di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Raggiugo San Luca in auto. Attraversate le prime case, arrivo davanti al palazzo comunale. In cima all’edificio sventolano le bandiere dell’Italia e dell’Europa. Ve ne fosse stata una per il Mediterraneo, sono certa l’avrei trovata lì a fluttuare insieme alle altre.
Il sole perfora le pietre. La prima quindicina di Luglio fa sudare sempre le camicie. La Calabria non si smentisce. La calura della montagna supera l’afa del mare. San Luca si presenta così, cotta e cocente. Accatastata nuda sotto il cielo. Con la temperatura altissima del ventre gravido delle madri in travaglio, e quella della pancia piena dell’Aspromonte. Con la felce e il leccio, il pino nero e il faggio.
Avevo atteso questo giorno da sempre. E nell’attesa che contempla il viaggio, sempre lo avevo elaborato nella mia mente e nel mio cuore con carichi suggestivi e intimi di immaginazione ed emozionale creatività, su ciò che vi avrei trovato. Su chi vi avrei incontrato. Sui fatti che avrei ascoltato e ogni cosa che mi avrebbe sorpreso. E lo avevo fatto percorrendo a occhi chiusi le vie più strette e più piccole, sentendo venir da lontano le voci delle donne che erano quasi tutte madri, e soprattutto illustrando a me stessa, come fosse un’anteprima fotografico, le gradinate che mi avrebbero condotta laddove sulla cartina geografica che accompagnava il mio viaggio, era stato posto un cerchio rosso per indicarvi la meta.
La casa comunale di San Luca era stata ripopolata dai suoi uomini dopo anni di perforante vuoto, e altrettanti in cui i sanluchesi si erano lasciati trascinate nell’oblio, dalla gratuità del pregiudizio del resto del mondo, che di questa gente era stato in grado di annientare sogni e speranze. Da San Luca tanti erano partiti, e l’assenza ancora pesava, e le porte chiuse a tratti impedivano addirittura di respirare, ma altrettanti avevano deciso di restare.
Perché non c’è terra più abbondante di quella del paese, che se tanto la scarti in Patria te la ritrovi altrove. Ed erano anziani ed erano bambini. E io vi ho trovati gli uni e gli altri. Gli uni con l’umanità nello sguardo, gli altri con sorrisi eccitati verso un futuro a cui nessuno intende più rinunciare.
A ricevermi il sindaco Bartolo.
Un uomo alto appena un palmo e mezzo della mano, con la geografia del suo paese scolpita sopra il suo volto. Una mappa di rughe aggrovigliate e di solchi, pari a quelli che il tempo aveva disegnato sopra il viso bruno di Corrado Alvaro. Segni di devozione e di fede a quella civiltà contadina a cui San Luca, attraversandola, sentivo non aveva mai rinunciato.
Il rispetto che avverto nei miei confronti, non è un prodotto tipico dei luoghi, ma un sentimento che gli uomini e le donne del paese nutrono verso la vita. Mi sento a casa. Accolta come quando torno da mia madre. San Luca è la casa del Mediterraneo e dell’ Europa. Una finestra sempre aperta sopra il mondo.
La tempra dei suoi uomini non mi sorprende. È la stessa della mia terra. Di quella Calabria che non frammenta i luoghi, ma li appunta tutti, come accade con le medaglie al valore sopra il petto degli uomini, su quella tela che da secoli fila anch’ella come la bella Penelope.
San Luca è una nuova Itaca. Il mio viaggio non è un semplice viaggio di andata verso il paese, ma una sorta di necessario ritorno a casa.
Dopo l’accoglienza istituzionale, lascio la casa comunale. La vera San Luca non è lì che dimora. Bisogna raggiungere il cuore del paese. È qui che batte il muscolo vitale della mia terra.
San Luca è stretta, intima e silenziosa. Non pronuncia verbo. Osserva, ma soprattutto ascolta. Mi segue, anzi maternamente mi accompagna.
Raggiungo la chiesa. Il centro del paese è tutto qui. Qui è cominciato tutto. Mi ero documentata. Il 18 ottobre del 1592, un evento alluvionale catastrofico aveva colpito Potamìa, e le 57 famiglie superstiti avevano raggiunto questo lembo di terra, posto al centro tra la fiumara Bonamico e la Santa Venere, e proprio nel giorno in cui la chiesa venerava il suo terzo evangelista, San Luca.
Una piccola piazzuola governa lo spazio esterno della chiesa. I mie occhi però cadono a destra dell’edificio sacro. Vi scorgo una casa alta quanto una torre. E a sinistra dei balconi, un’epigrafe marmorea: “Qui nacque Corrado Alvaro”.
Lascio andare avanti il sindaco e tutti quelli che sono con me. “Arrivo subito”, dico. Invece mi attardo sulle scale antistanti la casa. Ho bisogno di stare un attimo da sola. Concedermi proprio qui, in questo momento, l’intimità di uno spazio. L’emozione è forte. Il sentimento che provo, un misto perfetto di orgoglio e senso altissimo dell’onore.
Corrado Alvaro è la Calabria che ho dentro di me da sempre. Mi sento come le sue spose: una gentile colomba.
Il nome di Alvaro mi appare come un segno distintivo identitario che non è solo di San Luca, ma di tutta la Calabria. Perchè se la Calabria ha un cuore questo batte a San Luca. Un nido appoggiato sulla schiena della montagna, dove l’Aspromonte è un sentimento narrato dalle storie degli uomini.
Dove abitano ancora il passato, il presente e il futuro della Calabria. E dove ancora restano gelosamente custodite le verità di una terra amabile della quale Corrado Alvaro fece delle buone lenti per guardare il mondo.
Se solo la Calabria riconoscesse in questo nido aspromontano, il dolore e la passione dell’uomo ramingo del meridione, ecco che sì, si potrebbe parlare di rivoluzione.
A San Luca si devono la vita e la morte della Calabria. Eppure si dimentica spesso che il cielo sopra questa montagna è lo stesso cielo è trapunto di stelle altrove. E che la vita qui non è un alibi ma un destino.
Se il figlio del maestro Antonio, per esempio, non fosse nato al paese, non sarebbe divenuto un uomo d’Europa. E il Mediterraneo non avrebbe conosciuto mai il suo paese. Certo non è mai stata bella la vita dei pastori in Aspromonte, ma vi sono stati e vi sono ancora, anche qui, padri come quello di Alvaro, a cui Iddio oltre che l’intelligenza ha donato l’ingegno e il dono del discernimento. E all’arresa, a cui il disagio sociale spesso condanna, non si sono mai piegati. Alvaro nasce dalla rivoluzione del padre. In un mutamento a cui Antonio punta per i suoi figli ma anche per il resto del paese. La montagna doveva poter dare speranza, aprire varchi, e non chiudere sentieri o seppellire i resti dei suoi corpi nei greti dei fiumi.
Mio padre, sosteneva Alvaro, fu a ogni modo l’uomo che diede l’avvio, nel mio paese, alla fuga per mutare condizione. […] Il paese era abituato all’emigrazione. […] Ma un’emigrazione intellettuale nessuno l’aveva mai pensata.
E fu lui la prima intelligenza a prendere un treno di lungo viaggio. Dalla periferia fitta della sua San Luca, allo spazio indefinito della città di Frascati. In un collegio di Gesuiti, la cui dottrina impartitagli contribuisce parimenti allo studio sui libri, alla formazione dell’uomo e dello scrittore. Dell’uomo Europeo e dello scrittore Mediterraneo. Luoghi sulle cui sponde viaggerà in maniera indefinita la vicenda letteraria dello scrittore di San Luca.
Alvaro lascia San Luca “per sempre” a soli dieci anni. Ritornerà per la morte del padre nel 1941. Dopo, mai più. Durante le sue visite al fratello prete e alla madre anziana, preferisce osservare il paese al di qua della Bonamico. Ed è proprio a Saverio Strati, all’epoca ancora giovane studente universitario, che Alvaro si confessa su questa difficile scelta, in un incontro tra i due, avvenuto a Caraffa del Bianco.
“È da molto che non va al suo paese?”, gli chiede Strati.
E Alvaro risponde: “E’ da molti anni, né ci voglio mai più tornare… Ho un bel ricordo di quel paese, e non mi piace sciuparlo. Lì sono stato felice, durante la mia fanciullezza, e desidero conservare per sempre questo ricordo”.
Nonostante oggi Alvaro manchi fisicamente dal mondo da tanti anni, e quest’anno sono già 70 dalla pubblicazione di Gente in Aspromonte, io a San Luca, ho ritrovato l’Alvaro perduto.
Ci sono Sud che vanno visti per essere compresi. Vanno affrontati per essere capititi, facendoli diventare perfetti affluenti nel fiume del mondo. E San Luca non è solo Sud, ma è mondo. Ed è qui che io ho compreso che non vi è più tempo da perdere. Antonello, di Gente in Aspromonte, è stato ascoltato dai carabinieri, ma forse non parlato per bene, come voleva Alvaro. E allora non resta che prendere oggi, la parola, per conto suo. Per conto di quella San Luca che va assolutamente riconosciuta luogo di tutti e non terra di ‘ndrangheta. Condannando non solo il disagio sociale che porta Antonello a commettere il fatto pur di vedere lo Stato mettere piede dalle sue parti, ma la società, soprattutto politica, che non offre occasioni e non concede scelta. Ricordando che se a San Luca vive ancora Antonello dell’Argirò, al di fuori vaneggia tutta la società miserabile.
Il mio viaggio nella San Luca di Alvaro, è stato un’esperienza che mai dimenticherò, anzi che spero di replicare tante altre volte.
Grazie alla città di San Luca per la straordinaria accoglienza; al sindaco Bartolo per la disponibilità, all’assessore Cosmo per il sostegno, a Sebastiano Romeo della Fondazione Alvaro per esserci stato e per i doni preziosi di cui ha voluto omaggiarmi. A Corrado Alvaro, maestro e padre di questa terra, il mio grazie più grande, per avermi permesso, in punta di piedi, di entrare nella casa della sua fanciullezza ed avermi parlato nel silenzio di quasi una vita. Con le mie dita a sfioro con le sue, su quella vecchia macchina da scrivere nera e miracolosa. (gsc)