L’ESEMPIO DI MONGIANA: UN ‘SACCHEGGIO’
POST UNITARIO CHE AVVIÒ IL DIVARIO A SUD

di PAOLO BOLANO – Mongiana è una località situata nell’appennino calabrese. Qui prima dell’Unità d’Italia circa duemila tra operai, tecnici, ingegneri e dirigenti lavoravano a un grande polo siderurgico che produceva armi. Era il fiore all’occhiello di tutto il Regno. Dopo l’Unità le ferriere di Mongiana sono state trasferite a Terni senza alcuna giustificazione.

Oppure, diciamo cosi, invece di rimodernare la fabbrica, renderla competitiva, si è deciso di chiuderla e trasferirla altrove con grande danno per i calabresi. La domanda a questo punto sorge spontanea: così la nuova Italia cominciava a recuperare i ritardi Nord-Sud? Dei duemila operai rimasti a spasso una parte emigrò e l’altra andò a ingrossare le file dei briganti in montagna. Come vedete la politica, dopo l’Unità, non fece nulla per questa prima operazione di rapina perpetrata ai danni della Calabria.

Una politica che enfatizzava la “questione meridionale” per avere risorse, non per lo sviluppo, ma per alimentare le clientele. Ne sappiamo qualcosa anche oggi. La chiusura del centro siderurgico di Mongiana contribuì a creare insanabili difficoltà politiche al nascente Stato Unitario e portò dritto dritto alla terribile “guerra sociale” o mancata rivoluzione agraria etichettata col nome di “brigantaggio meridionale”, che insanguinò per anni le nostre contrade meridionali e calabresi.

Ci fu sgomento a Mongiana e dintorni, incredulità, risentimento, proteste, saccheggi, vandalismi ai danni della ferriera. I lavoratori e le loro famiglie si ribellarono al nuovo potere politico che portava via il polo siderurgico che dava pane a migliaia di famiglie nel cuore dell’appennino calabrese. Era la prima dimostrazione lampante che la destra e la sinistra che governavano in quel periodo non erano in grado di affrontare e risolvere la “questione meridionale”, che come esigenza primaria aveva la questione sociale. Fu questa la molla che scatenò appunto l’esplosione del vastissimo fenomeno noto come “brigantaggio meridionale”, che per anni ha impegnato mezzo esercito per combatterlo.

La “legge Pica” ha permesso lo “stato d’assedio” in molti paesi del sud , dove le rappresaglie nei villaggi furono violente e sanguinose. Ci furono fucilazioni di massa di contadini poveri considerati fiancheggiatori dei briganti. Era povera gente che protestava per avere un tozzo di pane, un pezzo di terra da coltivare, l’unica speranza per ricavare un piatto caldo per se e per la famiglia. Era un tempo difficile, la borghesia agraria purtroppo acquisiva i modelli feudali, comprava terre dall’aristocrazia, quelle terre che lor signori avevano arraffato dal demanio pubblico. Si stava riorganizzando il vecchio teatrino che per secoli aveva inchiodato i contadini alla miseria più assoluta.

Nessuno voleva capire che il mondo stava cambiando e bisognava girare pagina per scrivere una nuova storia che contemplasse al posto di comando anche i contadini poveri. Per questo comunque si intuisce che servirà ancora un secolo di lotte dure per fare capire alla nuova classe dirigente che gli interessi della Calabria e del mezzogiorno venivano prima dei propri interessi. Certamente anche Mongiana ci fa capire che l’Unità d’Italia non ha risolto il problema meridionale ma congiunse due diverse formazioni economiche e sociali caratterizzate da un differente grado di sviluppo.

I ritardi non furono superati, ancora oggi sono li che aspettano soluzioni, mentre l’intreccio di allora tra liberismo e autoritarismo aggravò il problema mettendo in campo lo stato d’assedio e le leggi eccezionali non per combattere i delinquenti comuni, il mezzogiorno era pieno, ma per colpire le masse contadine povere che non ce la faceva più a pagare tasse e a essere sfruttate. Come si fa a considerare questi poveri contadini nullatenenti “briganti”? Una vergogna che la storia deve cancellare! Al Sud serviva più attenzione, non più tasse, leva obbligatoria che costringeva i contadini meridionali a lasciare le terre e combattere accanto all’odiato esercito piemontese. Il trasferimento dell’industria siderurgica di Mongiana era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Bisognava analizzare meglio, studiare a fondo i problemi meridionali e calabresi in quel lontano 1880 quando gran parte del patrimonio industriale del tempo era stato spazzato via mettendo sulla strada migliaia di famiglie povere.

C’è da aggiungere la voracità fiscale dei nuovi governanti, gli interessi commerciali delle nuove potenze industriali come l’Inghilterra che facevano da contorno. Il capitalismo liberale ha usato ragioni di mercato e libero scambio per nascondere le politiche di sfruttamento e di sottrazione di risorse al sud. È semplicistico indicare il mezzogiorno come “palla al piede” senza fare un’analisi accurata del territorio, senza capire che chi ha governato per secoli lo ha fatto solo per fini personali. Sia chiaro a tutti, anche ai polentoni responsabili dei ritardi del sud rispetto al Nord.

Lor signori hanno affossato una grande industria siderurgica in Calabria che dava lavoro a moltissimi calabresi. Mongiana è stata sacrificata sull’altare dell’Unità. L’annessione forzata al nord poteva essere una bella cosa, anzi lo è stato. Ma il sud in quel momento non poteva sopportare tutte quelle tasse. Dopo l’Unità si erano aggiunte altre 24 balzelli d’importazione piemontese compresa la tassa sul macinato. I poveri contadini non ce la facevano più a pagare. Un sud afflitto dunque non poteva reggere. Dal 50 per cento di tasse si era arrivati all’87 per cento. Una vera follia. Meglio “briganti” che morti di fame.

È stata una tragedia. Anche agli opifici mancarono i capitali e per la metalmeccanica fu un colpo mortale. Più tasse e poco commesse dal nascente Stato Unitario sono stati l’anticamera della chiusura degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Una Calabria che ha pagato un alto prezzo per entrare nella grande famiglia italiana. Mongiana è un esempio da non dimenticare. Nessuno ha mai parlato di questo dramma calabrese. Nessun ricercatore, giornalista, professore ecc. Si comincia a parlare solo dopo cento anni circa, nel 1973, quando parte l’indagine sulle ferriere di Mongiana.

L’obiettivo della ricerca era quello di scoprire le prime fasi dell’industrializzazione in Calabria. Disciplina nata in Inghilterra e nota come archeologia industriale. Studiare, capire, catalogare il patrimonio di fabbriche e attrezzature siderurgiche sparse sul territorio calabrese. Certo, il profitto ha cancellato in questi ultimi 250 anni il passato industriale calabrese senza riflettere e senza assegnare le colpe che non sono quelle di una generica Calabria fannullona e incapace di produrre e spendere i denari per lo sviluppo. Le ferriere di Mongiana sono una esaltante impresa industriale meridionale. Si affianca alle seterie di San Leucio, alla manifattura d’armi di Torre Annunziata, ai cantieri navali di Castellammare di Stabia, alle Officine Ferroviarie di Pietrarsa e altre realtà meno note. Possiamo qui dire senza essere contraddetti che il passaggio delle ferriere di Mongiana dall’Amministrazione borbonica a quella sabauda è stata una vera tragedia. Mongiana si spopola di tutte le molteplici attività legate alla ferriera sotto l’indifferenza totale della corona. 

Bisogna ricordare che la fatica degli operai era dura e i fattori ambientali pesavano su tecnici e maestranze che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Le categorie più numerose e meno qualificate protestavano ripetutamente per i bassi salari e le dure condizioni di lavoro. Comunque nel cuore dell’appennino i calabresi in tempi difficili facevano funzionare la più grande industria siderurgica del Regno legata alle materie prime locali. Eppure non si capisce perché il tempo poi e la mano dell’uomo hanno cancellato questa importante realtà. Certo questa ferriera ha procurato enormi danni ambientali, i boschi sparivano dentro gli altiforni.

Quando l’area boschiva mancava l’altoforno si spostava fino a mangiarsi tutta la foresta vicina. Comunque, i liberisti del tempo non erano contenti perché sostenevano che la ferriera non era efficiente al massimo, che i costi erano altissimi e i finanziamenti dello Stato si bruciavano con pochissimi risultati. In 15 anni di Unità il capitolo siderurgico calabrese ebbe fine, non reggeva al mercato era la motivazione. Invece, secondo me, la responsabilità era di una gestione incapace. La gente che prestava la propria opera coinvolta in un sistema politico chiuso, aveva comunque espresso, ottime capacità sul terreno del lavoro industriale. Altro che “palla al piede”. L’incapacità del governo della Corona non si poteva riversare sugli operai. 

Purtroppo si è giunti alla fine. Il 25 Giugno 1874 lo Stato Sabaudo, a Catanzaro, per mezzo dell’Amministrazione del demanio e delle tasse vendette lo stabilimento di Mongiana all’asta. 50 alloggi civici, una caserma, diversi altiforni e forni di seconda fusione, segherie, boschi, terreni e miniere nel territorio tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano di Reggio Calabria. All’asta acquistò un ex garibaldino, Achille Fazzari, già deputato al parlamento Regio d’Italia. Compra a un milione di lire.

Si aprì una speranza tra la popolazione del luogo che presto svanì. Il garibaldino non riuscì più ad avere commesse dalla Stato, il mezzogiorno era ormai segnato, abbandonato al suo destino, restava soltanto  la via dell’emigrazione, unica speranza per cercare lavoro. Così tristemente finì la grande storia dell’industria siderurgica in Calabria. Le considerazioni fateli voi. Bisogna riprendere il cammino lasciato allora. Ancora oggi la  “questione meridionale” è li davanti agli occhi di tutti, la classe politica è in testa alle responsabilità. Sappiamo tutti che in Calabria servono centomila posti di lavoro per fermare l’emorragia dell’emigrazione iniziata da allora e mai fermata da nessun governo.

Anzi, nel dopoguerra lo stesso De Gasperi capo del governo invitava i calabresi e i meridionali a studiare le lingue ed emigrare. Nessuno fino a oggi è stato in grado di programmare il domani. Mettiamoci tutti assieme noi calabresi, approfittiamo che sul palco manca la politica , saliamo noi e recitiamo a memoria quello che da secoli recitano i nostri avi: pane e lavoro per tutti a casa nostra. Non vogliamo più emigrare per arricchire altri popoli e fare morire i nostri borghi.

Questa volta siamo decisi. Ce la faremo tutti assieme. Serve una nuova classe dirigente però che guardi al nuovo Mediterraneo, che assuma la guida di questo obbligato motore di crescita che analizzi bene il passato con tutti gli errori fatti e pensi seriamente a rilanciare il domani della Calabria che con un occhio deve guardare all’Europa e l’altro al mediterraneo e l’Africa, il nostro futuro. (pab)

L’AUTONOMIA ESISTE GIÀ DA PIÙ DI 20 ANNI
AL NORD PIÙ SOLDI E AL SUD SOLO BRICIOLE

di GIACINTO NANCILa spesa sanitaria delle regioni ammonta a più del 70% di tutta la spesa pubblica regionale per cui le regioni che ricevono più fondi pro capite per questa spesa sono già differenziate “avvantaggiate” rispetto alle altre.

Da più di 20 anni le regioni del Nord ricevono molti più fondi rispetto a quelle del sud perché il criterio scelto dalla Conferenza Stato-Regioni in applicazione dell’art.1 comma 34 legge 23/12/1996 n. 662 è stata quella del calcolo della popolazione pesata. Questo criterio che da pochi fondi pro capite per la giovane età e molti più fondi per la popolazione anziana ha favorito le regioni del nord che hanno avuto e hanno una popolazione più anziana.

La Conferenza Stato-Regioni per ripartire i fondi sanitari alle regioni non ha mai tenuto in conto i criteri epidemiologici (cioè la numerosità delle malattie presenti nelle regioni) pur contenuti nella sopra citata legge. Ciò ha fatto sì che per più di 20 anni sono stati dati più fondi a quelle regioni che avevano sì più anziani ma in buona salute e meno fondi a quelle regioni che pur avendo meno anziani avevano più malati cronici e quindi necessità di maggiore spesa sanitaria. Di ciò tutti erano e sono al corrente, infatti basta leggere le dichiarazioni di insoddisfazione dei governatori delle regioni del Sud all’ascita della Conferenza Stato-Regioni ogni anno alla fine del riparto dei fondi sanitari e di contro quelle di soddisfazione dei governatori delle regioni del Nord.

Ma ancora più eloquente è ciò che avvenuto nel 2017 quando, per bocca dell’allora presidente della Conferenza Stato-Regioni Bonaccini, è stato annunciata una “parziale” (per come dichiarato dallo stesso Bonaccini) modifica dei criteri di riparto dei fondi sanitari non più solo sul calcolo della popolazione pesata ma bensì su quella della “deprivazione” in rispetto della legge 662.

Ebbene nel 2017 grazie a questa parziale modifica alle regioni del sud sono arrivati ben 408 milioni di euro in più rispetto al 2016, ovviamente la modifica fatta non è stata ne ampliata ne riproposta  negli anni successivi. Se la modifica invece di parziale fosse stata inter e in rispetto della legge 662 la cifra di 408 milioni di euro si dovrebbe moltiplicare per 4 e ogni anno da 20 anni a questa parte. Per rendere l’idea di quanto ampia è la ampia la differenza di numerosità delle malattie croniche presenti nelle varie regioni basta citare ad esempio il Dca n. 103 del lontano 30/09/2015 a firma dell’allora Commissario al piano di rientro sanitario calabrese ing. Scura e vidimato per come prevede il piano di rientro prima del ministero dell’Economia e poi da quello della Salute, nel quale Dca alla pag.33 dell’allegato n. 1 si legge: “Si sottolineano valori di prevalenza più elevati (almeno il 10%) rispetto al resto del paese per diverse patologie”.

E siccome il Dca è fornito di dettagliate tabelle è stato facile calcolare che nei circa due milioni di abitanti calabresi c’erano allora (e oggi ancor di più) ben 287.000 malati cronici in più rispetto ad altri due milioni circa di altri italiani. Nonostante ciò la Calabria è la regione che, da oltre 20 anni a questa parte, è la regione che in assoluto riceve meno fondi pro capite per la sua sanità. Le altre regioni del Sud sono, anche se con meno criticità, nella stessa situazione della Calabria sia per la maggiore presenza di patologie che per il fatto di essere le regioni che ricevono meno fondi per la loro sanità. Ciò è talmente vero che questa estate il governatore della Campania De Luca ha fatto un ricorso al Tar proprio per il fatto che ritiene ingiusti i metodi di riparto dei fondi sanitari alle regioni.

Ma ancora più significativo è il fatto che il governo ha promesso che per l’anno venturo saranno rivisti i metodi di riparto dei fondi e sarà applicato il criterio della deprivazione e non con quello demografico (popolazione pesata), e lo ha fatto ancor prima della pronuncia del TAR immaginando che il ricorso è giusto e il Tar lo accetterà sicuramente.

Le regioni del Sud, a questo punto, devono far sì che nella prossima Conferenza Stato-Regioni sia applicato il criterio epidemiologico, cioè più fondi alle regioni che hanno più abitanti con patologie croniche e non come è stato fino ad adesso: meno fondi alle regioni con più malati. (gc)

[Giacinto Nanci è medico dell’Associazione Medici di Famiglia a Catanzaro]

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: VERRÀ MENO
IL PRINCIPIO DI SOLIDARIETÀ NAZIONALE

di FILIPPO VELTRI –  Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica». Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale. Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento. Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei Lep senza che i Lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione. Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati Svimez, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la Svimez, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati Svimez, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).

Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono. (fv)

ISTRUZIONE, C’È UN PAESE MA DUE SCUOLE
SVIMEZ: VA RAFFORZATO IL SISTEMA AL SUD

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La Scuola, in Italia, viaggia a due velocità. Anzi, è il caso di dire che c’è un «Paese e due scuole», prendendo in prestito il titolo dell’incontro promosso dalla Svimez e L’Altra Napoli Onlus, a Napoli, in cui è emerso un divario allarmante tra le Scuole del Nord e del Sud.

Da una parte, c’è un bambino nel Nord che può beneficiare di formazione e servizi che, spesso, un bambino del Sud non ha. E questo per mancanza di infrastrutture e tempo pieno. Un gap sull’offerta formativa che desta preoccupazione. L’ultimo rapporto Svimez, infatti, ha rilevato come i servizi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente delle Amministrazioni locali.

Nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Anche la Calabria non scherza: solo il 24% degli alunni, su un totale di 80.893, frequenta il tempo pieno.

Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).

Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

«Questi divari nelle infrastrutture scolastiche – ha rilevato la Svimez – frenano anche la diffusione della pratica fisica e sportiva, con conseguenze negative per la salute, la spesa pubblica e lo stile di vita della popolazione, con particolare riferimento ai minori. Nel meridione quasi un minore su tre nella fascia tra i 6 e i 17 anni, infatti, è in sovrappeso, rispetto ad un ragazzo su cinque nel Centro Nord. Nel Centro Nord il 42% della popolazione adulta pratica sport regolarmente e il 26,8% saltuariamente. Nel Mezzogiorno invece le percentuali si invertono: la maggioranza pratica sport saltuariamente (33,2%) mentre la minoranza lo pratica abitualmente (27,2%). Il divario si riflette sulla percentuale di sedentari, con particolare riferimento per i minori: 15% nel Centro Nord e 22% nel Centro Sud. Ma ancor più allarmante è il dato sulle aspettative di vita: Nel Mezzogiorno sono inferiori di tre anni rispetto a quelle degli adulti centro-settentrionali».

Ma a cosa è dovuto tutto ciò? A un indebolimento delle politiche per la Scuola e la cristallizzazione del divario Nord-Sud, secondo la Svimez. L’Associazione, infati, ha analizzato la dinamica dell’intensità dell’intervento pubblico nell’istruzione – dalla scuola all’università – sulla base dei dati di spesa pubblica di fonte Conti Pubblici Territoriali. Dallo studio risulta un progressivo disinvestimento dalla filiera dell’istruzione che ha interessato soprattutto le regioni del Sud.

Tra il 2008 e il 2020, la spesa complessiva in termini reali si è ridotta del 19,5% al Sud, oltre 8 punti percentuali in più del Centro-Nord. Ancora più marcato il differenziale a svantaggio del Sud nel calo della spesa per investimenti, calati di quasi un terzo contro “solo” il 23% nel resto del Paese. In Calabria, dal 2008 al 2020 la spesa è scesa del -25,6%. È la più alta insieme alla Liguria (-20,3%), la Puglia (-20,2%) e la Sicilia (-21,9%).

Per l’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati risulta un differenziale di spesa pubblica pro capite nell’intero comparto Istruzione, comprensivo dell’istruzione terziaria, favorevole al Mezzogiorno di circa 90 euro, ma il dato non fornisce una fotografia reale dell’effettivo impegno pubblico per l’istruzione. Più significativo è il rapporto tra spesa e studenti, dal quale risulta uno scarto sfavorevole al Sud, dove la spesa per studente è di circa 100 euro annui inferiore rispetto al resto del Paese (5.080 euro per studente contro 5.185). Lo scarto aumenta se si considera il solo comparto della scuola, con una spesa per studente di 6.025 euro al Sud contro un valore di 6.395 nel Centro-Nord. Lo scarto è ancora più significativo se si guarda alla sola spesa per investimenti: 34,6 contro 51 euro per studente.

«L’indebolimento dell’azione pubblica nella filiera dell’istruzione – ha rilevato la Svimez – incrocia un trend demografico avverso, un fenomeno che causa la riduzione degli studenti. I due fattori rischiano di autoalimentarsi in un circolo vizioso nazionale, ma particolarmente intenso al Sud. La debolezza dell’offerta scolastica e, più in generale, la limitata qualità dei servizi pubblici alimenta il processo di denatalità e i flussi di migrazione giovanile che, a loro volta, comprimono il numero di alunni, con il conseguente adeguamento al ribasso dell’“offerta” di istruzione. Tra il 2015 e il 2020 il numero di studenti del Mezzogiorno (dalla materna alle superiori) si è ridotto di quasi 250.000 unità (-75.000 nel Centro-Nord)».

Cosa fare, allora? Una soluzione la propone il direttore della Svimez, Luca Bianchi: «occorre invertire il trend di spesa e rafforzare le finalità di coesione delle politiche pubbliche nazionali in tema di istruzione. Il Pnrr è l’occasione per colmare i divari infrastrutturali, tuttavia l’allocazione delle risorse deve essere resa più coerente con l’analisi dei fabbisogni di investimento, superando i vincoli di capacità ammnistrativa».

«La priorità, oggi – ha evidenziato – è rafforzare il sistema di istruzione soprattutto nelle aree più marginali, sia del Sud che del Nord. Garantendo asili nido, tempo pieno, palestre, rafforzando l’offerta formativa dove più alto è il rischio di abbandono. Il quadro che emerge dai dati, e che rischia di rafforzarsi ancor più se passano le proposte di ’autonomia, è quello di adattare l’intensità dell’azione pubblica alla ricchezza dei territori, con maggiori investimenti e stipendi nelle aree che se li possono permettere, pregiudicando proprio la funzione principale della scuola che è quella di “fare uguaglianza”».

«Si parla di ‘due scuole’ perché il sistema scolastico nel Sud, rispetto al resto d’Italia, è carente sotto il profilo delle strutture, della capacità di attrarre i giovani, perché ha maglie larghe e troppo spesso non riesce a contrastarne l’abbandono degli studi, ed ancora perché la scuola non riesce a trovare sbocchi, una volta terminati i percorsi, nel mercato del lavoro», ha spiegato Antonio Lucidi, presidente della onlus L’Altra Napoli.

«C’è la necessità – ha dichiarato Clementina Cordero di Montezemolo, presidente dell’associazione Yolk – di creare e ricreare un patto condiviso tra la scuola e le famiglie, motivo per cui la scuola dovrebbe assumere un ruolo fondamentale nell’educazione alla vita. L’idea di tenere aperte le scuole nel pomeriggio con una collaborazione pubblico – privato, non solo ha una valenza sociale perché rappresenta un alleggerimento per le famiglie ma anche individuale, di crescita per il singolo, di sviluppo del sé, soprattutto nelle ragazze e ragazzi delle scuole medie».

Uno squilibrio che rischia di accentuarsi con l’autonomia differenziata. Guido Leone, già dirigente tecnico della Usr Calabria, ha evidenziato come sia lecita la preoccupazione «che una deriva regionalistica del sistema di istruzione possa accentuare gli squilibri già oggi esistenti fra le diverse aree territoriali del Paese, con esiti ancor più penalizzanti per quelle economicamente e socialmente più in sofferenza come la Calabria nei suoi vari servizi alla persona».

Con l’autonomia, i soldi «di cui ogni amministrazione scolastica potrà disporre verrebbero determinati in rapporto al reddito pro capite della regione di appartenenza  a tutto vantaggio delle Regioni del Nord che godono mediamente di una ricchezza doppia rispetto alle regioni meridionali come doppio è mediamente il Pil, tra il Nord e il  Sud», «con l’istruzione regionale sarebbe negato l’esercizio del diritto allo studio in maniera uguale su tutto il territorio nazionale e si realizzerebbe un doppio regime fra quello nazionale e quello regionale».

Fatto ancora più grave, le scuole si «differenzierebbero sempre più radicalmente, il divario Sud-Nord non potrebbe che aumentare, la diffusione uniforme di scuole dell’infanzia e tempo pieno sarebbe definitivamente negata, il valore legale del titolo di studio sarebbe compromesso e le regioni potrebbero decidere autonomamente su programmi, strumenti e risorse».

«La nostra comunità – ha concluso Leone – non può tollerare che un diritto fondamentale come quello dell’istruzione possa essere esposto a forme di razzismo territoriale». (rrm)

L’OPINIONE / Filomena Greco: Un certificato digitale non azzererà la disuguaglianza dei territori

di FILOMENA GRECO – Ci fa piacere che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed il Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni riconoscano ai piccoli borghi, che rappresentano il 90% dei comuni italiani, un ruolo centrale nello sviluppo e nell’equilibrio dell’intero Paese. Allo stesso modo, non possiamo che accogliere con favore progetti come quello promosso da Poste Italiane che offre pari opportunità a tutti i cittadini, da nord a sud.

Certo è che non sarà un certificato digitale, servizio senza dubbio importantissimo, ad azzerare la sostanziale disuguaglianza dei territori nella fruizione dei servizi e dei diritti fondamentali, come il diritto alla salute, alla mobilità, alla giustizia. Questa parità di servizi che dovrebbe renderci tutti uguali, contrasta con quell’autonomia differenziata che non farà altro che acuire tutti i gap che fanno dell’Italia attuale uno Stato, di fatto, diviso.

Con Polis gli uffici postali diventeranno la Casa dei servizi digitali, sportello unico per l’accesso semplice e rapido ai servizi della Pubblica amministrazione.  Per una comunità come Cariati è questa un’opportunità importantissima che contribuisce ad azzerare le distanze imposte dalla burocrazia e della carenza di uffici preposti.

Ma non è sufficiente per lo sviluppo ordinato ed equilibrato dei territori, tantomeno di quelli che scontano deficit strutturali nelle condizioni di partenza. (fg)

[Filomena Greco è sindaco di Cariati]

“FARE” E NON “DEFINIRE” I LEP: SOLO COSÌ
SI PUÒ INIZIARE A PARLARE DI PARI DIRITTI

di PINO APRILE – Prima si fanno i Lep, i livelli essenziali (e uniformi) delle prestazioni (sanità, istruzione, trasporti…), e dopo l’Autonomia regionale (non differenziata). Ripeto: si fanno, non “si definiscono” i Lep o “si finanziano”.

Si fanno; ovvero: prima si mettono tutti gli italiani nella stessa condizione (stessi treni, stesse autostrade, stessi diritti all’istruzione, alla salute, al lavoro…) e poi si può pensare di porli in concorrenza nella gestione dei servizi da garantire ai cittadini “e vediamo chi è più bravo”. Chiaro, no? E semplice. Il contrario è barare, rubare, voler vincere facile: la sapete quella del campionato di pallanuoto nel lager nazista, “prigionieri contro alligatori”? È questo che hanno in mente i secessionisti arricchiti a spese di tutt’Italia e i razzisti.

E fingono di non capire: come grande concessione, il ministro leghista all’Apartheid (“alle Autonomie e alle Regioni”. Del Nord) offre alle tribù terroniche, che i Lep siano definiti in sei mesi (non ci sono riusciti il 22 anni, ora vogliono farci credere di sbrigarsela in 180 giorni), da una commissione furbescamente a maggioranza leghista (ovvero del partito retto da un condannato per razzismo); e, ove non ci si riuscisse (pare che si corra tale rischio!), si gira tutto a un commissario unico con il compito di far da solo quello di cui non è stata capace la “qualificata” commissione.
Tempo? Sei mesi, ferie e feste comprese; poi un decreto preparato da Calderoli e firmato da Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, trattata («Firma qua!») qual prestanome da falso condominiale, visto che il capo del governo può emettere decreti amministrativi, non leggi di rilievo costituzionale (non lo dico io, ma giuristi); quindi, un passaggio pro-forma in parlamento: zero diritto e possibilità di intervenire, solo votare sì o no a scatola chiusa, per approvare come gregge o cade il governo e si va tutti a casa! Fine della favoletta dell’estrema destra che raggiunge il potere e tenta di camuffarsi da partito conservatore, mostrandosi obbediente ai veri padroni del vapore, nazionali e no (tassare gli extra-profitti delle grandi compagnie dell’energia, come gridato da Giorgia Meloni pre-governo? No: bollette mostruose a famiglie e aziende, come prima; taglio di accise sui carburanti, come da Meloni e Salvini pre-governo? No: prezzi da strozzini alla pompa, come prima; eccetera).
E con questo, “definire i Lep”, il furbetto del Giambellino, Calderoli Roberto, pensa di liquidare la faccenda. Ma posto che davvero li definiscano (ripeto: in sei mesi, dopo 22 inutili anni), poi bisogna finanziarli: i servizi, dalla salute alla scuola eccetera, hanno un costo, vanno pagati. Con quali soldi? E qui Calderoli svicola, di fatto, nella sua bozza per l’Autonomia differenziata: in pratica, andrebbero finanziati, senza toccare il dippiù che da sempre le Regioni arricchite del Nord si prendono a spese del resto del Paese. Una presa in giro, perché soldi non ce ne sono: siamo in deficit.
E poni si riuscisse a ricavarne fra le pieghe di bilancio, si tratterebbe di qualche miliardo? Addirittura qualche decina? Sono tanti? Pochi? Sono nulla, visto che solo per i tre-quattro servizi essenziali più importanti (e in elenco ce ne sono 23, pur se non tutti con uso di Lep), di miliardi ne servono da 80 a 100, calcolò l’allora ministro incaricato Francesco Boccia. Quindi, ci vogliono fottere, ancora una volta, con il giochino delle tre carte padane.
Ma facciamo un salto nel mondo della fantasia e immaginiamo che davvero si disponga che i Lep vengano finanziati per come è necessario (dai cento miliardi in avanti, tutti insieme, al Sud, per i diritti sempre negati. Pozz’essere cecato chi nun ce crede). Potremmo sentirci finalmente garantiti e sarebbe soddisfatta la condizione “Prima il Lep”, poi l’Autonomia (non differenziata)?
I finanziamenti sono una certezza a Nord e volatili a Sud. Devo ricordare qualche esempio? Un governo Berlusconi stanziò 3,5 miliardi di euro per la realizzazione delle prime opere del Ponte sullo Stretto di Messina (ma a me piace chiamarlo, come suggerisce il professor Pasquale Amato: Stretto di Scilla e Cariddi); il governo cade, arriva Prodi, leva i 3,5 miliardi dal Ponte (lui è contrario) e li destina sempre a quell’area geografica, ma per strade dissestate e porti; il governo cade e torna Berlusconi: il ministro Tremonti toglie quei 3,5 miliardi da strade e porti di Sicilia e Calabria e li usa per abbuonare l’ici sulle case di lusso (una delle poche tasse sui ricchi).
E il miliardo per i ricercatori del Sud e le start-up (nuove aziende) da far sorgere sulle loro idee, stanziato dal governo Prodi? Con il governo Berlusconi lo stanziamento viene girato alle società di navigazione sul lago di Garda, per l’illuminazione del Veneto, l’industria delle armi bresciana, e altre urgenze nordiche. E i soldi per il Sud spesi per aiutare le aziende casearie emiliane, con l’acquisto di stato e di favore di centomila forme di parmigiano? E i 3,5 miliardi bloccati per il Sud, con legge, nel Fondo di Coesione? Il governo Renzi, per mano del ministro Graziano Delrio li sblocca cambiando la legge e li usa per incrementare l’occupazione al Nord, dove c’è il più basso tasso di disoccupazione, a danno del Sud, che ha il maggior indice europeo di senza lavoro. Devo continuare?
Quindi, “definire” i Lep non garantisce niente; “finanziarli” nemmeno; fare i Lep può garantire qualcosa, verificando cosa e quanto e come. Solo allora, a parità di diritti riconosciuti e ugualmente resi a tutti gli italiani e ai territori, di Autonomia (non differenziata) si potrebbe, forse, parlare. Questa è una cosa chiarissima, ma intorbidiscono le acque, per celare l’ovvio.
La determinazione e la spudoratezza con cui un partitino dell’8 per cento (in calo) lo fa, sono accentuate dall’imminenza delle elezioni regionali in Lombardia, dove il candidato della Lega è un ronzino zoppo: Attilio Fontana, il presidente della Regione che gestì peggio di tutti (non in Italia, al mondo, secondo il Los Angeles Time) la pandemia di covid-19, facendo riaprire gli ospedali infetti e liberamente andar via nel resto del Paese, dalle zone dei focolai, centinaia di migliaia di persone senza alcun controllo. In più, fallita la strategia della “Lega nazionale”, e mentre rischia la scissione guidata da Umberto Bossi, Salvini punta sull’Autonomia differenziata per rinverdire gli egoismi animali della Lega-Nord. Se perde le elezioni pure in Lombardia, non gli resta che cercare qualcosa che (come Bossi e altri) non ha mai conosciuto in vita sua: un lavoro.
Giorgia Meloni è ostaggio della disperazione leghista, del confuso attivismo del suo ministro all’Apartheid e delle balle senza ritegno dei sostenitori della Secessione dei ricchi, da Stefano Bonaccini, Pd, presidente dell’Emilia Romagna, a Luca Zaia, Lega, presidente del Veneto. Il primo continua a dire di non volere un euro in più di quanto già riceva la sua Regione e a sperare che la furbata passi non capita.
Il fatto è che proprio il criterio di suddivisione delle risorse nazionali seguito finora, la “spesa storica” (troppo, quasi tutto a poche regioni del Nord, e il nulla o poco più al Sud) è la causa dello squilibrio economico e geografico; ed è la “spesa storica” che i marpioni pigliatutto vogliono garantirsi con legge costituzionale: «Non chiediamo un euro in più», dice, senza vergogna, Bonaccini (Ma va’!); nella più recente delle interviste in ginocchio del Corriere della sera a Zaia, il presidente veneto, senza obiezioni da parte dell’intervistator cortese, spara castronerie galattiche, tipo: «Non ci sono regioni più ricche, perché hanno avuto di più» (no: quelle del Nord emersero dalle acque primordiali già con tutte le autostrade, le ferrovie, l’alta velocità, i Centri di ricerca, le pedemontane a costi da record mondiale a chilometro e non percorse da nessuno, le Olimpiadi invernali a costo zero e le Expo strafinanziate che chiudono in deficit…: mica roba pagata da tutti gli italiani; mentre le Ferrovie dello stato non sanno che esiste Matera, nei paesi del Sud non si arriva perché le strade sono franate, il Ponte sullo Stretto non si fa, perché c’è la mafia, che va bene, “imprenditoriale” solo al Nord…); oppure che l’Autonomia ci può «rendere un Paese bellissimo e con infinite risorse» (al Nord, ovvio, sottraendole agli altri), «moderno come il mondo ormai richiede».
Sì, Zaia, e sarà ogni giorno Natale, festa tutto l’anno, il leone e l’agnello giaceranno insieme (ma l’agnello non chiuderà occhio, se ricordate la battuta). L’altra carognata con cui vogliono rendere “logica” la pretesa dell’Autonomia differenziata è: noi (faccio un esempio semplificato) abbiamo scolari che finite le elementari, devono proseguire gli studi e serve costruire le scuole medie, perché non dovremmo avere (da tutti gli altri) i soldi per farle, solo perché al Sud sono analfabeti?
Il fatto è che le elementari, con i soldi di tutti, le hanno fatte solo al Nord e al Sud sono rimasti analfabeti; ora, quel vantaggio acquisito a danno dell’equità territoriale e della parità dei diritti, diviene un merito del ladro e una colpa del derubato, perché il primo continuerà a pretendere (vuoi fermare la locomotiva?) le scuole superiori, le università e il secondo sarà insultato per la sua ignoranza, mentre resta senza le elementari, perché non ci sono soldi per tutti e per tutto (ma quelli di tutti sempre agli stessi, sì). È così che al Nord progettano di farsi finanziare l’hyperloop (il treno monorotaia da 1.200 km all’ora), mentre al Sud son stati tagliati più di mille chilometri di ferrovia e città capoluogo di Provincia (non solo Matera) sono senza treni e per curarsi, studiare, lavorare, bisogna emigrare inseguendo i soldi rubati al Mezzogiorno.
Ma così quanto tempo ci vuole per metter tutti gli italiani a parità di diritti e condizioni? E che ne so: anni? Decenni? E a quando slitterebbe, così, l’Autonomia (non differenziata)? Non ne ho idea e me ne occupo: il mio problema è riuscire a diventare, dopo più di 160 anni, un cittadino italiano vero, non di serie inferiore.
Giorgia Meloni è finalmente (sogno della vita sua e dell’estrema destra) al governo del Paese, anzi, “della Nazione”; ma può restarci solo se non rompe con la Lega-Nord che la ricatta; e quindi deve assecondarla sull’Autonomia differenziata. Ma se passa quella porcheria, si rompe il Paese, anzi “la Nazione”, per eccesso di disuguaglianze (l’Italia è già il Paese più ingiusto del mondo) e perché il Sud, sempre più convinto che meglio soli che mal accompagnati, se non c’è parità di diritti e possibilità, comincia seriamente a considerare la secessione come l’unica via di uscita da uno stato coloniale. (pa)

INFANZIA IN CALABRIA: CRITICITÀ E DISAGI
PER DISUGUAGLIANZE SOCIO-ECONOMICHE

di PINO NANO – Bambini poveri di tutto, anche di salute. Le bambine, i bambini colpiti dalle disuguaglianze socioeconomiche, educative e territoriali, ne subiscono l’impatto anche sulla salute e sul benessere psico-fisico, e la Calabria in questo confronto con le altre regioni italiane rimane purtroppo fanalino di coda.

Sapevamo già di essere un popolo povero, conoscevamo già da tempo la realtà delle nostre risorse economiche, che non è quella opulenta delle regioni del Nord per esempio, ma dai dati ufficiali dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, presentato da Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro- da questi dati viene fuori che anche in tema di politica dell’infanzia i calabresi sono ancora lontani dagli standard europei. 

Insomma, siamo ancora ultimi.

Antonio Marziale, Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria non usa mezzi termini nel commentare questi dati: «Reputo inquietante l’allarme lanciato da Save the Children. Su tutti i fronti, dalle aspettative di vita in buona salute ai servizi di assistenza più elementari, il divario tra i nostri bambini e quelli del nord è pazzesco, al limite dell’incredibile». 

Marziale è un fiume in piena: «I dati del report segnano per il Sud, ma ancora più marcatamente per la Calabria, una situazione drammatica, oggettivamente riscontrabile su ogni fronte e che obbliga le istituzioni politiche ad ogni livello a rispondere, perché il rischio è quello di una popolazione sempre più anziana e incapace di progettare il futuro. Di questo passo – aggiunge il sociologo – c’è il rischio di una desertificazione del territorio che non è fantascientifica, perché chiunque abbia figli piccoli non può tendere che ad una dolorosa via di fuga da una prospettiva così disastrosa».

L’Atlante di Save the Children prova ad esplorare la salute dei bambini dal momento della nascita fino all’età adulta. Dati, mappe e interviste fotografano l’intreccio tra disuguaglianze e salute che la pandemia ha amplificato, e i tanti, troppi volti diversi di un servizio sanitario che spesso è “nazionale” solo sulla carta, per le gravi disuguaglianze territoriali e la distanza che intercorre tra le sue punte di eccellenza e i suoi baratri.

“Come stai?”, è la domanda che molti ragazzi e ragazze avrebbero voluto sentirsi rivolgere durante la pandemia e che ancora oggi non viene loro rivolta dagli adulti. 

«Abbiamo voluto dedicare l’Atlante del 2022 alla salute – spiega Claudio Tesauro, Presidente di Save the Children Italia – perché è necessario assicurare a tutti i bambini e gli adolescenti una rete di servizi di prevenzione e cura all’altezza delle necessità, superando le gravi disuguaglianze territoriali che oggi incidono sul sistema. 

«Nel panorama mondiale, il nostro servizio sanitario nazionale si posiziona come una eccellenza per la cura dei bambini, ma questo non deve spingerci ad ignorare i divari e le criticità che la pandemia ha contribuito ad accentuare».

Sembra quasi incredibile, ma in Italia quasi un milione e quattrocentomila bambini vivono in povertà assoluta – il 14,2% di tutti i minori – e i divari economici pesano direttamente sull’aspettativa di vita.

Guardiamo insieme questo dato, che è a dir poco vergognoso: un bambino che nasce a Caltanissetta ha 3,7 anni in meno di aspettativa di vita rispetto a chi è nato a Firenze e per i bambini del 2021 la speranza di vita in buona salute segna un divario di oltre 12 anni tra la Calabria con 54,4 anni e la provincia di Bolzano con 67,2 anni. E tra le bambine la forbice è ancora più ampia, 15 anni in meno in Calabria rispetto al Trentino.

Ma c’è di più in questi dati. L’81,9% dei bambini vive in zone inquinate dalle polveri sottili. Il 35,2% dei bambini e il 33,7 % delle bambine nella fascia 3-10 è in sovrappeso o obeso. Un bambino su 4 non pratica sport. 

Al tempo stesso la povertà alimentare colpisce un bambino su 20 ma la mensa scolastica non è ancora un servizio essenziale gratuito per tutti i bambini dai 3 e i 10 anni. 

Per Save The Children la rete sanitaria territoriale è insufficiente, mancano 1.400 pediatri ed è crollato il numero dei consultori familiari. Gli effetti peggiorativi della pandemia sono evidenti anche nel crescente disagio mentale di preadolescenti e adolescenti. In 9 regioni italiane i ricoveri per patologia neuropsichiatrica infantile sono cresciuti del 39,5% tra il 2019 e il 2021. E noi, come calabresi, siamo interessati a questo problema più di altre regioni italiane.

«Dinanzi all’allarme lanciato da ‘Save the Children’ e alla sottolineatura del divario Nord-Sud circa le opportunità socioeconomiche ed educative – riconosce il presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso – le aspettative di vita in buona salute e i servizi di assistenza più elementari per i bambini e gli adolescenti, occorre che le Istituzioni reagiscano all’unisono, per fermare un fenomeno che rende vulnerabili i minori».

Pensate che prima della pandemia, secondo gli ultimi resi noti dati di Save the Children, il tasso di mortalità infantile entro il primo anno di vita era di 1,45 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana, ma era più che doppio in Sicilia (3,34), e addirittura triplo in Calabria (4,42), con ben il 38% dei casi di decesso relativi a bambini con mamme di origine straniera. 

Quasi scandaloso, per una società civile e moderna come la nostra. 

Ma è ancora più vergognoso il dato successivo, che ci spiega per esempio come un bambino del Mezzogiorno che si ammalava nel 2019 aveva una probabilità di dover migrare in altre regioni per curarsi del 70% in più rispetto a un bambino del Centro o del Nord Italia. 

Pensate a quanti bambini calabresi, e soprattutto a quante famiglie calabresi ogni giorno lottano con i centralini e i CUP dei grandi ospedali pediatrici italiani, penso al Bambin Gesù, per esempio, che è un faro della assistenza pediatrica italiana, o allo stesso Gaslini di Genova, per prenotare una visita specialistica utile alle loro angosce. Pensate alle attese disperate e drammatiche di queste nostre mamme e di questi nostri padri.

«Assumendo l’incarico di Garante dei minori calabresi per il mio secondo mandato – ci spiega il sociologo Antonio Marziale – ero ben cosciente dei problemi con i quali avrei dovuto fare i conti dopo due anni e mezzo di vacatio di questa figura istituzionale, perché in Calabria la legge istitutiva del Garante dell’Infanzia non prevede alcuna proroga fino all’ingresso di un nuovo Garante, ma sinceramente la situazione è ancor più preoccupante di quanto avessi immaginato. In Calabria viene registrata una povertà globale sempre più acuta, e decenni di politiche che ci fanno ereditare macerie e inadempienze. Una su tutte – denuncia Marziale – la mancanza di un reparto pubblico di neuropsichiatria infantile nella regione a più elevato indice di disagio psicosociale. Fido oggi moltissimo nella volontà del governo e del consiglio regionale di rispondere concretamente, sia pur tra molteplici difficoltà, a questo stato di cose, perché la posta in gioco è altissima e quando riguarda i bambini non può prescindere dall’apporto costruttivo di tutti indistintamente, maggioranza ed opposizione per dirla in gergo politico». 

Il messaggio è chiaro, e vorrei che questo concetto non apparisse come formale o peggio ancora come retorico, quindi superficiale e inutile, ma o si affronta il problema in maniera diretta e concreta, e soprattutto subito, o per i bambini calabresi il futuro sarà ancora più triste e più tragico di quanto ci abbia raccontato il gotha di Save the Children. 

Qui non è più gioco la credibilità di una classe politica, o di una classe dirigente, ma qui è in gioco la salute dei nostri bambini, e non tutti possono permettersi di portare il proprio bambino fuori regione per una visita che si potrebbe tranquillamente fare anche a casa propria. 

Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto ha appena avuto un bimbo, e credo che nessuno meglio di lui oggi possa capire meglio di cosa parliamo, e nessuno meglio di lui possa raccogliere meglio l’appello forte che ci viene da  Save the Children.

Non lasciamo soli i nostri bambini. 

 

È CAMBIATA LA MUSICA: IL MEZZOGIORNO
NON È PIÙ PASSIVO E VUOLE I SUOI DIRITTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl Mezzogiorno corpo morto che non reagisce più a nessun stimolo? Forse in passato era così. Oggi sta diventando una realtà che prende consapevolezza dei suoi diritti e, si spera, anche dei suoi doveri.

Per questo è necessario che il Governo nazionale stia molto attento rispetto ai provvedimenti che, mal consigliato dalla Lega, ha intenzione di prendere, in particolare rispetto al reddito di cittadinanza e anche all’autonomia differenziata. Certo, rispetto al grande, pericoloso e competente attivismo del ministro Calderoli, le reazioni più naturali sarebbero state quelle di una levata di scudi generalizzata, progressivamente, fino ad un blocco totale di tutte le attività.

Se si vuole istituzionalizzare  il principio che i diritti di cittadinanza sono diversi, come già oggi avviene, tra le diverse parti del Paese, e cioè che esistono cittadini e coloni, individui di serie A e di serie B, persone che hanno diritto ad una scuola con il tempo pieno, agli asili nido, ad una mobilità di buon livello su treni e auto, a vivere più a lungo in media, ad una sanità più efficace ed efficiente, a un lavoro ed altri che invece, solo perché sono nati sotto il Garigliano, hanno meno diritti, allora qualunque tipo di reazione potrebbe essere consentita. 

Visto peraltro che in termini di tassazione, come prevede la nostra Costituzione, tutti i cittadini, in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, partecipano alla tenuta del sistema fiscale nazionale.

Il Quotidiano del Sud, ed Il nostro Direttore in prima fila, hanno fatto un’operazione verità importante per far capire che in realtà se ci fosse una spesa pro-capite uguale il Mezzogiorno avrebbe diritto a 60 miliardi di ristoro annui. E che l’autonomia avrebbe cristallizzato tale situazione. E da mesi porta avanti la sua battaglia ritornando sull’argomento con i suoi prestigiosi opinionisti.

 Ora arrivano le reazioni sia da parte dell’intellighenzia colta meridionale e dell’Accademia, che da parte della politica.

Massimo Villone, PRofessore emerito di diritto costituzionale dell’Università degli studi “Federico Secondo”, rappresentante del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, è passato all’attacco, insieme ai sindacati Nazionali della scuola Cgil, Cisl, Uil, Snals, e Gilda, presentando una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che dice “no“ all’autonomia differenziata. 

 «La nostra proposta punta a riscrivere parte degli articoli 116 e 117 della Costituzione, almeno in quei commi che aprono a chi mina l’unità del Paese – spiega Villone –. Vogliamo tagliare gli artigli a chi lavora non per ridurre le disuguaglianze, ma per accrescerle».  

 «Con le modifiche proposte all’articolo 116 vogliamo scongiurare una frantumazione non reversibile del Paese. Un rischio gravissimo che è ciò che auspica Calderoli». 

«Le modifiche proposte limitano l’autonomia delle Regioni – continua Villone – introducono una clausola di supremazia della legge statale, affidano allo Stato la potestà legislativa su alcune materie cruciali come scuola, lavoro, coordinamento della finanza pubblica, reti di trasporto e comunicazione».

E si è già aperta una sottoscrizione che parte con 120 firme di costituzionalisti intellettuali e rappresentanti della società civile. Mentre da Bari Gianfranco Viesti continua a ad affermare che quella che si sta consumando è la secessione dei ricchi.

Ma anche tra i giornalisti Marco Esposito si spende con interventi mirati che dimostrano come l’affermazione che con l’autonomia il Nord non acquisisce più risorse sia falsa, dimostrando con una simulazione quello che accadrebbe nella scuola.

Pino Aprile, che ha dato indicazioni nel voto del 25 settembre di annullare la scheda votando no all’autonomia differenziata, adesso mira a consapevolizzare il pubblico ampio sui pericoli che il Mezzogiorno corre. L’Associazione Istituti Meridionalisti con il suo segretario Francesco Saverio Coppola rafforza il gruppo.  

Esempi di intellettuali del Sud, che non esitano a prendere posizioni estreme. il Partito Unico del Nord continua a dettare legge ad un Sud che, però, inizia ad avere consapevolezza di sé stesso. Per quanto attiene invece alle posizioni della politica la destra l’aveva nel suo programma elettorale, il terzo polo non ha preso posizione, ma la presenza della Gelmini al suo interno, che si era dichiarata favorevole da ministro per gli affari regionali, non fa ben sperare, I Cinque Stelle si sono pronunciati contro ed il Pd ha una posizione molto sbilanciata a favore

Infatti al di la delle affermazioni note di Stefano Bonaccini, quello che afferma Piero Fassino, certo non l’ultimo arrivato nel Pd è illuminante: «Due terzi del prelievo fiscale del nostro Paese sono attinti dai redditi del Nord. Due terzi o forse più delle partite Iva sono concentrati nel Nord. Nel Nord c’è una presenza di cittadini stranieri che è pari al 20 per cento a fronte della media nazionale del 7-8. Dalle regioni del Nord e da Emilia, Toscana e Marche parte l’80 per cento delle esportazioni italiane», dice Fassino in una intervista. Sottintendendo che è giusto che ognuno si tenga le risorse che produce. 

La risposta di Adriano Giannola, presidente di Svimez, che afferma «tutto ciò è un siluro alla Costituzione sin dal 2001 ed è fuori dalla legge del 2009 che è stata elaborata e firmata dall’attuale ministro Calderoli. Questa si chiama eversione», la dice lunga sul livello dello scontro. 

Il Sud fa sistema e capisce che l’argomento di un eguale interesse del Nord e del Sud per l’autonomia differenziata è una presa in giro. Non basterà Calderoli a vendere questo “pacco” al Sud. Vedremo quale sarà la posizione ufficiale del PD, soprattutto nel caso che Bonaccini diventi segretario. 

Intanto dice Villone «ne approfitti Fassino per studiare. Siamo ragionevolmente certi che anche i piemontesi, volendo, possono imparare».

Il sindaco di Napoli Manfredi, il Governatore della Campania De Luca, quello della Puglia Emiliano, in dissonanza con il partito di appartenenza, prendono posizione contro, facendo ben sperare su una mobilitazione più ampia.  Assente la Regione Siciliana e la Calabria sia perché i due presidenti sono del centro destra, che probabilmente, per la Sicilia, l’illusione che avendo una sua autonomia pensa, sbagliando, che le autonomie rafforzate delle Regioni del Nord non la riguardino. Il corpo provato di un Mezzogiorno esanime prova a reagire ad un attacco che lo vuole emarginare ulteriormente.  (pmb)

[Courtesy Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

BENVENUTI AL SUD, L’ELDORADO IGNORATO
MA CHE FA GOLA AI POLITICI QUANDO SERVE

di ORLANDINO GRECO – Sta per terminare l’ennesima “discesa al Sud” dei cosiddetti leader nazionali dei partiti politici. Siamo nelle battute conclusive di una campagna elettorale che mai come stavolta non ha suscitato l’entusiasmo e la speranza dei calabresi a causa non solo di una legge elettorale che sempre più mantiene distanti i cittadini dai propri rappresentanti ma anche di candidature blindate frutto solo del compromesso e tra dei desiderata delle segreterie romane.

Benvenuti al Sud! Terra di storia e cultura già utilizzata dagli alleati per lo sbarco in Sicilia ma incoronata dai giornali padani come terra di mafia, la più potente organizzazione criminale. Un alibi, vista la diffusa illegalità presente in tutto lo Stivale, per non investire al Sud, non fare infrastrutture e sottrarre risorse.

Benvenuti al Sud! Vi siete inventati il Nord come “locomotiva” dell’economia nazionale per mettere il Sud agli ultimi vagoni con l’assistenzialismo clientelare, generatore di quel serbatoio di voti ricattabili che fanno la gioia e il risultato di classi politiche diversamente ineleggibili.

Benvenuti al Sud! Dove i treni viaggiano in una sola direzione, verso il Nord, portando via migliaia di giovani ogni anno. Siamo le regioni del reddito di cittadinanza per eccellenza, geniale intuizione per un consenso permanente, punto di orgoglio del partito del “vaffa”, il quale ha dimostrato che, pur essendo maggioranza relativa in parlamento, non si può governare se sono l’inadeguatezza e l’approssimazione a connotare il nuovo che avanza.

Benvenuti al Sud! Nelle regioni della Spesa Storica, espediente politicamente scorretto, complici i governi nazionali di ogni colore politico, per sottrarre al Sud risorse destinate ad asili nido, trasporti, fasce deboli e welfare. Ideato da menti raffinate e ciniche per sottrarre scientificamente risorse al Sud e tenerlo in una condizione di bisogno e, quindi, di subalternità. La stessa subalternità dell’assordante silenzio che ha caratterizzato sul tema la nostra deputazione, spesso prone ai diktat romani al fine di assicurarsi un posto al sole nelle prossime elezioni politiche.

Benvenuti al Sud! Dove ad accogliervi per come meritereste non possono esserci i nostri giovani in quanto sono, diplomati e laureati, gli emigrati di oggi, costretti ad inseguire altrove i propri sogni. Costretti ad osservare malinconicamente da lontano le regioni del Sud invecchiare e spopolare, essendo quelle con l’età media più avanzata ed un tasso di natalità sempre più basso nel Paese

Benvenuti al Sud! Dove la Calabria è  la regione del disastro sanitario per eccellenza. I vostri governi e i vostri ministri ci hanno rifilato commissari pagati a peso d’oro ma dimostratisi incapaci di gestire un sistema corporativo privo di colpevoli ma pieno di vittime: la malasanità. Versiamo ogni anno agli ospedali del Nord una cifra fra i 250 e i 300 milioni di euro, una “pacchia” come si dice in questi giorni di campagna elettorale, nel mentre gli ospedali del Sud vengono tenuti in condizioni da quarto mondo, ridotti a serbatoi elettorali e nei quali nessun medico di valore vuol venire ad operare.

Benvenuti al Sud! Venite pure a promettere il Ponte sullo Stretto e l’alta velocità ma attenzione, perché siamo poveri ma non imbelli. Torna alla ribalta politica, da Pontida, la manfrina dell’autonomia differenziata, cioè un altro espediente scorretto per negare risorse al Sud forzando la Costituzione ed il pensiero di Luigi Einaudi. Non solo.

Emergono inquietanti elementi di una scuola di pensiero secondo la quale i miliardi del Pnrr destinati alle regioni meridionali sarebbero sprecati perché i sindaci del Sud non sono capaci di progettare e aprire i cantieri. Se, invece, i miliardi vengono dirottati al Nord, si aiutano le imprese della “locomotiva d’Italia” a fronteggiare la crisi energetica e l’impatto sui costi di produzione.

Benvenuti al Sud! Questa volta, però, ci sono sindaci pronti a fare le barricate e noi con loro. Vogliamo un’Italia unita, da nord a sud, nella solidarietà e nel benessere: lavoro, istruzione, sanità, trasporti. Al Sud come al Nord. Qualche passo avanti c’è stato. Non si saltella più cantilenando: “Senti che puzza… scappano anche i cani… stanno arrivando i napoletani”. L’Italia di mezzo, divertita, rideva. Ora vengono a chiedere i voti meridionali necessari per poter governare.

Benvenuti al Sud! Godetevi questo scampolo di fine estate: il nostro mare, il “nostro” sole, i borghi, i parchi, le testimonianze della nostra storia, tutto ciò, insomma, che non avete potuto prenderci e portare al Nord. Con l’occasione visitate il Porto di Gioia Tauro, il più importante del Mediterraneo, che avete discriminato per privilegiare i porti del Nord. In termini di cultura di governo e di interesse nazionale si può essere più miopi?! Avremmo dovuto avere il rigassificatore già da anni ed oggi si litiga per Piombino.

Benvenuti al Sud! Abbiamo la certezza che, alla fine, riusciremo a fare ciò che non è riuscito a Garibaldi e Cavour e non per colpa loro: un’Italia unita, giusta, uguale da Nord a Sud, con gli stessi diritti e gli stessi doveri in una Europa che col Recovery Plan vuole finalmente mettere fine alle diseguaglianze che avete creato e alimentato per decenni, impunemente.

Alla fine, nonostante i dubbi e le ipocrisie, andremo a votare perché il voto è un diritto che va esercitato e per noi è anche un dovere costituzionale. D’altronde il Sud è anche questo, è legalità accompagnata da un alto senso delle istituzioni ma su questi temi vi è ormai una consapevolezza diffusa per la quale le sorti del Mezzogiorno sono strettamente correlate alla ripartenza del Paese.

La politica, tutta, non potrà far finta a lungo di non saperlo ma noi saremo sempre pronti a ribadirlo, nell’interesse generale.

Benvenuti al Sud! (og)

(Orlandino Greco è segretario federale del Movimento Italia del Meridione)

Iemma (PD): Risorse Pnrr ultima occasione per la Calabria di recuperare il divario col Nord

La candidata del Partito DemocraticoGiusy Iemma, ha evidenziato come «le risorse del Pnrr rappresentano per il Sud e per la Calabria probabilmente l’ultima occasione per recuperare il divario con il Nord del Paese e dell’Europa e offrire una concreta possibilità di sviluppo alla Regione e ai suoi giovani».

«La destra, in Italia e in Europa, non ha mai votato a favore del Pnrr – ha aggiunto – non possiamo che essere preoccupati della possibilità che si possa interrompere il sentiero virtuoso della ripresa. Questo significherebbe rubare il futuro all’Italia, soprattutto alle giovani generazioni, aumentare il divario nelle tante diseguaglianze. Non possiamo permetterci errori: per questo devono essere coinvolte tutte le istituzioni proposte, dagli Enti locali alle Università».

«Per tale motivo occorre una programmazione seria, condivisa e in grado di avere concrete ricadute sul territorio – ha proseguito Iemma –. Non dobbiamo ripetere gli errori compiuti con l’utilizzo della spesa dei fondi comunitari. La Carta di Taranto-Manifesto per il Sud e per le isole, presentata dal segretario nazionale del Pd, Enrico Letta, a Taranto nei giorni ci ricorda chiaramente che il Pnrr  “è la più grande occasione di ricostruzione, speranza e modernizzazione del Paese dalla fine della seconda guerra mondiale».

«La realizzazione del Pnrr sarà un passaggio fondamentale per il futuro del nostro paese. E quanto parliamo di sviluppo – ha spiegato ancora – parliamo anche di benessere. Della creazione di condizioni e miglioramento della qualità della vita, di opportunità di lavoro che trattengono i nostri giovani invece, frenando la dolorosa migrazione che ha segnato gli ultimi decenni».
«Puntare sulla creazione di “ambienti” di vita che permettano di coniugare la produttività con il benessere, con la vita a misura d’uomo sfruttando le tecnologie, l’innovazione, proprio come la pandemia ci ha insegnato, e come ci suggerisce il Pnrr con la misura relativa a Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo. Da qui l’obiettivo di investire sui centri storici, non solo dei borghi che costituiscono l’ossatura dell’entroterra calabrese, ma anche delle città, come Catanzaro.  Il centro storico di una città è la testimonianza artistica e ambientale delle formazione più antica del territorio comunale ancora esistente».

«Un luogo prezioso non solo per i turisti, ma soprattutto per i suoi abitanti – ha concluso Iemma –. Le nostre città e i nostri borghi hanno le potenzialità di trasformare la riqualificazione dei centri storici, anche grazie ai fondi del Pnrr, in occasioni da sfruttare per recuperare, salvaguardare e tutelare i nuclei storici, elementi fondamentali, non solo per la conservazione, ma anche per la valorizzazione dell’intero patrimonio culturale, sociale ed economico del nostro territorio». (rrm)