati in virtù del bisogno, sottopagati e trattati come simil-schiavi che devono dire sempre di sì. È un quadro che emerge nitidamente dalle pagine di Aprile e che muove, inesorabilmente, una semplice domanda: ma quant’è ingiusto il Paese nei confronti dei calabresi? Se lo ricordino, questi ultimi, quando andranno alle urne per non premiare, nuovamente, i dispensatori professionali di speranze, soprattutto quelli ai quali della Calabria non interessa proprio niente. (s)


Stasera alle 21.30 a Reggio al Circolo del Tennis per i Caffè Letterari del Circolo Rhegium Julii Pino Aprile sarà intervistato dal direttore di Calabria.Live Santo Strati. Partecipano Enzo Filardo e Mario Musolino.

LA SVIMEZ: INVESTIRE NELL’ACQUA AL SUD
PER FAR CRESCERE IL PIL E L’OCCUPAZIONE

Nel Mezzogiorno, soprattutto in Calabria, le perdite idriche e lo spreco dell’acqua sono un gravissimo problema. Eppure, se si investisse nel settore idrico, con un finanziamento aggiuntivo di 3 miliardi di euro da destinare alle imprese meridionali, si «genererebbe un incremento del Pil dello 0,3% in Italia, con un significativo recupero del Mezzogiorno: nel triennio 2021-2023 la maggiore crescita cumulata del Pil del Sud sarebbe +1,1%, contro +0,1% previsto per il Centro-Nord».

È quanto è emerso dal rapporto redatto dalla Svimez con il supporto di Utilitalia, che è stato presentato nel corso di un webinar sul tema Pnrr: Investimenti e nuove politiche per un moderno servizio idrico nel Mezzogiorno, a cui hanno partecipato il direttore Luca Bianchi, il presidente di Utilitalia, Michaela Castelli e il ministro per il Sud, Mara Carfagna.

Dal report, è emerso che «lo spreco dell’acqua, in particolare nelle regioni meridionali, è sempre troppo elevato: al Nord mediamente le perdite idriche si attestano intorno al 28%, al Sud superano il 47%, con picchi del 60% in alcuni capoluoghi siciliani e campani» e che «a fronte degli evidenti divari di qualità riscontrati, le tariffe mediamente non sono così difformi sul territorio nazionale: anzi, in alcune aree del Mezzogiorno sono perfino sensibilmente superiori rispetto a quelle del Nord, dove una parte dell’efficientamento del servizio si è riflessa in minori costi del servizio stesso oltre che nell’incremento della qualità».

Secondo il Report, «appena il 7% delle famiglie del Nord è poco o per niente soddisfatto del servizio, contro il 21% delle famiglie del Mezzogiorno, con una punta del 36% in Calabria».

«Rispetto a un investimento medio degli altri Paesi europei di 90 euro per abitante – si legge – l’Italia ha investito molto meno, circa 39 euro (dati 2017). Gli investimenti nel Mezzogiorno si attestano a meno, circa 26 euro, rispetto ai 39 del Centro-Nord. Per di più, nelle gestioni comunali in economia, significative in molte Regioni meridionali, l’investimento medio (2015-2016) scende tra i 4 ed i 7 euro per abitante. Per riequilibrare il divario di investimenti tra Nord e Sud, in base alla clausola del 34%, per la quale si è battuta a lungo la Svimez, e che è ormai legge, occorrerebbe un finanziamento aggiuntivo di quasi 3 miliardi da destinare alle imprese meridionali. Se, poi, si volesse riequilibrare in termini pro-capite il valore cumulato degli investimenti realizzati a partire dall’anno 2000, la misura di tale compensazione sfiorerebbe i 4 miliardi, con impatti maggiori in Sicilia, Campania e Calabria».

In base al Report, «il livello di fatturato per addetto è significativamente più elevato al Centro-Nord (circa 260mila euro) rispetto al Mezzogiorno (circa 184mila euro), così come la produttività lorda, misurata dal valore aggiunto per addetto, che al Centro-Nord si colloca intorno ai 134mila euro per addetto, contro i quasi 95mila del Sud. In base alle stime elaborate con il modello Nmods della Svimez, un piano di investimenti aggiuntivi per 3 miliardi nel settore idrico genererebbe un incremento del Pil dello 0,3% in Italia, con un significativo recupero del Mezzogiorno: nel triennio 2021-2023 la maggiore crescita cumulata del Pil del Sud sarebbe +1,1%, contro +0,1% previsto per il Centro-Nord».

«Sotto il profilo occupazionale – si legge – nel periodo di realizzazione degli investimenti, i posti di lavoro aumenterebbero di quasi 45mila unità, in gran parte, circa 40mila, concentrate nel Mezzogiorno, ma con una consistenza non trascurabile anche nel Centro-Nord (circa 5mila). Secondo il Report, serve nel Mezzogiorno una maggiore aderenza alle strutture d’impresa adottate al Nord, promuovendo aziende medio-grandi. Al Sud la dimensione media delle imprese supera di poco i 30 addetti, mentre al Centro-Nord raggiunge i 50. Inoltre, più di un terzo del valore delle gestioni idriche è privo di un soggetto industriale al Mezzogiorno, contro il 7,2% del Centro-Nord, con picchi in Molise, Calabria, Sicilia e Basilicata, dove oltre la metà del servizio idrico è in forma diretta».

«L’aver mantenuto in capo ai Comuni la gestione diretta del servizio idrico integrato nel Mezzogiorno, disapplicando sistematicamente la legge Galli, ha generato i ritardi rispetto al Nord. Nelle regioni dove la resistenza dei Comuni è stata maggiore nel cedere gli impianti a un gestore industriale, vi sono livelli più bassi d’investimenti e peggior qualità del servizio coniugata a tariffe più alte, proprio là dove le condizioni finanziarie e reddituali delle famiglie, in particolare al Sud, sono più precarie. La lievitazione dei costi, sommata alla mancata crescita delle tariffe, o alle blande riscossioni delle tariffe stesse pur se adeguate, rende insostenibile la resistenza dei Comuni».

Il Report contiene alcune proposte di policy per affrontare il problema: «Promuovere una gestione imprenditoriale; Allineare la governance agli standard nazionali; Individuare i gestori unici per ogni ambito ottimale; Imporre ai Comuni che erogano direttamente il servizio di cedere gli impianti al gestore individuato o di adottare il sistema regolatorio vigente e applicare tariffe coerenti con esso nel caso in cui non vi sia un gestore individuato; Garantire la capitalizzazione del gestore, realizzando una parte degli investimenti con un contributo pubblico, in modo da non scaricare sulle tariffe tutti gli oneri».

«Alla radice del divario di cittadinanza “idrico” ci sono scelte miopi della politica locale che hanno consegnato in molte parti del Mezzogiorno un servizio di pessima qualità, con perdite sulla rete anche del 70% e inesistenza di impianti di depurazione delle acque reflue” – ha commentato Luca Bianchi, Direttore Svimez –. Con il mantra illusorio dell’acqua pubblica è stata disapplicata la normativa nazionale, non sono stati fatti crescere i gestori industriali e si sono bloccati gli investimenti. Adesso bisogna accelerare per raccogliere la sfida della transizione ecologica e allineare le gestioni idriche del Mezzogiorno a quelle del Nord».

«Ridurre il gap infrastrutturale del sistema idrico al Sud – ha dichiarato la presidente di Utilitalia, Michaela Castelli – tutela i diritti dei cittadini ad usufruire di un servizio di qualità uniforme su tutto il territorio nazionale e, al contempo, può innescare una positiva dinamica di sviluppo economico e sociale. Occorre recuperare rapidamente il ritardo accumulato nelle regioni meridionali rispetto all’implementazione del quadro normativo e regolatorio nazionale. Nei territori in cui la riforma risalente a più di 25 anni fa non è stata ancora portata a compimento, servono interventi che permettano di superare le gestioni in economia, rilanciare gli investimenti e promuovere la strutturazione di un servizio di stampo industriale». (rrm)

 

OCCUPAZIONE E COVID, I DATI DELLA SVIMEZ
È GRAVE LA SITUAZIONE IN CALABRIA: -10,4%

Il tema dell’occupazione, in Calabria – ma anche nel Mezzogiorno – è una questione delicata che, purtroppo, si è aggravata con l’emergenza sanitaria in corso: dal 2008 al 2020, c’è stata una flessione dell’occupazione di -10,4%. È quanto emerge dal rapporto redatto dalla Svimez per l’Ente Bilaterale Confederale Ebic sul tema Il lavoro nella pandemia: impatti e prospettive per persone, settori e territori.

Dallo studio emerge che il calo dell’occupazione è piuttosto omogeneo tra Mezzogiorno (-2%) e Centro-Nord (-1,9%). Ma sono le donne e i giovani del Sud a subire l’impatto occupazionale maggiore nella crisi pandemica: -3% a fronte del -2,4% del Centro-Nord per le donne; -6,9% al Sud a fronte del -4,4% del Centro-Nord per i giovani under 35. Si tratta di dati che ancora non tengono conto dei disoccupati “virtuali” degli attuali cassaintegrati e dei lavoratori solo ufficialmente occupati per effetto del blocco dei licenziamenti.

«Nel Mezzogiorno – si legge nel rapporto – flettono in misura più accentuata i dipendenti (-2,3% a fronte del -1,3% degli indipendenti), mentre nel Centro-Nord sono gli autonomi a subire il calo più intenso (-3,6% a fronte del -1,5% dei dipendenti). I dipendenti a termine flettono dell’11,6% nel Mezzogiorno e del 13,3% nel Centro-Nord, mentre i permanenti aumentano dello 0,4% nel Mezzogiorno e dello 0,7% nel Centro-Nord. Gli effetti più marcati, si rileva nel Report Svimez, si registrano nel settore dei servizi, soprattutto nei comparti labour intensive dell’accoglienza, della ristorazione, del turismo, della cultura, del piccolo commercio, e dei trasporti, dove più frequente è il ricorso il lavoro a tempo parziale o stagionale. Le attività del terziario sono state anche quelle che hanno fatto maggior ricorso alla Cassa Integrazione: sul totale delle attività, il 16% operano nel commercio e riparazione di autoveicoli e beni personali, il 14,7% nell’ospitalità e nel turismo, l’11,9% nelle attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca, servizi alle imprese».

«Tra i settori più colpiti dall’emergenza sanitaria – riporta ancora la Svimez – le attività legate al turismo e alla cultura. Il turismo, dopo anni di crescita costante, ha subito una profonda battuta di arresto, con quasi 233,2 milioni di presenze in meno negli esercizi ricettivi rispetto al 2019 (un calo del 53%). La clientela straniera è calata di oltre il 70%, quella italiana del 36%. Il comparto alberghiero è quello che ha evidenziato i segnali di maggiore sofferenza: le presenze registrate nel 2020 sono meno della metà (il 43%) di quelle rilevate nel 2019, mentre quelle del settore extra-alberghiero circa il 53%. I viaggi si sono pressoché dimezzati passando da circa 71 mila nel 2019 a 37 mila nel 2020. Le persone che hanno viaggiato su 100 residenti sono passate da circa 24 a 13 in Italia, e da 12 a 6 nel Mezzogiorno, mentre i viaggi pro-capite sono passati da 1,2 a 0,6 a livello nazionale e da 0,6 a 0,3 nel Mezzogiorno».

«In termini di occupazione – si legge ancora – le attività legate al turismo e alla cultura, che registrano nell’anno una diminuzione di 187 mila occupati nel settore turistico e di 33 mila nel settore culturale; in termini percentuali si tratta di un calo pari rispettivamente dell’11,3% e del 5,2% . Circa la metà degli occupati persi tra il 2019 e il 2020 (-456 mila persone) è ascrivibile a questi settori. Tra il 2019 e il 2020, nel Mezzogiorno il comparto delle attività turistiche ha subito una flessione più accentuata (-12,7% a fronte del -10,7% del Centro-Nord)».

«I giovani under 35 che non studiano e non lavorano (Neet) nella media del 2020 sono saliti al 36,1% nel Mezzogiorno dal 35,8% nel 2019, ed al 18,6% nel Centro-Nord rispetto al 16,6% nel 2019. Tra il 2008 ed il 2020 flette l’occupazione in tutte le regioni del Mezzogiorno con picchi elevati in Calabria (-10,4%) e Sicilia (-8.9%) e relativamente bassi intorno al 3% in Campania e Basilicata. Dinamiche positive caratterizzano Toscana (+1,4%), Emilia Romagna (+2,1%), Lombardia (+3,1%) e, soprattutto, Trentino Alto Adige (+6,8%) e Lazio (+7,2%). Il tasso di disoccupazione “corretto” è pari al 25,4% nel Mezzogiorno dal 24,1% nel 2019, e del 13,4% nel Centro-Nord rispetto all’8,8% nel 2019. Con salari stagnanti e ore di lavoro che scendono non sorprende che il numero di persone che, pur lavorando, sono comunque povere, potendo contare su un reddito inferiore al 60% di quello medio, sia nettamente aumentato: i poveri tra gli occupati in Italia erano l’8,9% nel 2004, sono saliti al 12,2% nel 2017 e 2018 e al 13% nel 2020» riporta ancora la Svimez.

Un altro problema riscontrato è quello sulla difficoltà del reperimento: «il Mezzogiorno registra un aumento relativamente più accentuato delle difficoltà di reperimento che passano dal 21 al 25%   mentre nel Centro Nord salgono dal 28,5 al 31,5%. La tendenza verso una maggiore qualificazione del personale emerge anche dalla crescita della percentuale di laureati richiesta dal 13 al 14%».

Alla luce di questi dati, «la Svimez è giunta alla conclusione che la crisi economica e sociale seguita all’emergenza sanitaria da Covid-19 ha determinato effetti territoriali asimmetrici, solo in parte ricomposti dalle pur incisive misure di sostegno del lavoro e delle imprese a causa delle rilevanti differente strutturali maturate tra Nord, Centro e Sud, nel corso della lunga crisi 2008-2014, che hanno determinato capacità di assorbimento e reazione allo shock di intensità molto variabile».

Fortemente differenziate, anche se sostanzialmente in linea con gli andamenti circoscrizionali le dinamiche regionali. Tra il 2008 ed il 2020 flette l’occupazione in tutte le regioni del Mezzogiorno con picchi elevati in Calabria (-10,4%) e Sicilia (-8.9%) e relativamente bassi intorno al 3% in Campania e  Basilicata. Dinamiche positive caratterizzano Toscana (+1,4%), Emilia Romagna (+2,1%), Lombardia (+3,1%) e, soprattutto, Trentino Alto Adige (+6,8%) e Lazio (+7,2%). In calo le altre regioni ed in particolare con valori intorno al -5% Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Marche. L’analisi settoriale evidenzia andamenti negativi in tutte le regioni per il settore industriale con l’eccezione del Trentino Alto Adige e andamenti positivi nei servizi in tutte le regioni con l’eccezione della Liguria al Centro-Nord e di Abruzzo, Basilicata e Sicilia al Sud.

I settori più dinamici, sia prima della pandemia sia, sostanzialmente anche dopo sono gli altri servizi collettivi e personali e le attività di alloggio e ristorazione in forte crescita in tutte le regioni del Centro-Nord con l’eccezione di Piemonte, Valle d’Aosta e Marche dove restano sostanzialmente sui livelli del 2008. Tali comparti sono in netta crescita anche nel Mezzogiorno, con l’eccezione di Calabria (-8,5%) e Campania (-5%) per le attività di alloggio e ristorazione e Basilicata (-6,3%) e Sicilia (-3,4%) con riguardo agli altri servizi collettivi e personali. Il numero medio di ore integrate è più alto nelle regioni meridionali e del Centro (293) e anche l’incidenza dei cassintegrati sui dipendenti totali è leggermente più alta nel Mezzogiorno (quasi il 50%).

Ne è risultato profondamente colpito un mercato del lavoro nazionale già segnato dalla mancata crescita della produttività e dei salari, dalla precarizzazione e parcellizzazione del lavoro (sempre più spesso a bassa qualificazione), da un tendenziale aumento delle diseguaglianze sociali, di genere e generazionali, tutte in larga parte sovrapponibili ai divari territoriali.

Tre fronti da presidiare

Il Report ha confermato come lo shock da Covid abbia avuto effetti estremamente significativi su una struttura del mercato del lavoro già segnata da criticità e debolezze. In attesa di capire quali saranno le concrete conseguenze della fine del blocco dei licenziamenti e della Cassa integrazione Covid, si evidenzia a oggi un calo dell’occupazione abbastanza omogeneo nel Paese, mentre ancora una volta appaiono particolarmente colpite le fasce tradizionalmente più deboli del mercato del lavoro come i giovani e le donne. In prospettiva sono tre i fronti da presidiare con specifiche misure utili a scongiurare i rischi di amplificazione delle disuguaglianze tra persone, settori e territori: 1) Lo strutturale disallineamento tra domanda di lavoro delle imprese e i livelli di competenze maturate dai giovani italiani più istruiti al primo ingresso nel mercato del lavoro; 2) La graduale riduzione delle misure di sostegno a imprese e lavoratori; 3)Le nuove forme di organizzazione del lavoro quali lo smart-working nel settore pubblico e privato. (rrm)

 

SVIMEZ, QUASI 20 MILA IMPRESE DEL SUD
RISCHIANO L’ESPULSIONE DAL MERCATO

Non c’è tregua per le imprese che, in mezzo alle gravissime difficoltà in cui si sono ritrovate a causa del covid, adesso si ritrovano ad affrontare un problema ancora più grande: l’espulsione dal mercato. Secondo una indagine condotta dalla Svimez insieme con il Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne-Unioncamere, sono 73.200 le imprese italiane tra 5 e 499 addetti, il 15% del totale, di cui quasi 20mila nel Mezzogiorno (19.900) e 17.500 al Centro, sono a forte rischio di espulsione dal mercato.

Di queste, una quota quasi doppia riguarda le imprese dei servizi (17%), rispetto all’ambito manifatturiero (9%). Sono quelle che hanno forti difficoltà a “resistere” alla selezione operata dal Covid come risultato di una fragilità strutturale dovuta ad assenza di innovazione (di prodotto, processo, organizzativa, marketing), di digitalizzazione e di export, e di una previsione di performance economica negativa nel 2021.

«Dall’indagine emerge, oltre a una differenziazione marcata tra Nord Est e Nord Ovest, anche la fragilità di un Centro che si schiaccia sempre più sui valori delle regioni del Sud  – ha commentato il direttore della Svimez, Luca Bianchi –. I diversi impatti settoriali, con la particolare fragilità di alcuni comparti dei servizi, impongono, dopo la prima fase di ristori per tutti, una nuova fase di interventi di salvaguardia specifica dei settori in maggiore difficoltà, accompagnabili con specifiche iniziative per aumentare la digitalizzazione, l’innovazione e la capacità esportativa delle imprese del Centro-Sud».

Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi delle Camere di commercio G. Tagliacarne, ha avvertito che «è possibile che le imprese del Mezzogiorno possano conseguire quest’anno risultati ancora più negativi rispetto alle loro aspettative, perché meno consapevoli dei propri ritardi accumulati sui temi dell’innovazione e del digitale. Anche per questo c’è bisogno di un patto per un nuovo sviluppo, che tenga conto della gravità della situazione e del preoccupante aumento dei divari nel nostro Paese».

Imprese a rischio chiusura (imprese fragili e con performance economica negativa nel 2021)- valori percentuali-

Totale economia Manifattura Servizi
Nord Ovest 14 9 17
Nord Est 12 6 14
Centro 17 11 19
Mezzogiorno 17 11 19
Italia 15 9 17

Fonte: Indagine Centro Studi G. Tagliacarne – Unioncamere su un campione di imprese tra 5 e 499 addetti

Quasi la metà (48%) delle imprese italiane è fragile (non innovative, non digitalizzate e non esportatrici). Al Sud arrivano al 55%, per quasi il 50% al Centro, per il 46% e il 41% rispettivamente nel Nord-Ovest e nel Nord-Est. Questi divari confermano la tesi Svimez di “nuova questione del Centro”, che ha un’incidenza più vicina a quella del Mezzogiorno. L’incidenza è ancor più intensa nel settore dei servizi, dove i deficit di innovazione e digitalizzazione fanno sì che le imprese fragili superino il 50% a livello nazionale, sfiorando il 60% al Sud. Nel comparto manifatturiero sono fragili in Italia il 31% delle aziende, che salgono al 39% nel Mezzogiorno.

Il 30% delle imprese dei servizi e il 22% di quelle manifatturiere italiane dichiarano aspettative di fatturato in calo anche nel 2021, un chiaro segnale che la crisi non è affatto finita. Incrociando dinamiche settoriali e territoriali emergono due fatti principali: 1) nei servizi non si segnalano differenziali territoriali apprezzabili ed una persistenza della crisi soprattutto nel Nord-Ovest; 2) nel manifatturiero, invece, si confermano le difficoltà di ripresa del Mezzogiorno (27% delle imprese con previsioni di performance negative, contro il 19% del Nord-Est) e, sia pur meno accentuate, del Centro (25%). (rrm)

Le imprese con performance economica negativa nel 2021 (%)

Totale economia Manifattura Servizi
Nord-Ovest 29 21 32
Nord-Est 26 19 29
Centro 28 25 29
Mezzogiorno 29 27 29
Italia 28 22 30

Fonte: Indagine Centro Studi G. Tagliacarne – Unioncamere su un campione di imprese tra 5 e 499 addetti.

 

SVIMEZ SCRIVE A DRAGHI: L’INNOVAZIONE
È LA CHIAVE CONTRO IL DIVARIO NORD-SUD

Il Recovery Plan è una vera e propria scommessa non solo per l’Italia, ma sopratutto per il Sud. Un’occasione – più e più volte ribadita da Istituzioni, Enti, sindacati e politici – irripetibile, che potrebbe, finalmente, accorciare l’abisso che, negli anni, si è formato tra il Nord e il Sud sopratutto a livello infrastrutturale.

Gli economisti Luigi PaganettoAdriano Giannola, presidente Svimez, Alessandro Corbino, Leandra D’Antone, Mario Panizza, Flavia Marzano, Giandomenico Magliano, Vincenzo Scott, in un documento inviato al premier Mario Draghi, sottolineano che «l’innovazione è la chiave per progettare e gestire l’unificazione del Paese: Nord e Sud».

«La crisi economica del 2008 – si legge nella lettera – e la drammatica pandemia non hanno messo solo il Mezzogiorno in gravi difficoltà ma, e in modo crescente, anche il Nord; le stesse regioni, cioè, che hanno costituito – nel passato – un ruolo di motrici dello sviluppo. Per questo, oggi, è necessario che il Nord e il Sud rilancino lo sviluppo dell’Italia e di ciascuna delle due aree con un disegno comune».

Il documento inviato, «che nasce anche dall’attività istituzionale condotta dai diversi Centri di ricerca e Universitari cui i firmatari fanno riferimento, possa fornire spunti utili per il progetto che il Governo sta definendo in relazione al Recovery Fund».

«Viviamo in una logica di grandi aree in competizione tra loro, per cui possiamo avvalerci della nostra collocazione nel Mediterraneo e mirare a politiche per l’innovazione e la transizione digitale e ambientale con essa compatibili e, allo stesso tempo, adottare, nella logica Ue, interventi su un sistema di infrastrutture, materiali e immateriali, che rilancino la nostra competitività, tanto del Mezzogiorno quanto del Nord che, da tempo, ha visto decrescere i vantaggi della cooperazione con i Paesi più sviluppati della Ue».

«Siamo certi – hanno scritto gli economisti che l’effetto crescita degli investimenti da realizzare nel Mezzogiorno andranno a vantaggio dell’intero Paese. Il Mezzogiorno e il Mediterraneo diventano la leva per il Nord dell’Italia e per lo stesso Nord dell’Europa e aiutano a far argine a rivendicazioni corporative a sussidi stimolando invece l’impegno a raggiungere tappe coordinate di sviluppo che, nel dare al Sud lavoro e benessere e un definitivo ancoraggio ai valori costituzionali, arricchiscano l’Italia nel suo insieme».

Per la Svimez, dunque, «occorre inserire le proposte per il Mezzogiorno in una strategia di ricomposizione di sistema e, quindi, di sviluppo sostenibile, che trovi la sua collocazione nel quadro in cui oggi si muove l’Europa, in maniera non assistenziale e riducendo le diseguaglianze che impediscono livelli coerenti e omogenei, basilari per la qualità della vita».

«Occorre – si legge nel documento – rimettere in moto, attraverso il Recovery Plan, il Mezzogiorno in modo sinergico con il Centro-Nord e con una visione unitaria, indispensabile per il rilancio di entrambe le macro-aree e funzionale a un riequilibrio del Paese e a ristabilire la sua posizione in Europa e nel Mediterraneo, superando il dualismo storico dell’economia e della società italiana».

«Per farlo – si legge nel documento – occorre partire dal quadro competitivo in cui la stessa Europa si colloca, e le sfide che deve fronteggiare. Oggi siamo concentrati, come è giusto che sia, sulla pandemia e sulla crisi devastante che stiamo vivendo. Molto è stato fatto. L’abbandono delle regole di Maastricht, il cambio di rotta della politica monetaria della Bce e il programma d’intervento del Next Generation Eu ci assicurano un contesto in cui è possibile la ripresa. Ma non bisogna dimenticare che la Eu, nel momento in cui è impegnata a superare il quadro pandemico, si trova a fare i conti con lo straordinario cambiamento globale che si è prodotto in questi anni, a cui deve rispondere come già aveva cominciato a fare al momento dell’insediamento della nuova Commissione.

Due gli aspetti chiave individuati: il primo, «il mancato aumento della produttività (per il quale occupiamo gli ultimi posti) a dispetto dei grandi progressi della tecnologia e dell’aumento degli investimenti in intangibles, quali software e intelligenza artificiale», il secondo «la riduzione delle catene del valore collegata ai rischi e alle incertezze di un mondo dominato dalla pandemia che determina un nuovo assetto della competizione tra le diverse aree del mondo. Rispetto ad esso contano, perché influenzano la produttività, le tendenze di lungo periodo dell’invecchiamento della popolazione europea e le sue conseguenze rispetto a welfare e crescita, anche se esso potrebbe essere in parte bilanciato dagli effetti positivi di migrazioni ben regolate. Le questioni della transizione energetica e quella dei conflitti commerciali in corso per la supremazia tecnologica, sono aspetti importanti di questa competizione tra aree del mondo».

«La conclusione – si legge – è che ciò che sta accadendo dovrebbe spingere la Eu a crearsi nuovi spazi economici, a cominciare da quelli più immediatamente realizzabili, quelli della sponda Sud. Non solo. Nel momento in cui si dovesse abbracciare una prospettiva mediterranea, occorre che alla scelta di area si associno progetti d’investimento in grado di aumentare la produttività, sia che si tratti di progetti per la transizione ecologica che di scelte a favore di quella digitale».

Per la Svimez, infatti, «a livello del nostro territorio, la politica economica dovrebbe tenere conto, sia nelle sue linee generali che in quelle previste dal Pnrr, dell’esigenza di puntare sull’innovazione, prendendo in considerazione le opzioni d’investimento in infrastrutture e logistica coerenti con questa prospettiva, nel momento in cui, ad esempio, ecosostenibilità e tecnologie digitali si applicano alle scelte in materia portuale. Questa scelta strategica complessiva può avere grande effetto sullo sviluppo del Mezzogiorno, se si traduce in interventi che tengono adeguato conto dell’innovazione collegata con le nuove tecnologie che porta con sé aumenti di produttività».

«L’utilizzo delle risorse del Recovery Fund – ricorda la Svimez – impone di fissare precisi obiettivi, varare progetti, definire un percorso che impegni le risorse entro il 2023, da spendere entro il 2026. Per ottemperare al duplice vincolo delle condizionalità e della tempistica va esplicitata in primis una visione realistica, immediatamente operativa, capace di porre mano alla fondamentale esigenza di connettere il Paese e di ridurre, con la ripresa dello sviluppo, le disuguaglianze economiche e sociali che – come la Ue sottolinea – minano alla base il Sistema Italia».

Per la Svimez, dunque, «occorre definire un chiaro Progetto di Sistema che – per quanto attiene al ruolo che compete al settore pubblico – sia incardinato su interventi produttivi, non assistenziali, in conto capitale, organicamente finalizzati a sostenere e migliorare le performance delle imprese e a recuperare il contributo di quel 40% di territorio e di oltre il 30% di cittadini per rimettere in moto il Mezzogiorno nell’ottica nazionale euromediterranea. In questo spirito va colta l’opportunità (da decenni trascurata) di partecipare in posizione centrale al governo del Mediterraneo, il luogo che più radicalmente la globalizzazione ha investito e reso strategico e nel quale l’Unione e noi – unico grande Paese dell’Unione esclusivamente mediterraneo – siamo invece a rischio di una progressiva emarginazione».

«L’obiettivo è quello di consolidare un aspetto di cruciale rilevanza della politica euromediterranea, che è fondamentale per il nostro ruolo. L’upgrading del sistema portuale meridionale, l’effettiva operatività delle Zes consentono di strutturare in modo efficiente le funzioni logistiche dell’intermodalità e della trasversalità territoriale, a cui deve concorrere la progressiva, rapida attivazione di un sistema di Autostrade del Mare (da tempo annunciata e mai adeguatamente sviluppata), fattore di ulteriore nostro vantaggio, sul versante della transizione energetica e della sostenibilità ambientale. Sarà così realizzata la missione di fare del “nostro” Mediterraneo, la grande piazza di un mercato di scambio, riscattando le nostre inerzie strategiche che lo hanno reso, fino ad ora, un passivo mare di transito».

«Partendo, quindi, dal Piano del Sud, riteniamo opportuno ribadire – continua il documento – che una pianificazione dedicata al Mezzogiorno, o una lettura del Mezzogiorno come dimensione geografica a se stante, è un comportamento antitetico a ciò che invece riteniamo approccio di “sistema”. E l’approccio di “sistema” impone una lettura organica e unica dell’intero assetto Paese: sarebbe bene produrre subito un documento organico del rilancio ed dell’ottimizzazione della offerta infrastrutturale e logistica del Paese, in un’ottica di sviluppo sostenibile euromediterraneo».

L’Ente, poi, sottolinea l’urgenza di costituire una unica società per azioni «in grado di ottimizzare, al massimo, le singole potenzialità» dell’offerta portuale del Mezzogiorno, costituita da 13 impianti aeroportuali.

«Una unica Società – viene spiegato – oltre a contenere i costi di gestione, potrebbe anche dare vita ad una vera specializzazione dei singoli scali e, soprattutto, potrebbe attrezzare solo due di essi a un servizio cargo, in grado di rendere efficienti e funzionali i trasporti delle primizie del comparto agroalimentare».

Proposta, anche, una riforma organica dell’offerta portuale del Mezzogiorno, dove «basterebbe – scrivono gli economisti – dare vita ad una chiara distinzione tra la portualità finalizzata al transhipment e quella destinata ad altre attività e definire i porti di Cagliari, Augusta, Gioia Tauro e Taranto come gli unici Hub del Mezzogiorno preposti ad una simile attività, e trasferire la gestione di tali Hub ad unica Società per Azioni. Le altre realtà portuali rimarranno legate a quanto previsto dall’attuale normativa. Il porto di Napoli, di Salerno, di Catania, di Palermo continueranno ad essere all’interno delle Autorità di sistema portuale. Una riforma sostanziale nella offerta di trasporto pubblico locale nelle aree urbane del Mezzogiorno».

La Svimez, poi, ha sottolineato l’urgenza di affrontare alcune questioni che, «se non affrontate, rischiano di fluire negativamente sulle modalità e sui tempi che ci vengono dettati dalla Ue in questo programma di ripresa e di sviluppo sostenibile»: la prima, è quella di «definire un programma a 100 giorni, in cui sarà bene che l’intera compagine di Governo lavori in modo collegiale; è necessario evitare che i singoli Dicasteri lavorino autonomamente perché le interazioni e le interdipendenze tra i vari Dicasteri in questa delicata fase diventano la condizione essenziale per riuscire a ricomporre le tessere socio – economiche del mosaico Paese».

«È, infatti, impensabile – continuano gli economisti – che la ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna, possa produrre delle linee strategiche essenziali per la crescita del Sud senza lavorare, durante i primi 100 giorni, con la ministra degli Affari Regionali, con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il ministro dell’Economia e delle Finanze ecc. In realtà, siamo sempre più convinti che la caratteristica più forte di questo Governo debba essere proprio questa elevata carica di collegialità nel formulare le proposte, nel varare scelte».

La seconda questione, poi, riguarda la definizione delle riforme: «diventa necessario che si pervenga alla definizione delle riforme misurando, caso per caso, le ricadute che ogni riforma provoca in comparti diversi. Siamo sicuri, ad esempio, che la riforma della Giustizia civile dovrà necessariamente essere affrontata leggendo, in modo capillare, le ricadute che si generano nel comparto delle costruzioni. Analogamente, la riforma del trasporto pubblico locale dovrà essere definita non solo dal Dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche dal Ministero dell’Ambiente, dal Ministero degli Affari Regionali e dal Ministero del Sud. Questa esigenza di complementarietà nasce proprio dalla esigenza di trasferire su mezzi pubblici la massima domanda di trasporto che invece usa ancora per oltre il 65% mezzi di trasporto privati».

«Occorre, quindi – scrivono ancora – rivedere le logiche con cui lo Stato, oggi, copre circa il 65% dei disavanzi delle società preposte alla gestione di una tale offerta di trasporto e forse occorre misurare quanto incida sulla produzione di CO2 e di polveri sottili tale trasporto e concordare con il Ministero dell’Ambiente la istituzione di un apposito Fondo rotativo capace di premiare le gestioni virtuose; tutto questo coinvolgendo le Regioni che, nel caso specifico, potrebbero concordare con lo Stato l’utilizzo delle risorse comunitarie (Pon e Por) per implementare al massimo la offerta di trasporto pubblico su guida vincolata (metropolitane pesanti e leggere)».

Un’altra questione, riguarda la «rivisitazione della fase autorizzativa delle proposte progettuali relative alle opere che si riterrà opportuno non solo inserire nel Recovery Plan, ma in quel Programma di opere che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dopo un aggiornamento del Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Legge Obiettivo, intenda confermare. Ebbene, la fase autorizzativa, che mediamente impiega oltre 30 mesi (con punte di 70 mesi), deve ridursi in un arco temporale di soli 90 giorni. Trattasi della riforma senza dubbio più rilevante ma possibile; perché le motivazioni dei tempi lunghi e delle scadenze temporali non rispettate è legata alla frantumazione dei pareri e alla disarticolata tempistica con cui questi vengono prodotti; è necessario effettuare l’esame di ogni proposta in una sede unica con la presenza dei vari Dicasteri competenti, con la emissione contestuale di tutti i pareri, con la partecipazione della Corte dei Conti e con un unico esame definitivo del Cipe».

«Un’azione del genere – continua il documento – è basilare per il Mezzogiorno dove dei 54 miliardi di risorse del Fondo di Coesione e Sviluppo, in sei anni, se ne sono impegnati solo 24 e spesi solo 7; dove su circa 26 miliardi di opere infrastrutturali approvate nel 2014 sono in corso di realizzazione solo interventi per un importo di circa 5 miliardi». (rrm)

SVIMEZ, LA CALABRIA SPROFONDA ANCORA
PRODOTTO INTERNO A -8,9%, FUGA DAL SUD

La Calabria sprofonda, lo certifica la Svimez con la presentazione del suo rigoroso rapporto sul Mezzogiorno. Il quadro presentato dal Rapporto Svimez è davvero preoccupante: la Calabria, nell’anno del Covid-19, perde l’8,9% del Prodotto Interno Lordo e le prospettive per l’anno del Covid non sono decisamente rosee: crescita marginale e continua fuga dal Sud.

Il Rapporto, presentato dal direttore della Svimez, Luca Bianchi, ha visto gli interventi del presidente, Adriano Giannola, e del ministro per il Sud e la Coesione Sociale, Giuseppe Provenzano e prevede che, per il 2021, in Calabria il Pil crescerà marginalmente (+0,6%), anche se si tratta di una «ripartenza frenata». Insieme alla Calabria, Sicilia (+0,7%), Sardegna (+0,5%), Molise (+0,3%).

«Si tratta – si legge nel Rapporto – di segnali preoccupanti di isolamento dalle dinamiche di ripresa esterne ai contesti locali, conseguenza della prevalente dipendenza dalla domanda interna e dai flussi di spesa pubblica».

Per quanto riguarda il Mezzogiorno, invece, il Rapporto individua tra le regioni più reattive la Basilicata (+2,4%), Abruzzo e Puglia (+1,7%) seguite dalla Campania (+1,6%), «confermando la presenza di un sistema produttivo più strutturato e integrato con i mercati esterni».

Un altro dato negativo arriva per quanto riguarda la popolazione: «nel 2018 si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 138mila residenti, di cui 20 mila hanno scelto un paese estero come residenza, una quota decisamente più elevata che in passato, come più elevata risulta la quota dei laureati, un terzo del totale».

«Il flusso di emigrati dal Sud verso il Centro-Nord – si legge nel Rapporto – ha raggiunto nel 2018 circa 118mila unità, 7 mila in più dell’anno precedente»: la Calabria (14,8 mila) è la regione che presenta il più elevato tasso migratorio, 4,5 per mille, seguita da Basilicata (3,8 per mille) e Molise (3,5 per mille).

«Nel Mezzogiorno – riporta la Svimez – il pendolarismo fuori regione è decisamente più intenso che nel resto del Paese, nel 2019 è praticato da circa 240mila persone, il 10,3% del complesso dei pendolari dell’area a fronte del 6,3% nel Centro-Nord. Un quinto dei pendolari meridionali (57 mila unità) si muove verso le altre regioni del Sud; i restanti quattro quinti (185 mila pari al 3% degli occupati residenti) si dirigono verso le regioni del Centro-Nord o i paesi esteri».

Per quanto riguarda il lavoro, la Svimez «stima una riduzione dell’occupazione del -4,5% nei primi tre trimestri del 2020, il triplo rispetto al CentroNord. E si attende una perdita di circa 280mila posti di lavoro al Sud. La crescita congiunturale dell’occupazione era già modesta, la ricerca di lavoro in diminuzione e l’inattività in aumento».

Un altro dato rilevato, sono gli ampi divari di cittadinanza: «la sanità meridionale era una zona rossa già prima dell’arrivo della pandemia, come dimostrano i punti Lea – Livelli essenziali di assistenza  e la spesa sanitaria pro capite».

Se si guardano i Lea, infatti, la Svimez ha evidenziato come nel 2018  «ultimo anno per il quale sono disponibili i risultati ed è anche il primo in cui tutte le regioni monitorate risultano adempienti, raggiungendo il punteggio minimo di 160. La distanza tra le regioni del Sud e del Centro- Nord è marcata, oscillando tra valori massimi di 222 punti del Veneto e 221 dell’Emilia -Romagna e i minimi di 170 di Campania e Sicilia e di appena 161 della Calabria».

«Per comprendere meglio – continua la Svimez – cosa si nasconda dietro queste differenze nei punteggi Lea in termini di impatto concreto sulle opportunità di cura dei cittadini, è utile guardare ad alcuni indicatori sull’accesso a particolari servizi sanitari. Drammatico è, ad esempio, lo squilibrio tra regioni italiane nelle attività di prevenzione. L’indicatore sintetico che misura la partecipazione della popolazione target ai programmi regionali di: screening mammografico per il tumore al seno; di screening per il tumore della cervice uterina; per il cancro del colon retto. Evidenzia uno score pari a 2, per la Calabria, mentre Liguria, Veneto, Provincia Autonoma di Trento e Valle d’Aosta sono le regioni con il punteggio più alto, pari a 15».

Altro aspetto drammatico, il divario scolastico e formativo, già evidente nei servizi per l’infanzia: «I posti autorizzati per asili nido rispetto alla popolazione sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del paese. La spesa pro capite dei Comuni per i servizi socioeducativi per bambini da 0 a 2 anni è pari a 1.468 euro nelle regioni del Centro, a 1. 255 euro nel Nord-Est per poi crollare ad appena 277 euro nel Sud. Nel Centro-Nord, nell’anno scolastico 2017-18, è stato garantito il tempo pieno al 46,1% dei bambini, con valori che raggiungono il 50,6% in Piemonte e Lombardia. Nel Mezzogiorno in media solo al 16%, in Sicilia la percentuale scende ad appena il 7,4%».

«Infine – si legge nel Rapporto – il Sud presenta tassi di abbandono assai più elevati: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers meridionali erano il 18,2% a fronte del 10,6% delle regioni del Centro-Nord. In cifra fissa si tratta di 290mila giovani. Valori più elevati si registrano nel Mezzogiorno sia per i maschi (21% a fronte del 13,7% del Centro-Nord) sia per le femmine (16,5% a fronte del 9,6% del Centro-Nord)».

rapporto Svimez

Per quanto riguarda le Politiche di Coesione, la Svimez ha rilevato una «forte disomogeneità tra Programmi. In termini di pagamenti a valere sul Fesr appaiono in maggiore ritardo i Por delle Marche, dell’Abruzzo, della Calabria, sul Fse invece appaiono particolarmente in ritardo i programmi di Sicilia, Campania e Abruzzo».

Per la Svimez, nel Mezzogiorno, per quanto riguarda le infrastrutture e investimenti di opere pubbliche, «un sostanziale e straordinario cambiamento di prospettiva si può realizzare con le risorse di New Generation Eu, grazie alle quali si potrebbe raggiungere e superare entro il 2024 un livello di investimenti pubblici superiore al 3% del Pil». Nel ranking regionale europeo, infatti, «la regione del Mezzogiorno più competitiva è la Campania, ma posizionata quasi a metà graduatoria (100° su 263), seguita da Puglia (143°), Calabria (175°), Sicilia (161°), Abruzzo (176°), Sardegna (203°), Basilicata (234°) e Molise (245°)».

«Il Rapporto – spiega la Svimez – si sofferma su alcune proposte per cogliere appieno l’occasione offerta dalla condizionalità «buona» europea di orientare gli investimenti agli obiettivi della coesione economica e sociale e al sostegno alla transizione verde e digitale. Temi che esaltano il contributo del Mezzogiorno alla ripartenza. Con due priorità. Va innanzitutto riavviato un percorso sostenibile di riequilibrio nell’accesso ai diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale: salute, istruzione, mobilità».

«In secondo luogo – prosegue la Svimez – non può essere più rimandata la definizione di un disegno unitario di politica industriale per valorizzare la prospettiva green e la strategia Euro-mediterranea. Un contributo da Sud alla ripartenza del Paese lo può dare il Quadrilatero Zes nel Mezzogiorno continentale, Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro, da estendersi alla Sicilia. E poi, agroalimentare, bioeconomia circolare, green deal, a partire dal caso dei rifiuti sono occasioni per trasformare i ritardi in un’opportunità». (rrm)

 

In copertina, il direttore della Svimez, Luca Bianchi.

LA RICETTA SVIMEZ PER IL RECOVERY FUND
METÀ INVESTIMENTI AL SUD PER CRESCERE

La ricetta per far crescere l’Italia del post-covid? Semplice, secondo la Svimez, l’Istituto per lo Sviluppo degli investimenti nel Mezzogiorno: alzare il livello di spesa previsto al Sud  ben oltre il 34%. Destinare alle regioni meridionali metà delle risorse che arriveranno dal Recovery Fund significherebbe rilanciare il Pil del Paese, grazie alla spinta propulsiva che verrebbe dai nuovi investimenti nel Mezzogiorno. A parole sembra un’operazione facile, ma il direttore della Svimez Luca Bianchi, parlando in audizione alla Commissione Bilancio della Camera, ha proposto una simulazione in grado di tracciare i possibili effetti di crescita del Pil di breve e lungo periodo che potrebbe derivare dall’impiego delle risorse europee. E lo scenario, bisogna dirlo, oltre che suggestivo appare particolarmente allettante, soprattutto nel momento in cui il cosiddetto Recovery Plan incontra inspiegabili posizioni che non collimano sull’obiettivo finale di crescita e sviluppo.

La simulazione – ha spiegato Bianchi – si concentra sulla quota di risorse aventi il carattere di sovvenzione netta, ovvero i circa 77 miliardi di euro di contributi che non dovranno essere coperti da maggiore tassazione o riduzioni di spesa. L’ipotesi cruciale è la destinazione quasi totalitaria di tali risorse al finanziamento di investimenti nelle aree di intervento individuate come prioritarie nel Next Generation EU, concentrando almeno il 50% di tali investimenti nella realizzazione di opere pubbliche. La simulazione considera 3 scenari riguardo la possibile allocazione territoriale delle risorse, prevedendo quote crescenti di investimenti nel Mezzogiorno.

Nel primo scenario, si ipotizza che solo una quota pari al 22,5% dei 77 miliardi sia destinata al Mezzogiorno. Nel secondo, invece, assimilando la dotazione in conto sovvenzione del Recovery Fund a risorse ordinarie in conto capitale, si valuta il possibile impatto dell’applicazione della clausola del 34% per il riparto delle risorse. Infine, nell’ultimo scenario si assume una destinazione al Mezzogiorno del 50% dei 77 miliardi previsti dal Recovery Fund.

In questa maniera è possibile allargare la valutazione dell’impatto delle principali misure di politica economica nazionale a livello regionale. Il modello considera tutti gli effetti associati alla (ipotetica) realizzazione di un piano di investimenti, che si dividono in tre tipologie: diretti, indiretti, e indotti. Il primo riguarda la produzione realizzata direttamente in seguito ai maggiori investimenti effettuati. Il secondo, indiretto, valuta gli impatti, in termini di maggiori input e servizi acquistati per la realizzazione degli investimenti. Il terzo, indotto, riguarda l’incremento di produzione di beni di consumo che deriva dai maggiori livelli di reddito e occupazione generati dall’aumento dell’attività produttiva, diretta e indiretta, oggetto di valutazione.

Le ragioni che giustificano l’emergere di tali risultati, e su cui si basa la ricetta Svimez di un ripristino della capacità produttiva del Mezzogiorno, sono essenzialmente due. Nel breve periodo, data l’interdipendenza tra Nord e Sud, i maggiori investimenti nel Mezzogiorno alimentano un effetto indiretto sulle produzioni del Nord, attraverso una domanda di beni e servizi necessari alla realizzazione di tali investimenti. La Svimez calcola che per ogni euro di investimento al Sud, si generi circa 1,3 euro di valore aggiunto per il Paese, e di questo, circa 30 centesimi (il 25%) ricada nel Centro-Nord. Nel lungo periodo, il processo di accumulazione di capitale, dati i rendimenti decrescenti al crescere della dotazione dello stock di capitale, produce dinamiche più sostenute nel Mezzogiorno che al Centro-Nord. Anche in questo caso, il modello Svimez evidenzia come posto uguale ad 1 il valore del moltiplicatore nel primo anno di realizzazione degli investimenti, questo cresca di oltre il 70% al Mezzogiorno alla fine del quadriennio, contro una crescita del 10% al Centro-Nord.

La combinazione di questi effetti – secondo la Svimez – induce a non ritardare ulteriormente l’avvio di politiche di riequilibrio degli investimenti e a cogliere la straordinaria occasione posta dal Recovery Fund. Per l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund (RF) predisposto dall’UE con le sue opportune e rigide condizionalità è necessario ora fissare precisi obiettivi, varare progetti e definire un percorso. Per soddisfare queste condizioni va condivisa ed esplicitata in primis una “visione” convincente, realistica e immediatamente operativa che ponga mano alla fondamentale esigenza di connettere il Paese affrontando il multidimensionale ed imponente problema di governare e ridurre drasticamente le disuguaglianze economiche e sociali che – l’esperienza insegna – minano alla base le potenzialità del Sistema. A questo scopo, più che sollecitare e fare un inventario di progetti occorre definire un chiaro disegno di sistema che – per quanto attiene al ruolo che compete al settore pubblico – sia incardinato su interventi produttivi, non assistenziali, in conto capitale organicamente finalizzati a recuperare il contributo alla crescita ed allo sviluppo di quel 40% di territorio e di oltre il 30% di cittadini. Secondo la Svimez, ciò rappresenta la condizione preliminare per ridare fiato alle stanche locomotive del Nord che, a loro volta, di un simile “cambiamento di visione” dovrebbero cogliere l’enorme opportunità (da decenni trascurata) riveniente dalla prospettiva di partecipare al governo ed allo sviluppo del Mediterraneo, il luogo che più radicalmente la globalizzazione ha investito rendendolo centrale e strategico e nel quale noi – unico grande Paese dell’Unione esclusivamente mediterraneo – siamo ai margini se non assenti.

Ad una attenta lettura – ha fatto notare Bianchi della Svimez –, le imponenti dimensioni delle risorse messe in campo e le condizionalità del RF in risposta alla crisi rappresentano di fatto l’investitura ad articolare e sviluppare la cosiddetta e fin qui fantomatica opzione euromediterranea. È una missione in sintonia oggi più che mai con gli interessi della UE impegnata a realizzare nelle forme smart e green quel percorso di sviluppo sostenibile che dovrebbe concludersi nel 2050 con la decarbonizzazione integrale dell’UE. La cogente priorità della salvezza del pianeta consentirebbe a noi – finalmente – un percorso privilegiato per mettere fin da oggi a fuoco e a frutto per l’intero Sistema Italia l’enorme rendita rappresentata dal nostro vantaggio posizionale che offre il Mediterraneo. La priorità immediata è quella di calibrare efficaci politiche attive per riconnettere e sintonizzare su questo obiettivo il Sistema Italia.

A preoccupare sono le ricadute sociali di un impatto occupazionale, più forte nel Mezzogiorno, che perde nel solo 2020 380mila posti di lavoro. La perdita di occupati è paragonabile a quella subita nel quinquennio 2009-2013 (-369.000). Si consideri la debolezza del Paese nel momento clou della pandemia, con evidenti situazioni di stagnazione al Nord e di recessione al Sud. Questo non ha fatto altro che accentuare un secondo divario non soltanto più tra Mezzogiorno e Settentrione, ma quello tra Italia e Paesi Ue, con il Pil in caduta libera negli ultimi vent’anni e un reddito pro-capite assolutamente in degrado tra Mezzogiorno e resto del Paese: facendo base Ocse 100 nel 2001 era 108 per l’Italia contro 74 del Mezzogiorno, per diventare nel 2013 88 contro 53.

Le stime SVIMEZ indicano una caduta del Pil, nel 2020, dell’8,2% nel Mezzogiorno e del 9,6% nel Centro-Nord (Italia: -9,3%). Il calo del Pil è più accentuato al Centro-Nord che risente in misura maggiore del blocco produttivo imposto per contenere la diffusione della pandemia e per due ordini di motivi aggiuntivi. In primo luogo, prima ancora della sua diffusione in Italia, la pandemia ha determinato una caduta del commercio mondiale di entità non dissimile, in base alle informazioni attualmente disponibili, da quella del 2009. Nel 2020, le esportazioni di merci dovrebbero contrarsi, rispettivamente, del 15,6 e del 13,7% nel Sud e nel Centro-Nord. In quest’ultima area esse pesano, però, per quasi il 30% sul Pil, rispetto a meno del 10 in quelle meridionali.

Con questi numeri la simulazione del terzo scenario indicato dalla Svimez con investimenti pari o superiori al 50%da destinare al Mezzogiorno deve servire da parametro fondamentale di valutazione della programmazione e del disegno progettuale che il Recovery Plan impone di fare. La Svimez punta il faro sul Quadrilatero Zes del Mezzogiorno continentale, l’asse siciliano, le autostrade del mare. Un percorso ben definito a cui occorre una pronta risposta politica e un impegno non da poco.  (ed)

COVID-19: SUD E CALABRIA MENO COLPITI,
MA PER LA SVIMEZ CRESCERÀ IL DIVARIO

I numeri sono impietosi e il nuovo allarme che proviene dalla Svimez, l’Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno, con la pubblicazione delle Previsioni regionali 2020-2021 non danno spazio ad alcun dubbio: il Mezzogiorno e la Calabria, “risparmiati” dalla pandemia con numeri di contagio molto bassi, patiranno in modo pesante gli effetti economici della crisi. Ovvero il divario Nord-Sud anziché restringersi andrà ad allargarsi: secondo quanto scrive la Svimez «resiste la chiave di lettura Centro-Nord/Mezzogiorno, ma le previsioni per il 2021 mostrano i segnali di una divaricazione interna alle due macro-ripartizioni: le tre regioni forti del Nord ripartono con minori difficoltà; il resto del Nord e le regioni centrali mostrano maggiori difficoltà; un pezzo di Centro scivola verso Mezzogiorno; il Mezzogiorno rischia si spaccarsi tra regioni più resilienti e realtà regionali che rischiano di rimanere “incagliate” in una crisi di sistema senza vie di uscita».

Secondo l’autorevole Istituto di studi e ricerca sul Mezzogiorno, «la differenziazione territoriale dei processi di resistenza allo shock e di ripartenza nel post-Covid pone al governo nazionale il tema della riduzione dei divari regionali come via obbligata alla ricostruzione post-Covid. Creare le condizioni per restituire alle regioni del Centro in difficoltà i tassi di crescita conosciuti in passato, liberare le regioni più fragili del Sud dal loro isolamento che le mette al riparo dalle turbolenze ma le esclude dalle, ricompattare il sistema produttivo nazionale intorno ad un disegno di politica industriale volta a valorizzare la prospettiva euro-mediterranea l, sono tutte premesse indispensabili per far crescere, insieme, l’economia nazionale. Anziché affannarsi a sostenere la causa delle tante questioni territoriali (del Nord, del Centro, del Mezzogiorno) che si contendono il primato nel dibattito in corso sulle vie di uscita dalla pandemia, è tempo di compattare l’interesse nazionale sul tema che le risolverebbe tutte se solo l’obiettivo della crescita venisse perseguito congiuntamente a quello della riduzione dei nostri divari territoriali».

In poche parole, le previsioni regionali «aprono la “scatola nera” del differenziale di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel 2021 svelando una significativa diversificazione interna alle due macro-aree nella transizione al post-Covid». Dai dati diffusi si evince che l’unica regione italiana che recupera in un solo anno i punti di Pil persi nel 2020 è il Trentino. A seguire, le tre regioni settentrionali del “triangolo della pandemia” guidano la ripartenza del Nord: +7,8% in Veneto, +7,1% in Emilia Romagna, +6,9% in Lombardia. Segno, questo, che le strutture produttive regionali più mature e integrate nei contesti internazionali perdono più terreno nella crisi ma riescono anche a ripartire con più slancio, anche se a ritmi insufficienti a recuperare le perdite del 2020. Maggiori le difficoltà a ripartire di Friuli V.G., Piemonte, Valle d’Aosta e, soprattutto, Liguria.

«Le regioni centrali – evidenzia la Svimez – sono accomunate da una certa difficoltà di recupero, in particolare l’Umbria e le Marche. Alla questione settentrionale e a quella meridionale intorno alle quali tradizionalmente si polarizza il dibattito nelle crisi italiane, sembra aggiungersi una “questione del Centro” che mostra segnali di allontanamento dalle aree più dinamiche del paese, scivolando verso Sud».

Tra le regioni meridionali, le più reattive nel 2021 sono, nell’ordine, Basilicata (+4,5%), Abruzzo (+3,5%), Campania (+2,5%) e Puglia (+2,4%), confermando la presenza di un sistema produttivo più strutturato e integrato con i mercati esterni. A fronte del Sud che riparte, sia pure con una velocità che compensa solo in parte le perdite del 2020, nel 2021 ci sarà anche un Sud dalla ripartenza frenata: Calabria (+1,5%), Sicilia (+1,3%), Sardegna (+1%), Molise (+0,9%). Si tratta di segnali preoccupanti di isolamento dalle dinamiche di ripresa esterne ai contesti locali, conseguenza della prevalente dipendenza dalla domanda interna e dai flussi di spesa pubblica.

L’impatto sui redditi delle famiglie nel 2020 è in media meno intenso nel Mezzogiorno (-3,2% contro il -4,4% del Centro-Nord) anche per effetto degli ingenti trasferimenti previsti dalle misure di sostegno al reddito previsti dal Governo. Il calo riguarda in particolare l’Emilia Romagna (-6,3%), Marche (-5,7%), Umbria (-5,2%) e Piemonte (-5,2%). Per il 2021 è atteso un recupero in tutte le regioni del Centro e del Nord, soprattutto nel “triangolo della pandemia”. Le regioni meridionali condividono una riduzione meno intensa dei redditi nel 2020 ma, al tempo stesso, un recupero più debole nel 2021. È questo il caso, in particolare, di Calabria, Molise, Sardegna e Sicilia, che non recupereranno le perdite del 2020.

Anche dal punto di vista del reddito, nel post-covid, ci sono evidenti condizionamenti sui consumo delle famiglie. La spesa delle famiglie cala bruscamente in tutte le regioni italiane con una variabilità interna alle due macro-aree piuttosto correlata alla dinamica dei redditi. Nelle Marche (-12,3%) e in Umbria (-12.2%) i crolli più evidenti; in Lombardia (-7,3%), Molise (-7,4%), Trentino (-7,7%) e Sicilia (-7,7%) quelli meno intensi ma di entità comunque eccezionale. La forbice si allarga se si guarda alla ripresa della spesa delle famiglie nel 2021. Nelle regioni del Centro e del Nord, in media, i consumi delle famiglie aumenteranno del 5,0% recuperando solo la metà della perdita del 2020; nelle regioni del Mezzogiorno il recupero sarà meno di un terzo: +2,7% dopo la caduta del -9,0% del 2020. Particolarmente stagnante sarà la spesa delle famiglie in Sardegna, Sicilia e Calabria.

Non meno significativa la differenziazione per quel che riguarda gli investimenti delle imprese. Su base regionale mostrano caratteristiche comuni alla spesa delle famiglie: una maggiore differenziazione nella ripartenza, comunque stentata, del 2021 rispetto alla caduta del 2020. Al Nord il crollo è particolarmente intenso in Emilia Romagna (-17,9%) e Piemonte (-18,0%); al Centro in Toscana (-17,5%); nel Mezzogiorno in Campania (-16,3%).  Gli investimenti torneranno a crescere a tassi più sostenuti, ma comunque insufficienti a compensare le perdite del 2020, in Lombardia (+9,8%), Veneto (+9,5%) ed Emilia Romagna (+8,2%). Debole la ripartenza degli investimenti in Calabria (+2,2%), Sicilia (+2,5%) e Campania (+2,7%).

La domanda estera, infine, in profonda contrazione nel 2020 (-15,3% in media nel Mezzogiorno; -13,8% nel Centro-Nord), tornerà a crescere nel 2021 – secondo la Svimez – a ritmi più sostenuti nelle economie regionali dalle vocazioni produttive più orientate all’export. (ed)

Tab. 1: Previsioni per il Pil, Regioni, Circoscrizioni e Italia, var. %.

Regioni 2019 2020 2021
Piemonte -0,2 -11,0 5,3
Valle d’Aosta 0,3 -7,0 3,7
Lombardia 0,0 -9,9 6,9
Trentino A.A. -0,4 -6,0 5,9
Veneto 1,0 -12,2 7,8
Friuli V.G. 0,6 -10,1 4,5
Liguria 0,1 -8,5 3,7
Emilia-Romagna -0,5 -11,2 7,1
Toscana 0,7 -9,5 5,5
Umbria 1,6 -11,1 4,7
Marche 0,6 -10,6 5,0
Lazio 0,7 -8,1 4,1
Abruzzo 0,1 -8,3 3,5
Molise 1,7 -10,9 0,9
Campania 0,3 -8,0 2,5
Puglia 0,6 -9,0 2,4
Basilicata 1,4 -12,6 4,5
Calabria 1,1 -6,4 1,5
Sardegna 0,7 -5,7 1,0
Sicilia 1,1 -5,1 1,3
Mezzogiorno 0,9 -8,2 2,3
Centro-Nord 0,4 -9,6 5,4
Italia 0,6 -9,3 4,6

Fonte: Modello NMODS.

 

Tab. 2: Previsioni per spesa e redditi delle famiglie, investimenti e delle esportazioni, Regioni, Circoscrizioni e Italia, var. %.

Regioni Spesa famiglie Reddito Famiglie Investimenti Esportazioni
2019 2020 2021 2019 2020 2021 2019 2020 2021 2019 2020 2021
Piemonte 0,8 -10,5 5,0 -0,6 -5,2 6,5 0,7 -18,0 6,1 -4,3 -16,2 7,8
Valle d’Aosta 0,3 -11,2 4,1 0,1 -5,0 6,0 1,5 -10,4 4,6 -6,3 -2,0 3,9
Lombardia 0,0 -7,3 5,5 -1,2 -3,5 7,5 0,9 -16,5 9,8 -1,4 -5,9 11,1
Trentino A.A. 0,4 -7,7 4,4 0,8 -3,9 7,3 0,8 -15,8 7,7 0,9 -16,1 5,6
Veneto 0,3 -11,7 5,3 -0,1 -4,2 8,0 2,0 -15,9 9,5 0,2 -18,2 10,5
Friuli V.G. 0,6 -10,8 4,9 -0,5 -4,1 6,3 1,9 -9,8 5,2 -1,6 -15,6 6,9
Liguria 0,8 -8,2 5,1 -0,8 -2,7 4,6 1,4 -15,2 4,2 -7,3 -17,1 7,4
Emilia-Romagna 0,6 -10,2 5,6 -0,2 -6,3 7,0 0,7 -17,9 8,2 2,7 -15,9 10,2
Toscana 0,4 -10,4 5,2 0,4 -4,5 6,7 1,9 -17,5 6,8 13,6 -17,0 4,0
Umbria 1,0 -12,2 4,4 0,5 -5,2 5,2 2,8 -11,4 5,6 -0,9 -2,2 4,5
Marche 1,2 -12,3 4,2 2,2 -5,7 6,1 1,9 -16,1 5,1 2,6 -20,4 11,8
Lazio 1,0 -9,2 6,0 -0,5 -3,1 5,8 1,9 -11,0 5,3 13,5 -18,8 8,9
Abruzzo 0,9 -9,1 2,7 3,1 -3,2 4,2 1,5 -13,3 5,9 -1,9 -13,4 9,7
Molise 1,1 -7,4 2,8 3,9 -4,0 2,2 3,0 -12,8 3,2 11,1 -19,2 3,8
Campania 1,0 -10,1 2,6 1,8 -3,5 4,6 1,5 -16,3 2,7 7,5 -16,8 11,9
Puglia 0,5 -9,1 3,3 -0,6 -1,8 3,9 1,7 -14,3 4,0 -4,3 -13,2 7,1
Basilicata 1,0 -9,4 4,8 3,7 -3,5 4,1 2,1 -12,8 4,2 -17,6 -32,1 20,8
Calabria 0,8 -9,4 1,3 2,1 -2,9 2,1 2,5 -9,2 2,2 -17,0 -8,5 7,0
Sardegna 1,2 -10,1 2,2 2,6 -3,6 2,1 2,1 -11,3 4,6 8,2 -10,1 7,5
Sicilia 1,2 -7,7 1,9 2,3 -3,0 2,3 3,3 -12,2 2,5 -1,9 -9,5 10,1
Mezzogiorno 1,0 -9,0 2,7 2,4 -3,2 3,2 2,2 -12,8 3,7 -2,0 -15,3 9,7
Centro-Nord 0,6 -10,2 5,0 0,0 -4,4 6,4 1,5 -14,6 6,5 1,0 -13,8 7,7
Italia 0,8 -9,7 4,1 1,0 -3,9 5,1 1,8 -13,9 5,4 -0,2 -14,4 8,5

Fonte: Modello NMODS.

Santo Biondo di Uil Calabria: non sottovalutare le previsioni regionali Svimez

Il segretario regionale della Uil Calabria Santo Biondo, a proposito dei dati sulle previsioni regionali 2020-2021 diffusi dalla Svimez (vedi focus sopra) lancia l’invito a considerare con la dovuta attenzione i profili della crisi che emergono con chiarezza: «L’ennesimo segnale di allarme lanciato dalla Svimez – ha detto Biondo – sullo scollamento produttivo e sociale dell’Italia non venga sottovalutato. Ciò che viene sottolineato dagli analisti è la perdurante crisi del Mezzogiorno, ed in particolare della Calabria, che finisce per allargare ancora di più la forbice fra il Nord ed il Sud del Paese»

Secondo il segretario Uil «È necessario produrre un’accelerazione nella messa in campo di una strategia che trovi nel corretto utilizzo dei fondi europei la chiave di volta per un territorio ormai da troppo tempo in preda ad una crisi senza risoluzione, ponendo particolare attenzione al Mezzogiorno e, soprattutto, alla Calabria che, nel quadro meridionale, appare essere la regione con le maggiori sofferenze. Oggi quindi torniamo a chiedere al Governo una spinta determinante per la formalizzazione del Piano per il Sud che, adesso, deve essere ulteriormente incrementato anche grazie al corretto utilizzo dei fondi messi a disposizione dall’Europa con il Recovery Fund. Grazie a questi, e in una logica di perfetta complementarietà con i fondi nazionali, sarà possibile – ha dichiarato Biondo – avviare un grande piano di ammodernamento delle infrastrutture materiali ed immateriali della Calabria, che ha bisogno di vedere migliorare le sue capacità di mobilità attraverso il completamento della strada statale 106; di incrementare le sue possibilità produttive con l’avvio della Zes; di rivedere in chiave ef cientista il suo sistema sanitario e tutti i servizi essenziali alla persona e che, in ultimo ma non per ultimo, vuole ridurre il divario digitale che ancora l’allontana dal resto del Paese».

Il segretario della Uil calabrese non risparmia critiche alla Regione: «È fondamentale che il governo regionale si dia una mossa, si apra convintamente al confronto sulla riprogrammazione dei fondi comunitari 2014/2020 e sulla progettazione concreta e produttiva di quelli previsti per i prossimi sei anni. Sul tavolo, poi, ci sono i fondi nazionali e la quota parte del Recovery Fund che dovrà essere destinato alla Calabria, una messe imponente di denaro che, se speso correttamente, potrebbe finalmente cambiare il volto economico e sociale di questa regione. L’occasione non può essere sprecata. Bisogna strutturare in tempi rapidi e certi il confronto all’interno del Partenariato economico e sociale sia per quanto riguarda la riprogrammazione del Por 2014/2020 che la nuova programmazione 2021/2027» (ed)

SVIMEZ, IL SUD RINUNCIA ALL’UNIVERSITÀ
MA ALL’UNICAL CRESCONO LE DOMANDE

di SANTO STRATI – La grande fuga dall’Università: la Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, lancia l’allarme sulla rinuncia di troppi giovani agli studi universitari, anche a causa della crisi economica conseguente al Covid. Almeno 10mila quest’anno e di questi due terzi (6300) appartengono a regioni del Sud. Per fortuna, la Calabria è in controtendenza: all’Unical ci sono già 785 domande di ammissione in più rispetto al 2019 (+ 15%) e c’è ottimismo anche alla Mediterranea di Reggio e alla Magna Graecia di Catanzaro. Un segnale importante di come i giovani calabresi abbiano in grande considerazione i percorsi formativi e di specializzazione. L’Unical, peraltro, continua a segnare incrementi di posizione nel rank di valutazione delle università più importanti al mondo e sarebbe opportuno che fossero ulteriormente allargati gli impegni della Regione nei confronti dei tre atenei calabresi. Abbiamo tre università che sfiorano l’eccellenza e rappresentano una significativa attrazione per i giovani: non ci sarebbe da stupirsi se venisse invertita la tendenza che ha caratterizzato gli anni del secondo Novecento: i giovani calabresi andavano a studiare fuori (non c’era l’università in Calabria), da Reggio a Messina, da Cosenza e Catanzaro a Napoli, Roma, Pavia, Bologna. Purtroppo, diventava spesso un biglietto di sola andata: le capacità dei nostri ragazzi venivano valorizzate e apprezzate, diventava facile farli restare. Risorse giovani, fresche capacità, che hanno fatto la fortuna del Centro-Nord. Non a caso, molti dei più apprezzati professionisti nel campo della medicina, della scienza, della giurisprudenza che occupano oggi posti di grande rilievo in tutt’Italia appartengono a quella schiera di universitari “in trasferta”, orgoglio di una Calabria matrigna che li ha lasciati andare senza mai offrire un minimo di opportunità

I tempi sono cambiati, molte problematiche rimangono: i nostri laureati sono presi di mira da multinazionali, grandi aziende, imprese europee, che intuiscono il potenziale rappresentato da competenza, capacità e voglia di arrivare. Lo ripetiamo spesso, negli ultimi trent’anni è stato rubato il futuro ai nostri ragazzi, costretti ad andar via (240mila) lasciando famiglie, affetti, qualità della vita che Milano, Roma, Londra o New York non riescono a dare. E allora occorre investire sull’università, sulla formazione, sulla specializzazione, costruendo opportunità di crescita in casa propria. Il settore è ampio: innovazione, biotecnologie, turismo, agricoltura biologica, cultura, ambiente. In ognuno di questi campi c’è bisogno di menti pensanti, di giovani capaci che sarebbero felici di mettere le proprie risorse e le loro competenze al servizio della loro terra.

L’Italia, di per sé, non brilla per immatricolazioni universitarie: secondo l’Ocse siamo al 54% contro il 73% della Spagna, il 68% delle Germania, il 66% delle Francia. Questi dati fanno emergere un basso grado di istruzione terziaria fra i 30-34enni che nel 2018 si è fermato al 34% contro una media europea del 45,8%. E nel Mezzogiorno, il dato, come fa rilevare la Svimez, scende al 26,8%, 12 punti in meno rispetto al 38,2 del Centro Nord.

La Svimez ha fatto notare che «la crisi economica 2008-2009 che si è trascinata fino al 2013 ha determinato un impoverimento delle famiglie che, non adeguatamente supportate dalle politiche pubbliche, ha provocato un crollo delle iscrizioni alle Università, soprattutto nel Mezzogiorno. Tra il 2008 e il 2013 il tasso di passaggio Scuola-Università nel Mezzogiorno è crollato di 8,3 punti percentuali, quattro volte la diminuzione del Centro-Nord (1,6 punti). In un quinquennio gli iscritti si sono ridotti di oltre 20 mila unità nelle regioni del Mezzogiorno. Anche nel Centro-Nord, la crisi aveva determinato un calo del tasso di proseguimento degli studi (-2 punti circa) ma per effetto della crescita dei diplomati non si è determinato una flessione del numero complessivo degli iscritti. La ripresa degli immatricolati e del tasso di passaggio nel periodo di debole ripresa (2013-19) ha consentito solo un parziale recupero per il Mezzogiorno, ancora lontano dai valori del 2008, a differenza del Centro-Nord che è ritornato sui valori precrisi. Secondo il dato più recente, 2019, il Mezzogiorno ha ancora 12.000 immatricolati in meno rispetto al 2008 e un tasso di passaggio di oltre 5 punti percentuali più basso. Viceversa, il Centro-Nord ha registrato per l’intero periodo un incremento di 30.000 immatricolati circa e un aumento di oltre un punto percentuale del suo tasso di passaggio».

La Svimez, alla luce di queste proiezioni, ha elaborato una serie di proposte che non dovranno essere trascurate, perché significativamente di grande impatto: «Rendere sistematica la proposta strutturale del Ministero dell’Università di estendere la no tax area da 13.000 a 20.000 in tutto il Paese, prevedendo innalzamento a 30.000.

«Prevedere, in conseguenza della crisi, una borsa di studio statale che copra l’intera retta 2020 nelle Università pubbliche, vincolata al raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano di studi nel primo anno di corso.

«Considerare l’Università come fondamentale infrastruttura pubblica dello sviluppo destinando risorse specifiche del piano europeo Next Generation per rafforzare il diritto allo studio nelle regioni a più basso livello di reddito così da evitare che la crisi anche questa volta finisca per aumentare le diseguaglianze.

«Valorizzare le infrastrutture della ricerca, sostenendo le esperienze positive esistenti nel Mezzogiorno attraverso il rafforzamento di 4-5 poli di formazione, ricerca e innovazione che possano diventare attrattori di capitale umano qualificato e imprese innovative.

«Garantire un investimento sulle infrastrutture digitali che colmi il divario esistenti tra Atenei del Nord e Atenei del Sud. La crisi ha dimostrato l’utilità degli strumenti digitali e il Mezzogiorno deve farsi trovare pronto per evitare un ulteriore acuirsi del fenomeno della fuga dei cervelli in versione digitale.

«Definire un piano organico di interventi per l’Università che coinvolga anche altri livelli istituzionali. Regioni o altri Ministeri, possono fare la loro parte prevedendo ulteriori misure a sostegno dei giovani che intendono intraprendere la carriera universitaria. Non solo in termini di tasse universitarie ma anche di servizi agli studenti, trasporti pubblici, diritto allo studio. La Campania, la Sicilia, la Puglia hanno già dato ottimi segnali in questo senso».

Nel 2020 la stima sugli studenti “maturi” è di 292mila unità al Centro-Nord e circa 197mila nel Mezzogiorno. Di questi ultimi, il 3,6% potrebbe rinunciare a proseguire gli studi (percentuale che scende all’1,5 nel Centro-Nord). Ci sono, però, questi segnali positivi che arrivano dagli atenei calabresi: la voglia di crescere culturalmente con una formazione universitaria è forte e l’incremento delle domande (rispetto alla contrazione degli anni passati) lascia ben sperare. I nostri ragazzi mostrano una grande capacità, sono il nostro futuro, facciamoli studiare, ma non costringiamoli, poi, ad andar via. (s)