L’allarme inascoltato di Siclari del 31 gennaio
Il senatore: «Persi 90 giorni contro il Covid-19»

di SANTO STRATI – Era il 31 gennaio, giorno di audizione in Senato del ministro della Salute Roberto Speranza. Cinque giorni prima, Marco Siclari, giovane senatore calabrese di Forza Italia aveva lanciato un appello inascoltato (vedi calabria.live del 25 febbraio) sui rischi della pandemia da Coronavirus. Già si erano persi quattro giorni dal suo appassionato intervento in Senato e ancora nessuno immaginava quello che sarebbe capitato da lì a poco. Il 31, con molta discrezione, il Governo lanciava uno stato di emergenza di sei mesi, a fini precauzionali, ma nessuno era stato adeguatamente informato. Dopo la relazione del ministro, l’intervento del senatore Siclari, medico e dirigente sanitario, era stato ancora più intenso e vibrante di quello di pochi giorni prima. Siclari aveva intuito la gravità della situazione e ne aveva tracciato gli scenari, senza descrizioni apocalittiche, ma non per questo meno allarmanti.

«Parliamo di sanità pubblica – aveva detto Siclari –. Parliamo della tutela della salute e della vita dei nostri cittadini, soprattutto dei più deboli». Siclari si rivolge al ministro Speranza: «Abbiamo ascoltato con estrema attenzione la sua relazione che condividiamo, ma non basta. Non basta perché non riferisce provvedimenti concreti ed efficaci per prevenire nell’immediato il contagio di ciò che potrebbe rappresentare una gravissima pandemia, forse la più grave degli ultimi cent’anni. E per recuperare tempo prezioso, soprattutto prima che si diffonda in Italia, così com’è accaduto in due mesi in Cina, in soltanto due mesi, da novembre ad oggi. Ministro, abbiamo ascoltato anche le dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha ammesso che il rischio globale derivante dal coronavirus cinese è elevato. Sia per la sua aggressività sia per la sua pericolosità e soprattutto per la facilità con cui si trasmette tra le persone. Si trasmette come un virus influenzale: ciò vuol dire che fra tre mesi avremo picchi massimi, entro aprile, forse maggio. Dalla sua relazione si evidenzia che non abbiamo dati certi, non conosciamo il numero degli ammalati, non abbiamo certezza di quante persone siano guarite. Non sappiamo dove sono finiti i cittadini che hanno lasciato Wuhan e sono arrivati in Italia nell’ultimo mese, duemila e quattrocento persone».

«Lei ha dichiarato – ha proseguito Siclari nel suo intervento del 31 gennaio – che in Italia abbiamo i controlli più alti e ha chiesto una riunione internazionale di tutti i ministri della Salute dell’Unione Europea per capire come affrontare la situazione. Ministro, io le consiglio di andare in Europa e di portare quelle che sono le nostre indicazioni. Noi abbiamo i migliori scienziati al mondo, la migliore ricerca al mondo, e non dobbiamo aspettare che gli altri ci dicano, gli altri ministri degli altri Paesi europei come dobbiamo intervenire».

Siclari chiedeva al ministro di diffondere un messaggio per comunicare «come contenere la trasmissione del contagio nell’immediato, cosa che oggi non è accaduto. Contatti l’ambasciata cinese, signor ministro, e faccia contattare dall’ambasciatore tutti i cinesi che sono arrivati nell’ultimo mese in Italia. Facciamo degli esami clinici per vedere se ci sono portatori sani di questo virus, perché non lo sappiamo, e consigliamo a tutti di indossare le mascherine: negli aeroporti, nei treni, nei centri commerciali, nei punti affollati. Non dobbiamo vergognarci, non dobbiamo aspettare magari di dirlo tra una settimana quando sarà già tardi». Era il 31 gennaio, il senatore Siclari, cui non vogliamo attribuire il ruolo di Cassandra, aveva messo in guardia il ministro della Salute, l’intera aula del Senato. Aveva lanciato un allarme preciso e circostanziato, da uomo di medicina. Non è stato ascoltato. Anche se poi il suo documento di prevenzione da epidemia (un accurato decalogo delle cose da fare) è stato perfino apprezzato al livello europeo

Sono stati persi 90 giorni, non sappiamo quanto avrebbe potuto essere circoscritto e limitato il contagio: il 21 febbraio è scoppiato il caso Codogno, il giorno d’inizio di questa disgraziata guerra contro il nemico invisibile che ancora non si è riusciti a domare. Sono seguiti i provvedimenti di chiusura (fa fine dire lockdown, attenua la gravità dell’isolamento forzato in casa), a cascata, in modo generico, imponendo restrizioni, cambiando continuamente le misure, nel disperato tentativo di non sbagliare. Eppure, quando tutto questo sarà finito – perché dovrà pur avere una fine – bisognerà chiedersi degli errori, delle incapacità, delle lampanti incompetenze che hanno guidato la strategia del fronte antivirus.

Non è rimasto solo Siclari, inascoltato, come è avvenuto per il dott. Salvatore Spagnolo (calabrese di Simeri Crichi, chirurgo a Rapallo) che suggeriva con convinzione l’uso dell’eparina per bloccare le morti da embolia polmonare che il coronavirus continuava a provocare in misura crescente (vedi calabria.live del 26 aprile). Due medici, due calabresi. Appassionati del loro lavoro, nel credo d’Ippocrate, e calabresi “emigrati” come tante altre centinaia di teste pensanti, eccellenti risorse nel campo della scienza, della tecnica, della cultura, costretti a lasciare la propria terra per assenza di opportunità.

Per troppo tempo abbiamo permesso a chi ci governa di decidere per i nostri giovani, ovvero non decidere ignorando colpevolmente le loro capacità e competenze, rubando letteralmente il futuro a migliaia e migliaia di laureati e ricercatori. Un impegno che la nuova Giunta ha promesso di prendere seriamente a cuore. Noi ci saremo, non solo come rigorosi giornalisti testimoni della realtà regionale, ma soprattutto come calabresi che hanno a cuore questa terra e il futuro delle nuove generazioni. Servono risorse (e ci sono, l’Europa ce le dà, i passati governanti sono stati capaci di restituire milioni di euro non utilizzati!), ma serve l’intelligenza di aprirsi al confronto, ascoltare anche l’avversario politico, se il fine ultimo è il bene comune. Il nuovo governo regionale sta mostrando una inaspettata vitalità, una grande voglia di determinazione e di risultato. L’opposizione, per favore, smetta di fare polemiche montate sul nulla e presenti progetti, proposte, idee e dialetticamente si confronti: l’assemblea regionale deve diventare protagonista di questa voglia di cambiamento che tutti i calabresi chiedono a gran voce. È finito il tempo delle manovre di Palazzo e delle clientele: insieme si possono vincere tutte le sfide, anche le più grandi. E quando si sarà sconfitto il nemico di oggi bisognerà essere già pronti a costruire il domani che oggi, in piena emergenza, non bisogna assolutamente smettere di progettare. Non è solo un auspicio, è una drammatica necessità a cui tutti sono chiamati, ognuno per la sua capacità e la propria competenza, dovrà dare il meglio, pensando ai ragazzini smarriti di oggi di fronte al misterioso virus che li ha tolti da scuola e li trattiene a casa. Questi ragazzini si ricorderanno di questi terribili giorni, capiranno quanto ha pesato il sacrificio di medici, infermieri, operatori sanitari morti per assistere e salvare altre vite, e apprezzeranno quello che oggi scienziati, imprenditori politici hanno saputo progettare e costruire, per restituire un futuro che non potrà più essere rubato. (s)

Jole a caccia dei ‘fantasmi’ di Germaneto
Vanno eliminate le zone grigie in Regione

di SANTO STRATI

Quando lunedì scorso, in Consiglio regionale, la presidente Jole Santelli ha parlato di “zone grigie” e di “personaggi obliqui”, diversi consiglieri, forse distratti, non hanno seguito il filo del suo discorso. Denunciava la presidente Jole la presenza di enti in liquidazione da otto anni che continuano a fare assunzioni e faceva riferimento a circa 800 “fantasmi” che sono in carico alla Regione ma di cui si sa poco o niente. Se non che vengono regolarmente retribuiti. A far cosa ce lo dovranno spiegare la Giunta e il Consiglio, perché è intollerabile che ci sia ancora un sottobosco che dopo anni di scorrerie e gestioni allegre del personale, oggi questi “personaggi obliqui” possano pensare di continuare a farla franca.

Ma la Santelli ha, per la verità, parlato non di fantasmi, bensì di cassetti, cercando sponda presso l’opposizione. Le risorse comunitarie destinate al Sud sono a rischio (vedi calabria.live del 19 aprile) e la Presidente vorrebbe un fronte unitario per battere i pugni col Governo centrale di fronte al nuovo tentativo di rapina autorizzata. E ha chiesto di aprire i cassetti della Regione perché ci sono troppe carte ingiallite dal tempo che nascondono amare verità su scansafatiche e privilegiati dello stipendio “a gratis”.

Naturalmente, chi ha voluto intendere il senso del suo ragionamento non è rimasto a guardare. Pippo Callipo, leader di Io resto in Calabria e capo dell’opposizione, ha lasciato passare qualche giorno, poi ha attaccato a testa bassa: «Ho voluto riflettere qualche ora – ha dichiarato – sulle parole pronunciate dalla presidente della Regione Jole Santelli in Consiglio regionale perché, non essendo un politico navigato, ho ritenuto necessario fare una valutazione ponderata. La presidente della Regione ha rivolto a me e all’opposizione un invito alla collaborazione per aprire i “cassetti” e combattere il “grigio” che si annida tra le stanze della Cittadella. Lei stessa sa bene, come sanno tutti i calabresi, che se c’è da combattere la zona grigia, quella che da anni chiamo “mafia con la penna”, io sono e sarò sempre in prima linea. Lo dice la mia storia e non mi tirerò indietro certo ora. Apra subito quei “cassetti”, la presidente Santelli, denunci pubblicamente ciò a cui ha fatto velato riferimento in Consiglio, traduca in fatti le sue parole e io farò la mia parte».

«Però – aggiunge Callipo – bisogna parlare chiaro e non nascondersi dietro gli annunci. Invece di scaricare sugli altri le responsabilità si diano risposte sul piano economico, si dia concretezza al piano “Riparti Calabria” da 150 milioni di euro che finora è rimasto solo un atto di indirizzo politico, mentre migliaia di calabresi sono letteralmente sul lastrico. Si eviti di far passare messaggi utili solo a sviare l’attenzione su determinate situazioni; la vera bomba sanitaria sono quelle Rsa diventate un focolaio di Coronavirus».

«Dunque apriamoli, questi “cassetti”, smantelliamo i carrozzoni inutili piuttosto che pensare a creare nuove Commissioni in Consiglio per soddisfare gli appetiti di pezzi della maggioranza. Facciamo pulizia, portiamo il confronto alla luce del sole rispettando ruoli e prerogative dell’opposizione invece che attuare blitz in Consiglio, facciamo una battaglia comune affinché il Sud non subisca l’ennesimo scippo. Se su queste essenziali rivendicazioni di civiltà – conclude Callipo – la presidente della Regione è disposta a tradurre in fatti gli annunci troverà in me pieno sostegno. Altrimenti rischiamo di consegnare alla storia del regionalismo calabrese l’ennesima occasione persa e io, di fronte a ciò, non starò certo in silenzio».

Il Movimento Cinque Stelle ha colto la palla al balzo e ha subito rintuzzato alla Presidente per voce dei suoi parlamentari calabresi Francesco Sapia, Paolo Parentela, Giuseppe d’Ippolito e Bianca Laura Granato. «La presidentessa della Calabria, Jole Santelli, faccia i nomi degli 800 “imboscati” negli uffici regionali. Così, al di là dei colori e degli steccati politici saremo al suo fianco nella denuncia dei responsabili, per voltare pagina una volta per tutte. La Regione ha bisogno di una riorganizzazione capillare degli uffici. A riguardo bisogna subito eliminare gli abusi. Occorre mandare a casa, come abbiamo sempre detto, chi non serve all’amministrazione e magari continua a lavorare con qualche trucco grazie a vecchie spinte politiche. Apprezziamo dunque le recenti dichiarazioni di Santelli e siamo pronti ad appoggiarla in una vera opera di pulizia degli uffici della giunta e del consiglio calabresi». «Come noto, nei decenni la Regione – proseguono i parlamentari del Movimento 5 Stelle – è diventata un pozzo senza fondo per comitati d’affari e interessi elettorali. Abbiamo a lungo denunciato retribuzioni pubbliche da capogiro, ingiustificabili, l’assegnazione di premi di produttività senza risultati, l’uso di risorse regionali a beneficio della gola e della gloria di interi carrozzoni politici, incarichi clientelari basati sulla fedeltà a partiti e altre situazioni molto gravi che hanno determinato l’apertura di inchieste da parte della magistratura ordinaria e contabile». «Oggi – concludono i 5 Stelle – registriamo con favore l’indirizzo espresso dalla presidentessa Santelli e mettiamo a sua disposizione, quindi a vantaggio dei cittadini, tutte le competenze acquisite con la nostra attività di controllo della spesa pubblica regionale, condotta con costanza pur senza avere nostri rappresentanti nell’assemblea legislativa calabrese». (s)

I numeri del Covid in Calabria: c’è ottimismo,
ma la proiezione sui contagiati richiede cautela

Quanti sono effettivamente i positivi al Coronavirus in Calabria? Secondo i dati del bollettino ufficiale diffusi dalla Regione Calabria i numeri si mantengono, per fortuna, abbastanza bassi, soprattutto in confronto ai drammatici dati delle cosiddette regioni “rosse”. Secondo uno studio di OpenCalabria, però, la stima sarebbe troppo modesta: la diffusione dell’epidemia potrebbe essere 6 volte più elevata rispetto al valore che si osserva e addirittura in provincia di Catanzaro 12 volte rispetto al valore osservato.

di GIUSEPPE DE BARTOLO

La diffusione dell’epidemia in Calabria potrebbe essere 6 volte più elevata rispetto al valore che si osserva e addirittura in provincia di Catanzaro 12 volte rispetto a valore osservato. Questa evidenza consiglierebbe molta cautela riguardo ai tempi e ai modi di riduzione delle misure di confinamento e di chiusura che fino ad oggi hanno dato buoni risultati.

Come costatiamo giornalmente, seguire l’andamento di questa pandemia non è semplice nemmeno per gli addetti ai lavori, perché le misure delle variabili utilizzate danno comunemente una visione parziale della realtà.

Solo per fare qualche esempio, ricordiamo che il numero dei contagiati forniti di volta in volta dalla Protezione civile riguarda soltanto i casi “conclamati”, cioè coloro che sono stati sottoposti a tampone; di conseguenza da questa conta mancano gli asintomatici e coloro che comunque non si rivolgono alle strutture pubbliche. Inoltre, anche le statistiche dei deceduti, che dovrebbero essere quelle più robuste, registrano soltanto i “tamponati” e non gli altri.

Quando tutto sarà finito, o quasi, è vero che sarà possibile calcolare un tasso di mortalità definitivo per mille abitanti per Covid-19, ma anche in questo caso si otterrà ancora una volta un valore sottostimato per le ragioni dette prima sui deceduti. Non solo, ma a quell’epoca, non sarà possibile conoscere nemmeno il reale tasso di letalità della malattia per l’impossibilità di avere contezza del numero effettivo dei contagiati.

Pur con questi limiti di misura, per avviare la fase due sarebbe, comunque, indispensabile una stima accettabile della diffusione reale del virus sul territorio, che però solo un campione rappresentativo della popolazione può fornire. Nelle more, anche se con molte cautele, un’idea della diffusione del virus può aversi in base al numero dei contagiati e dei decessi osservati, adottando un’ipotesi sulla letalità effettiva del virus che, come hanno evidenziano gli studi finora condotti, varierebbe, con forchette però abbastanza ampie, dal valore di 0,66% per il caso cinese, a 0,90% per il Regno Unito, a 1,14% stimato dall’ISPI per l’Italia per tener conto del maggiore livello di invecchiamento della popolazione italiana rispetto a quella inglese. Livelli che in ogni caso sono più vicini alla letalità dell’influenza stagionale (0,1%) che a quelli di una malattia similare al COVID-19 come la SARS o la MERS che, come sappiamo, hanno fatto registrare tassi di letalità molto più alti, rispettivamente del 9-10% e del 36%.

Quali i probabili scenari della diffusione del virus in Calabria? Le considerazioni precedenti consentono una stima della diffusione del contagio se si tiene conto che il rapporto tra il tasso di letalità osservato (TLO) e quello effettivo (TLE) rappresenta il numero dei contagi “reali” per ciascuna unità di contagio osservato.

I risultati di questo semplice calcolo, peraltro già utilizzato per l’Italia intera, ci restituisce un quadro che per la nostra regione è molto preoccupante (Tabella 1): la diffusione dell’epidemia in Calabria sarebbe sei volte più elevata rispetto al valore che si osserva e addirittura in provincia di Catanzaro dodici volte rispetto a valore osservato, anche se in questo caso i dati di riferimento riguardano anche soggetti provenienti da altre strutture e provincie.

Queste evidenze consiglierebbero dunque molta cautela riguardo ai tempi e ai modi di riduzione delle misure di confinamento e di chiusura che fino ad oggi hanno dato buoni risultati. (gdb)        [courtesy OpenCalabria]

Giuseppe De Bartolo è Professore di Demografia, Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza all’Unical.

Conte ‘autorizza’ il nuovo esodo verso il Sud
La Santelli: ne dovrà rispondere il Governo

Il via libera del Governo al ritorno a casa dei meridionali bloccati al Nord, preoccupa la presidente Santelli: «Le misure di contenimento attuate dalle Regioni del Sud possono essere gravemente compromesse da questa decisione di autorizzare ritorni in massa da zone ancora con altissimi numeri di contagio. Conte ed il suo governo si assumano la responsabilità piena delle loro scelte». Ma sono gli annunci del Presidente Conte che inquietano gli italiani e non solo i calabresi. 

di MARIO NANNI

«Siete sull’orlo dell’abisso, ma con me farete un passo avanti»: così un generale che cercava di rincuorare i suoi soldati ottenne l’effetto opposto incappando, per un uso malaccorto delle parole, in un corto circuito non solo semantico ma psicologico. In un corto analogo è incappato, per una apparente disinvolta sicumera, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa pomposamente annunciata per illustrare la cosiddetta fase due dell’emergenza coronavirus. In realtà una edizione riveduta e (s)corretta della fase uno, con qualche aggiunta. E molti punti interrogativi senza risposta, finora.

Conte ci ha messo tutta la buona volontà dello studente che si impegna per fare bella figura, quasi del primo della classe che dice che altri compagni ( leggi: altri governi europei) aspettano il suo compito per copiarlo. Ma, di là da questa botta di vanità che voleva forse rassicurare ma si presta ad amabili sfottò, il presidente del Consiglio è apparso a tratti incerto e non persuasivo mentre snocciolava la casistica delle situazioni: questo sì questo no. Come un attore che non crede fino in fondo neanche lui nel copione che recita, un copione scritto da altri, sotto la dettatura dell’esercito dei suoi consiglieri, consulenti, esperti, task force, Conte è caduto su alcune spie linguistiche che la dicono lunga su come questo governo stia affrontando la situazione. E soprattutto su come intende disegnare e gestire le fasi successive.

Speriamo solo che il numero di queste fasi non superi quello delle fasi lunari. Sciorinando le decisioni che andranno in vigore dal 4 maggio, il presidente del Consiglio ha usato questa formula: «consentiremo l’accesso a ville, a parchi pubblici ecc. Consentiremo di allungare le passeggiate. Consentiremo questo, consentiremo quello. Un momento! Consentiremo!!! Cioè una concessione? Ma il presidente del Consiglio si rende conto di parlare come il sovrano che “concedeva” i diritti, cioè la Costituzione? Dal giurista Conte non ci si aspetta che parli un simile linguaggio da ‘’Costituzione octroyée’’. Qui sono in ballo diritti fondamentali, cominciando da quello di circolazione, per poi passare al diritto di riunione, ai diritti religiosi, umani, culturali. Diritti a cui gli italiani da tante settimane pazientemente e disciplinatamente stanno rinunciando.

Ma quousque tandem? Per poi sentir parlare, quasi con stupefacente degnazione di questi diritti in termini di concessioni. Con toni e approccio quasi burocratico da dandy disarmato. Forse Conte ha deciso di dismettere i panni di ‘’avvocato difensore’’ del popolo italiano, quale si presentò dopo il primo incarico di fare il governo nel 2018, per indossare quelli del ‘’tutore’’ degli italiani? Da un presidente del Consiglio, per giunta giurista, si esige che si dimostri una esatta percezione della corrispondenza tra le parole e le cose.

Quel ‘’vi consentiremo” detto una volta può passare, ma ripetuto più volte proprio non può essere accettato. Le parole sono conseguenza delle cose, e non vorremmo che il presidente Conte si specchi come Narciso nei sondaggi e nel consenso che gli sono favorevoli e che si è forse anche guadagnato, e ritenga di potersi permettere certe sortite o espressioni da marchese del Grillo. In un periodo in cui per l’emergenza il ventaglio dei poteri del governo si è allargato a dismisura, nella tolleranza di un Parlamento piuttosto afono. E nell’assenza dalla scena e nel silenzio del Partito democratico, e del Movimento 5 Stelle, tormentato da convulsioni interne e troppo occupato dal mettere mano su nomine negli enti e leve di potere. Mentre Conte, come dicono a Roma si va ‘’allargando’’.

E legittimamente dal suo punto di vista si compiace dei sondaggi a lui favorevoli. Ma a Conte, pur apprendista della politica che ha tuttavia imparato in fretta a gustare l’ebbrezza del potere, non è sconosciuta questa verità o costante storica: nei momenti di grande difficoltà come questo che gli italiani stanno vivendo, la gente cerca sicurezza, riparo, rassicurazione e si stringe attorno al proprio governo e a chi lo guida. Poi passata la tempesta, si vedrà. Il presidente del Consiglio tenga conto di questo dato. Ciò non toglie che al governo non si possano muovere critiche, senza essere sospettati di portare acqua al mulino di Salvini. Questo è un ricatto intellettuale inammissibile. Escludiamo che Conte voglia abusare della pazienza degli italiani, però almeno non dia l’idea di sottovalutare la loro intelligenza. Ma le spie linguistiche nella conferenza stampa di domenica sera non finiscono qui.

«Nella fase due – (ma non è neanche una fase una e mezzo, NdR), ha detto –  dovremo convivere con il virus». Ma perché, nella ‘’fase uno’’ gli italiani con chi e con che cosa hanno convissuto?! Qui non si tratta di fare una puntigliosa e pregiudiziale esegesi, quasi alla moviola, delle parole di Conte, al quale va comunque il rispetto e l’apprezzamento per l’impegno che ci sta mettendo. Le sue ammiratrici ci tengono ad aggiungere che ci sta mettendo anche l’anima . E che!?, non si vede? Ma Conte non sembra rendersi conto che può dare anche fastidio questo approccio da contabile alla limitazione dei diritti, al di là di rituali e fugaci ammissioni su come si sia pasticciato su certi provvedimenti. Un esempio su tutti: le autocertificazioni. E se non si rende conto, non è una attenuante, è preoccupante. Vorrebbe dire che certi atteggiamenti ‘’sovranisti’’ gli vengono naturali.

“Se vuoi bene all’Italia stai a distanza”, è lo slogan del governo per convincere gli italiani a rispettare i limiti di distanziamento, ed è stato proclamato domenica sera da Conte. Se vuoi bene all’Italia!.? Il presidente del Consiglio ha forse voluto rendere omaggio ai sovranisti con questo slogan patriottico? Non sarebbe più efficace e persuasivo lo slogan “se vuoi salvare la salute, se vuoi salvare la pelle?” Perché di questo si tratta, prima la salute, il resto, come si diceva dell’intendenza, seguirà.

Per andare infine al merito di certe misure annunciate, a macchia di leopardo, con una dettagliata casistica da far invidia alla scuola dei gesuiti, ci sono molte cose che lasciano perplessi.. Saranno consentite per le cerimonie funebri non più di 15 persone. Chi vigilerà che siano 15 e non 16? Dopo l’elenco degli invitati ai matrimoni avremo la lista degli invitati ai funerali? I sentimenti, anche quelli più sacri, sono finiti nell’ingranaggio di una occhiuta burocrazia. Sarà una delle cose più tristemente e penosamente memorabili di questi tempi, questa restrizione o negazione della vicinanza alle persone care che ci hanno lasciato.

Pare che riapriranno le biblioteche. Non lo si poteva fare prima, visto che in molte biblioteche ci sono sale vaste e numerose e organizzando turni e limitazione di accessi si potevano bene rispettare le norme di prudenza e di distanza, consentendo così la ricerca e gli studi? Ma la cultura sembra essere non in cima ai pensieri di questo governo.

Basti pensare a come da subito e senza aspettare l’evolversi della situazione, si è deciso che la scuola riapra a settembre! Su questo ha menato scandalo in un recente articolo Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, per il messaggio devastante che si trasmette ai giovani e agli studenti. E ora che migliaia di lavoratori tornano in fabbrica, i loro bambini chi li terrà? Conte è apparso preoccupato che queste parziali liberalizzazioni, se non supportate da comportamenti responsabili, possano far tornare il contagio vanificando i risultati fin qui raggiunti, preoccupazione peraltro non infondata,. Si è spinto a dire: se questo dovesse accadere, i danni per l’economia sarebbero irreversibili. E ha parlato delle mascherine, che saranno ormai l’oggetto da indossare tutti i giorni, già terreno di speculazioni dei soliti affaristi che puntualmente prosperano durante i tempi di guerra e le calamità.

Conte ha chiesto all’alto commissario Arcuri di adoperarsi per calmierare il prezzo delle mascherine. Presidente Conte, faccia esercitare la vigilanza anche sui prezzi delle merci, dei supermercati e degli altri prodotti di consumo, ora che si tornerà anche alla vendita al dettaglio. C’è un allarme prezzi che va tenuto presente.

Non si ripetano errori del passato quando, con il passaggio dalla lira all’euro, non si mantenne per un tempo più lungo il regime e l’esposizione dei doppi prezzi. Tutto ciò creò uno spostamento di ricchezza da un ceto all’altro e i ceti medi ne pagano ancora le conseguenze. Di andare al mare per ora non si parla, anche se gli operatori turistici chiedono di sapere almeno delle date per poter programmare la stagione. Gli italiani sommersi da circolari, dpcm, autocertificazioni (che resteranno), cercano lumi sul sito di Palazzo Chigi nella rubrica: domande frequenti. Pescando nelle risposte, pare che chi chi abita vicino al mare possa già fare il bagno. Commenta sarcastico il costituzionalista Giovanni Guzzetta: ora abbiamo una nuova fonte del diritto, il sito di Palazzo Chigi. Dopo il caso delle biblioteche, le chiese ancora chiuse alle cerimonie.

Escluse le chiese di piccole dimensioni, nelle cattedrali, non solo delle grandi città ma anche di tante città di provincia del Bel Paese, tenendosi a distanza e con la mascherina i fedeli non possono pregare ? Le autorità ecclesiastiche cominciano a dar segni di nervosismo. Conte rassicura, somigliando sempre più al conte zio manzoniano: troncare, sopire, smussare, rinviare, diluire, annunciare approfondimenti (bisogna pur dare tempo ai vari sinedri di partorire idee e proposte), spostare più in là, come la linea dell’orizzonte.

I Promessi sposi, che parlano di peste e di sofferenze e di morte per la pestilenza, è un testo che andrebbe riletto in questi tempi. Ci sono aspetti dell’Italia del ‘600 che sembrano rivivere nel costume di una Italia eterna e soprattutto in chi ci governa (le gride delle autorità che cercavano di fronteggiare il contagio, la rottura del legame sociale, la paura dei contatti).

È una lettura, anzi una rilettura , oltre alla Peste di Camus, che umilmente ci permettiamo di suggerire al presidente del Consiglio. Anche perché nei Promessi sposi oltre al Conte zio c’è anche la figura dell’Azzeccagarbugli.

Quest’ultima figura, per l’avvocato Conte, sarebbe una ben deludente mutazione. Da non augurarsela, per il bene non solo ( e non tanto) suo ma di questa povera Italia. (mn)

[courtesy Prima Pagina News]

D’un chirurgo calabrese l’intuizione ‘eparina’
«Non cura la polmonite, ma salva vite umane»

di SANTO STRATI

Questa è una storia tipicamente italiana: un chirurgo (calabrese) intuisce per primo la probabile principale causa di morte dei positivi al coronavirus, ma nessuno gli dà retta. È la storia del dott. Salvatore Spagnolo, originario di Simeri Crichi (CZ), già primario chirurgo al San Matteo di Genova, poi a Monza, oggi all’Iclas (Istituto Clinico Ligure di Alta Specialità) di Rapallo. Nuovo orgoglio calabrese dopo il (catanzarese) dott. Luigi Camporota che ha curato e guarito Boris Johnson a Londra.

A marzo il dott. Spagnolo, dopo i primi casi e i primi decessi a Codogno, matura un’ipotesi, frutto di anni di esperienza: la polmonite in sé non porta a morte improvvisa, ha un decorso di uno-due mesi, quindi c’è una concausa che provoca i decessi. La risposta si chiama tromboembolia polmonare massiva: il dott. Spagnolo intuisce che il Covid 19, il virus, scatena la formazione di coaguli (trombi) che, impedendo il corretto scambio ossigeno-anidride carbonica, portano a morte improvvisa.

La cura contro l’embolia massiva polmonale (Emp) esiste e viene praticata da anni in tutte le sale operatorie e in tutti gli ospedali: l’eparina, un farmaco anticoagulante, che impedisce la formazione di trombi e la conseguente embolia. Da qui, l’idea di trattare con l’eparina i malati affetti da coronavirus: questo farmaco non cura la polmonite, ma, sicuramente, salva vite umane.

Secondo la prassi della letteratura scientifica, il dott. Spagnolo trascrive questa sua esperienza e traccia con molti dettagli la sua ipotesi relativa all’embolia polmonare come causa principale di morte nel coronavirus, indicando anche la terapia con l’eparina. Scrive all’Aifa, a quasi tutti gli organismi sanitari che si occupano del Covid-19, ma nessuno gli risponde né si preoccupa di valutare l’ipotesi scientifica del dott. Spagnolo: nessuno che dica è “una fesseria” o “potrebbe essere un’ipotesi interessante da approfondire”. Niente.

Nello stesso tempo, a fronte del diniego di pubblicazione del suo studio, il dott. Spagnolo invia negli Stati Uniti il dossier che, dopo un paio di giorni, viene regolarmente pubblicato. È l’atto ufficiale che restituisce al dott. Spagnolo – oggi che sono in tanti a prendersi il merito di aver pensato all’eparina – il giusto riconoscimento al suo lavoro, alla sua passione di medico, al suo impegno nella salvaguardia di quante più vite umane possibili. Un orgoglio calabrese, un altro cervello andato via dalla sua terra, una delle tante eccellenze per le quali la Calabria  detiene il record nell’export. Capacità, competenza e impegno, caratteristiche facili da riscontrare nei tanti medici, scienziati, imprenditori che la Calabria continua, senza soste, a esportare, privandosi di figli preziosi.

Non è campanilismo, è giusto orgoglio di calabresi, lo stesso che anima Salvatore Spagnolo, con cui abbiamo parlato.

– Com’è nata l’intuizione che sta alla base della sua ipotesi di terapia?

«L’andamento clinico di questa patologia, caratterizzata dal fatto che al paziente improvvisamente manca il fiato, si abbassa la concentrazione di ossigeno nel sangue, e spesso si verifica la morte improvvisa, mi ha portato a valutare, sulla scorta della mia esperienza, ipotesi diverse sulle cause della mortalità da Covid-19».

«Osservando i sintomi che avevano i pazienti che si ricoveravano nelle terapie intensive lombarde, ho ipotizzato che la causa di morte non poteva essere una polmonite, perché la polmonite anche se grave, anche se pericolosa e mortale, fa morire nello spazio di un mese, due mesi, non in due giorni. Qui siamo di fronte a pazienti che stanno male, vanno in ospedale e velocemente desaturano il sangue, si abbassa di ossigeno, cominciano ad avere mancamenti di fiato, che molte volte è così grave che necessita l’intubazione, c’è bisogno dell’assistenza di un respiratore. Molte volte il respiratore non è sufficiente e si devono aumentare le pressioni nei polmoni in modo elevato e il più delle volte il paziente muore. L’altra caratteristica è che molti di questi pazienti muoiono di colpo, improvvisamente, senza poter fare niente. Questo con la polmonite non c’entra proprio niente.

«Per questa ragione ho ipotizzato che la causa di morte non può essere la polmonite ma qualcos’altro come l’embolia polmonare massiva. Ovviamente non basta dire che la polmonite non c’entra niente, c’entra l’embolia: bisogna documentarsi, cosa che ho fatto, valutare i dati clinici, studiare le varie situazioni cliniche».

– E, avendo individuato una possibile causa di morte, ha pensato all’eparina, un farmaco di uso comune che può limitare il numero dei decessi, bloccando l’insorgenza dell’embolia…

«Fra le caratteristiche che hanno questi virus c’è quella di avere nella loro membrana superficiale come un sensore, una glicoproteina, che entrata nel sangue lo fa coagulare. Ho trovato la probabile causa: è proprio la tromboembolia venosa disseminata indotta dal virus e non la polmonite responsabile della morte improvvisa. Questi coaguli non sono enormi, tuttavia sono in grado di bloccare la circolazione: non si ha più a livello alveolare lo scambio ossigeno-anidride carbonica.

Se questa possibilità di scambio scende troppo c’è una desaturazione del sangue e se la malattia interessa una estesa zona di polmone s’instaura una ipossia [mancanza di ossigeno, ndr] così grave che poi non risponde a nessuna terapia. E quindi quando la malattia è molto avanzata abbiamo il decesso del paziente per mancanza di ossigeno a livello cellulare».

– Nessuno le ha dato ascolto, si sarebbero potuti evitare tante morti…

«Quando i miei studi mi hanno confermato la bontà della mia intuizione, mi sono subito premunito di mettere per iscritto questa esperienza e mandare via mail il mio studio, ma non ho avuto risposta. Allo stesso tempo  ho diffuso la notizia che la causa di morte potesse essere l’embolia polmonare massiva. Ho mandato anche in America la mia nota scientifica che è stata pubblicata in pochi giorni. Quindi ho un documento che data dal mese di marzo dove espongo chiaramente la mia teoria e cioè che il covid causa una embolia polmonare acuta massiva e che il modo migliore di curarla è quello con l’eparina».

– Adesso l’AIfa ha “autorizzato” l’utilizzo dell’eparina e sono in molti a seguire questo protocollo.

«Le mie ipotesi sono state avvalorate ai primi di aprile da alcuni studi di angiotac polmonare che parlavano di embolia, ovvero veniva messo in evidenza che il 50% dei pazienti aveva un’embolia polmonare. Poi hanno fatto delle autopsie in varie zone d’Italia e anche lì è emerso che i polmoni avevano oltre all’infiammazione anche piccoli coaguli. Quindi la mia ipotesi è avvalorata da dati obiettivi e questo ha spinto i medici delle terapie intensive a iniziare la terapia con eparina che è un medicinale che viene utilizzato in sala operatoria. Per fare un esempio, in caso di flebite si fa questa punturina per evitare la formazione di trombi e il manifestarsi di un’embolia polmonare: chi entra in ospedale, la prima cosa che gli fanno, abitualmente, è una puntura di eparina nella pancia. Qualche anno fa, quando questo farmaco non esisteva era un dramma perché parecchi pazienti che venivano curati alle gambe, che stavano a letto in modo prolungato, venivano operati allo stomaco, morivano per embolia polmonare. Ora questo farmaco lo si dà per precauzione in tutte le sale operatorie, in tutte le fasi di lungodegenza, in caso di flebite, lo si dà comunemente, senza che provochi alcun danno, non ha effetti collaterali, salvo rarissimi casi quando c’è un’emorragia gastrica o un aneurisma al cervello. L’eparina ha due funzioni: quando il polmone è pieno di trombi la sia usa per farli sciogliere e se ne dà a dosaggi alti e in realtà parecchie persone che prima morivano attualmente sono curabili, sono migliorati. Adesso stanno morendo quelli che hanno già questa embolia massiva dentro. L’altro dato qual è? Siccome è il virus che scatena la formazione di questi coaguli quello che cerco di proporre io è che quando comincia a manifestarsi l’influenza, passano tre-quattro giorni e l’influenza non guarisce è un brutto segno: allora s’inizia la terapia con l’eparina per evitare che questo virus possa formare i coaguli. Sembra un ragionamento semplice, persino banale, ma ha trovato ostacoli, tanto che molti medici di famiglia che mi hanno consultato stanno usando di propria iniziativa questa terapia che impedisce la coagulazione.

«E questo utilizzo ha fatto andare molta meno gente in ospedale: attualmente le terapie intensive che erano state approntate per tutte quelle migliaia di persone che si dovevano ricoverare sono poco affollate: si pensi ai posti letto creati all’ex Fiera di Milano: sono vuoti, mentre venti giorni fa si sarebbero riempiti immediatamente.

– Hanno testato questo metodo con l’eparina in qualche centro clinico specializzato?

«Siamo in guerra, la gente muore. Da noi quando si ricovera qualcuno per embolia polmonare la prima cosa che facciamo è l’eparina per sciogliere i coaguli. E dunque, visto che questa patologia si può prevenire, si utilizza nelle cure domiciliari l’eparina a basso peso molecolare che ha l’effetto non di sciogliere i coaguli ma di prevenirne la formazione. Una terapia di questo genere non ha bisogno di test e di dimostrazioni perché esiste già come utilizzazione di farmaco: non bisogna fare una sperimentazione clinica per vedere se l’eparina scioglie il trombo o se quella a basso peso molecolare ne previene la formazione, perché lo sappiamo dall’esperienza di tutti i giorni. Si tratta di accettare questa ipotesi che ho suggerito e metterla in pratica. Una punturina sottocute a livello della parete addominale ha dunque la possibilità di evitare una malattia grave quale l’embolia polmonare. La polmonite è curabile, l’embolia no. È un farmaco a basso costo, usato abitualmente. Toglie la principale causa di morte».

– Ci sono stati errori nella terapia?

«In letteratura è descritto che sono stati trovati trombi nei polmoni dei deceduti per coronavirus; i cinesi l’hanno considerata una complicanza della polmonite, però i pazienti morivano seguendo le linee guida dei cinesi che per primi hanno vissuto l’esperienza del Covid-19. In Italia abbiamo, in un primo tempo, seguito in campo terapeutico le linee guida dei cinesi, sbagliando».

Sono in tanti, adesso, a vantare la primogenitura della terapia con eparina: qualcuno dovrà prima o poi spiegare perché la segnalazione e la cura suggerita dal dott. Spagnolo non abbia trovato ascolto presso le autorità sanitarie.

Dà un giudizio favorevole alle ipotesi scientifiche del dott. Spagnolo, l’ex presidente della Regione Calabria Pino Nisticò, illustre farmacologo di fama internazionale: «È un’osservazione interessante che merita sicuramente approfondimenti e studi adeguati: ai fini di una terapia immediata l’eparina si sta rivelando una cura adeguata quando ci sono fenomeni trombo-embolici. Non è un caso che a mostrare intuito, capacità e competenza sia un catanzarese: la scuola di medicina del capoluogo sta sfornando da anni eccellenze di cui l’Italia può essere largamente fiera. E se si realizzerà uno “Spallanzani” in Calabria – come suggerito dal rettore dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Giovambattista De Sarro – sarà l’occasione per creare un centro regionale universitario che coordini gli altri prestigiosi istituti di malattie infettive come quello di Cosenza e di Reggio Calabria, nonché potenzialmente quello di Lamezia Terme. Così, questa rete diffusa su tutto il territorio rappresenterà la modalità migliore per combattere la pandemia da coronavirus e di eventuali future emergenze epidemiologiche, venendo incontro alle esigenze dei pazienti e dei loro familiari».

La Calabria, come sempre, è un passo avanti.  (s)

Si prepara la fase 2: ripartenza differenziata
In Calabria molto bassa la densità di contagio

di FRANCESCO AIELLO – La decisione su come e quando implementare la riapertura delle attività produttive non può non tener conto del numero  di persone ancora positive e della dinamica che si osserva nella curva del contagio da coronavirus. Diventa cruciale in questa fase di setting delle politiche considerare l’incidenza del contagio tra la popolazione e la densità dello stesso. Se l’obiettivo è di riaprire il paese in sicurezza, allora è necessario farlo analizzando la “dimensione relativa” del contagio e capire se la curva del contagio mostra un andamento “stabilmente” decrescente. Al momento, l’area più sicura del paese è il Mezzogiorno d’Italia, in cui la densità del contagio è 6,7 volte più bassa rispetto a quella osservata nelle regioni settentrionali e l’incidenza dei positivi per abitante è 4.8 volte più bassa del Nord.

Il contagio regionale. Il contagio da Covid19 è fortemente concentrato per regione e molto diversificato in termini di densità e di incidenza per 1000 abitanti. Al 22 Aprile 2020, il 73% degli “attualmente positivi” è concentrato in 5 regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto e Toscana), mentre Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e Calabria assorbono in totale solo il 2% dei casi di positivi in Italia (vedi tabella sotto).

Tabella densità contagio covid19

Diversa è anche l’incidenza del contagio rispetto alla popolazione: in Italia 1,78 persone ogni 1000 sono contagiate.  Questo valore è pari a 3,4 in Lombardia, 3.47 in Piemonte, 2.9 in Emilia Romagna e 2 in Veneto. Il valore più elevato del contagio per abitante si ha in Valle d’Aosta (3,9 contagiati ogni 1000 abitanti). Rilevante è anche il caso del Trentino Alto Adige (3,1 contagiati per 1000 residenti). All’estremo opposto, l’incidenza del contagio tra la popolazione è basso in Molise (0,67 contagiati per 1000 abitanti), Basilicata, Umbria e Calabria (poco più di 0,4 positivi per 1000 residenti. Parallelamente, si osservi che la densità del contagio è in Italia pari a 0.35 contagiati per Km2 e varia da 1.43 contagiati per Km2 in Lombardia a 0.023 in Basilicata

Densità contagio covid19

La figura 1   sintetizza quanto la dimensione “relativa” del contagio vari a Nord a Sud del paese. Nelle regioni del Nord, ci sono 2.9 contagiati ogni 1000 abitanti. Questo valore è pari a 1,18 nel Centro di si riduce a 0.6 contagiati per 1000 residenti nelle regioni meridionali. Nel Mezzogiorno d’Italia,la densità del contagio è 6,7 volte più bassa rispetto a quella osservata nelle regioni settentrionali. E’ molto diversa anche la densità del contagio, che nelle regioni settentrionali è pari a 0.67, per ridursi a 0.24 nel Centro e addirittura a 0.099 nel Mezzogiorno d’Italia: nelle regioni del Sud l’incidenza dei positivi per abitante è 4.8 volte più bassa di quella che si osserva a Nord).

Curve di contagio covid19

Le curve del contagio. La precedente analisi riproduce la distribuzione territoriale del contagio in un dato istante nel tempo, che è realizzata utilizzando i dati disponibili in data 22 Aprile 2020. Per ottenere una più organica rappresentazione del fenomeno in esame è utile verificare in quale fase dell’espansione dell’epidemia si trovano le regioni italiane. A tal fine, le figure 2 e 3 mostrano le curve del contagio da Covid delle regioni italiane costruite utilizzando i dati pubblicati il 22 Aprile 2020 dalla protezione civile. I valori degli “attuali positivi” sono espressi sotto forma di numeri indice al fine di rendere confrontabili le serie storiche regionali. Il “giorno base” prescelto è l’11 Aprile 2020 che è quello in cui le curve del contagio degli “attuali positivi” mostrano un cambiamento di curvatura in molte regioni italiane. Infine, per rendere più chiara la posizione sul grafico delle varie curve regionali del contagio si è scelto di visualizzare la finestra temporale degli ultimi 20 giorni dell’epidemia.

Si noti che in alcune regioni il contagio è minore di quello osservato l’11 Aprile: si tratta dell’Umbria, della Basilicata, del Veneto e della Valle d’Aosta. Inoltre, è anche evidente che in alcune regioni il contagio tende a stabilizzarsi (in Calabria, Toscana, Campania e nelle Marche, che ha raggiunto il punto di massimo il 7 aprile), in altre è ancora crescente (gli “attuali positivi” sono superiori più del 10% di quelli rilevati l’11 aprile in Lombardia,  Puglia, Abruzzo, Lazio, Lombardia). E’ importante notare le curve del contagio degli “attuali positivi” hanno “imboccato” la strada della discesa in un congruo numero di regioni.

Si tratta di un’evidenza empirica che dovrebbe aiutare a capire che, allo stato attuale dell’espansione del contagio, non ha senso fissare una data unica per la riapertura in tutto il paese delle attività economiche. (fa)

[Courtesy OpenCalabria}

Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica presso l’Università della Calabria. Attualmente insegna “Politica Economica” al corso di Laurea in Economia ed “Economia Internazionale” al corso di Laurea Magistrale in Economia e Commercio.

(A info@opencalabria.com si possono richiedere i dati completi).

«Vogliamo rientrare al più presto in Calabria»
Studenti e lavoratori lontani chiedono aiuto

di SANTO STRATI –

È un appello che rischia di diventare un urlo disperato quello che si leva da migliaia di studenti universitari fuorisede e lavoratori precari calabresi che sono rimasti, per scelta responsabile, lontano dalla Calabria.

Un sacrificio fatto con coerenza, per limitare il contagio e per preservare familiari, amici, conoscenti, data la provenienza da zone ad alto rischio. Solo che non ce la fanno più né loro né i loro familiari su cui pesano affitti, spese maggiorate, problemi di sopravvivenza quotidiana.

Da un lato sono svariate migliaia gli universitari fuori sede che ormai da due mesi si ritrovano “chiusi” in pochi metri quadrati a seguire lezioni online senza ricevere gli “indispensabili” pacchi della mamma o della nonna, con prelibatezze e viveri della propria terra. Spesso un grande, grandissimo, aiuto per ridurre al minimo la spesa quotidiana, oltre che un conforto per lo spirito (e la gola).

Ben più grave la situazione di quanti lavoratori calabresi con contratti precari e sistemazioni di fortuna si sono improvvisamente trovati senza lavoro e, qualche volta, persino senza alloggio (quando era fornito dai datori di lavoro). Una situazione insostenibile di cui deve farsi carico la Regione, pur con le opportune e necessarie cautele anticontagio: il rientro dovrà avvenire nel rispetto della quarantena obbligatoria per tutti, ma questo ulteriore sacrificio dovrà essere accompagnato da un aiuto economico che permetta di mantenere un livello dignitoso di vita.

Molti ricorderanno la grande fuga, impazzita, dalle città del Nord, dopo l’incauto annuncio del Governo della chiusura. Incoscienti e irresponsabili quanti sono scappati, portando il contagio (ed è cosa provata) in Calabria, mettendo a rischio la salute di nonni e genitori, i familiari più esposti alla pandemia. Tantissimi altri, studenti e lavoratori, hanno con grande senso di responsabilità accolto l’invito di fermarsi e aspettare, pur con tutte le problematiche che questa scelta avrebbe comportato. Adesso che s’intravede un piccolo spiraglio nell’emergenza sanitaria, è il momento di pensare a questi calabresi che meritano la dovuta attenzione, la giusta assistenza per rientrare in famiglia, nella propria terra.

Di questi disagi, ormai davvero non più sostenibili, si sono fatti portavoce in Consiglio regionale sia maggioranza che opposizione.

Una mozione di Giuseppe Aieta, capogruppo di Democratici e Progressisti ha chiesto alla Giunta e alla Presidente Santelli di voler «disporre misure necessarie e urgenti al fine di consentire, nel rispetto di tutti gli obblighi di sicurezza e di prevenzione, l’immediato rientro di tutti i cittadini calabresi rimasti bloccati nelle regioni del Nord». Aieta ricorda l’ordinanza del 22 marzo con cui si vietava ogni spostamento «al fine di evitare rientri “scellerati e non autorizzati”», e fa presente che sono almeno 30mila i calabresi che ad oggi non possono rientrare a causa della misura restrittriva vigente.

Secondo Aieta «L’impossibilità di rientrare sta causando gravissimi disagi e problemi, soprattutto agli studenti fuori sede che si trovano con entrate pari a zero nella situazione di non poter adempiere ai contratti di locazione e al sostentamento, e con gravi ripercussioni anche psicologiche derivanti dalla certezza di non farcela». Senza contare il disagio per tutte quelle famiglie che si trovano nell’impossibilità di poterli aiutare.

Per la maggioranza, Tilde Minasi della Lega afferma che la Regione sta già lavorando a questo proposito, ma al momento non risultano adottati provvedimenti di aiuto e sostegno per i fuori sede che vogliono (giustamente) rientrare.

«Non passano certo inosservati – ha dichiarato la Minasi – gli appelli di nostri numerosi corregionali che chiedono di poter rientrare in Calabria poiché, a causa di diversi motivi, si trovano a dover affrontare, in altre regioni, il periodo di quarantena imposto in tutta Italia senza poter avere, però, i mezzi per sostentarsi in questa fase di stallo particolarmente gravosa soprattutto per lavoratori precari, stagionali, o in attesa di ammortizzatori sociali. Un piano, tra l’altro, quello della gestione e del coordinamento dei cittadini calabresi domiciliati nelle regioni più colpite dal Covid, che la Lega – dice la Minasi – aveva già approntato quasi un mese addietro e pensato proprio per evitare l’esodo indiscriminato da un lato, e non abbandonare i calabresi dall’altro, gestendo in maniera ordinata i singoli casi. Il problema non è assolutamente sottovalutato dagli uffici regionali e dalla politica, dal momento che il dibattito sulla questione è vivo, così come il confronto, affinché si trovino soluzioni e si riesca a dare la giusta attenzione ai fuorisede».

Secondo l’esponente leghista «Il dramma dell’emergenza sanitaria ha avuto un iter veloce, inaspettato e ha riguardato persone ed attività, motivo per il quale si sono dovute approntare azioni mirate a tutto tondo, in modo da non tralasciare le esigenze di ampissime fette di popolazione. La Regione sta lavorando, quindi, anche nei confronti di chi chiede, legittimamente, di poter rientrare in Calabria perché ormai allo stremo, in particolare dal punto di vista economico.  La presidente Santelli, che ha gestito sino ad oggi con piglio deciso il contenimento del contagio da Covid, non è insensibile alle richieste di aiuto che si sono fatte più insistenti negli ultimi giorni, anche in considerazione del fatto che tanti di coloro che si stanno rivolgendo alle istituzioni regionali, hanno mantenuto saldo il principio di non allontanarsi dai luoghi dove si trovavano per non far viaggiare, insieme alle necessità espresse, il pericolo di una trasmissione verso i loro cari, come invece è accaduto con le ormai note fughe dei primi week end di marzo. Ma, anche a fronte di un comportamento irreprensibile e attento al bene comune, settimane senza lavoro o senza una remunerazione costante stanno minando ogni certezza».

Il capogruppo DP Aieta sottolinea che «è compito della politica intervenire, attraverso canali di soccorso» e che «occorre porre rimedio alla lacuna normativa, di fatto esistente, sia a livello nazionale che regionale, autorizzando rientri soprattutto in favore degli studenti fuori sede».

Il rientro – ha osservato la Minasi  – «dovrà essere gestito nella massima sicurezza, con direttive precise, sia per i diretti interessati sia per le comunità che li accoglieranno, e sono sicura che la governatrice non si sottrarrà (come ha fatto d’altronde negli ultimi mesi lavorando su tutti i fronti di questa imponente emergenza sanitaria) nel rispondere, in modo esaustivo, ai bisogni di chi necessita aiuto a migliaia di chilometri da casa, favorendo i ricongiungimenti familiari che, in questo caso, non si configurano solo come una questione affettiva, bensì di sopravvivenza».

Cosa e come fare dunque? Una ottimistica stima basata su opinabili proiezioni individua nel 1° maggio la data di zero contagi per la Calabria. Al di là delle valutazioni che spettano esclusivamente ha chi ha la responsabilità della salute pubblica (in questo caso la Presidente Santelli) sarebbe il caso di avviare immediatamente a Germaneto un tavolo di consultazione per studiare la soluzione più funzionale che consenta, nel più breve tempo possibile, di far rientrare in piena sicurezza, per loro e per i residenti, i calabresi sparsi in Italia (e parecchi anche all’estero). Non dimentichiamoci che con Erasmus sono centinaia gli universitari calabresi attualmente impegnati in studi all’estero. In questo caso, probabilmente, non si pone il problema del rientro – salvo specifiche richieste dei singoli studenti – quanto offrire loro un’assistenza e un conforto per superare la difficile e complicata situazione che il coronavirus ha creato ormai in tutto il mondo.

Il leader del Movimento Diritti Civili Franco Corbelli ha detto che continua a ricevere numerose richieste d’aiuto di parte di genitori, ragazzi e lavoratori rimasti al Nord: «Basta leggere alcuni di questi dignitosi messaggi per capire la loro sofferenza e, in alcuni casi, il loro dramma. È giusto e doveroso farli rientrare subito».

La prima cosa da fare sarebbe allestire un database per raccogliere le richieste di aiuto di studenti e lavoratori: un form, diffuso anche attraverso i social, che permetta in tempi rapidissimi di valutare l’ampiezza del problema. Un questionario semplice che sottintenda un intervento di sostegno e sia il primo passo per organizzare il viaggio di rientro. Non può, né deve essere, una fuga di massa: guai a provocare ulteriori focolai di contagio sui treni o aerei (anche se in atto funziona soltanto l’aeroporto di Lamezia), ma una ordinata e coordinata fila di partenze scaglionate che consentano un flusso controllato di partenze e arrivi. Italia Viva chiede di creare “un corridoio” programmando il rientro  previo test sierologici alla partenza: in un documento si fa presente che sono «tanti anche i giovani lavoratori rimasti senza lavoro e senza cassa integrazione, costretti a vivere con le poche risorse mandate da casa. Sono rimasti nelle loro piccole stanze, perché corretti e rispettosi delle regole che il Governo e la Regione hanno decretato, ma ora in troppi si trovano in grande difficoltà. Non stiamo parlando di “mammoni”, ma di lavoratori e studenti che si trovano da oltre 50 giorni fuori sede, senza poter svolgere la loro funzione naturale, per la maggior parte condividendo stanze con più persone ed adattandosi al meglio in un periodo dove gli spostamenti sono limitati allo stretto necessario. Molti di loro non hanno più risorse, figli di genitori che vivono con apprensione e con pochi mezzi questo distacco. L’appello lanciato in questi giorni da tanti, non può essere sottovalutato diamo una soluzione ai nostri conterranei. Diamo loro modo di tornare con buon senso, ma non aspettiamo che passi l’emergenza per ricordarci di questi ragazzi corretti, ragazzi che non hanno deciso di scappare al sud ma che vogliono sentirsi al sicuro in Calabria nelle loro case e con le loro famiglie».

È un diritto poter tornare a casa propria e ci sono troppe situazioni diventate davvero esplosive. Basti per tutte la storia dell’insegnante di sostegno calabrese, che vive a Milano col suo compagno musicista (ora disoccupato) in un monolocale di 40 mq che costa 900 euro al mese. Claudia, via social, ha lanciato il suo disperato appello alla Santelli: «Non abbiamo più la possibilità di mantenere un affitto qui e viviamo  da 54 giorni in una situazione di disagio, soprattutto a livello psicologico. Ci hanno detto espressamente che questo non è un motivo valido per rientrare a casa, in Calabria il 3 maggio. Qual è allora – chiede alla Presidente della Regione – la motivazione giusta per non incorrere in blocchi e sanzioni?».

Merita pure la massima attenzione la petizione, lanciata via web, dallo studente Antonio Iaconianni diretta al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

«Sono ancora tanti  – si legge nella petizione che si può firmare on line – i giovani meridionali rimasti bloccati al centro nord a causa dei lockdown che si sono susseguiti per l’emergenza sanitaria tesa al contenimento del contagio del Covid-19. Chiediamo che vengano disposte misure urgenti ed indifferibili  per consentire il rientro immediato a casa di tutti gli studenti e di tutti i lavoratori, gli uni rimasti con le Università chiuse e gli altri rimasti senza lavoro, realizzando dei corridoi di sicurezza, con tutte le misure che le attuali norme prevedono, a salvaguardia della tutela di tutti. La richiesta ha carattere di urgenza ed indifferibilità in quanto la tenuta psicologia di questi ragazzi inizia a dare segnali di preoccupazione anche a causa di vere emergenze economiche».

Un altro appello è venuto, in questo senso, dal consigliere comunale di Catanzaro Giuseppe Pisano che fa un’annotazione decisamente interessante: «Un’analisi del Messaggero – ha detto Pisano – ha riflettuto sul fatto che, nel bene o nel male, il coronavirus è riuscito dove i numerosi provvedimenti sul rientro dei cervelli in fuga avevano fallito: riportare in Italia gran parte di quei 250mila giovani che negli ultimi dieci anni sono andati all’estero. Nel Paese più vecchio del mondo, questo straordinario esercito di giovani tornato a casa di fronte all’emergenza potrebbe dare un contributo fondamentale alla ripartenza. Presidente Santelli, valuti bene: questa analisi deve riguardare ancora di più i circa 30mila studenti calabresi fuori sede che non possiamo abbandonare e che devono rappresentare un patrimonio prezioso per la “fase 2”. L’auspicio è che questo impegno venga recepito quale atto di indirizzo in vista dell’approvazione del bilancio della Regione prevedendo uno stanziamento di risorse per le famiglie degli studenti e per chi ha perso il lavoro durante la permanenza lontano dalla Calabria»

Anche il sen. Ernesto Magorno (di Italia Viva), sindaco di Diamante, ha posto il problema: “Spero che la Presidente della Regione, Santelli, si attivi prontamente per organizzare il rientro dei tanti calabresi che si trovano fuori regione. Si tratta di persone che hanno compiuto un atto di amore e responsabilità – dichiara Magorno – rinunciando a passare la Pasqua vicino alle loro famiglie pur di proteggere il nostro territorio».

La parola adesso passa a Jole Santelli. La Presidente continua a sorprendere i calabresi con il efficace pragmatismo e la determinazione con cui affronta i problemi. Gli appelli ci sono, la realtà dei fuori sede è drammaticamente sotto gli occhi di tutti, Presidente li faccia tornare tutti a casa, subito e senza indecisioni.

(s)

Passo indietro del Governo sulle risorse al Sud
La promessa del 34% rischia di non valere più

di SANTO STRATI – Promesse da marinaio: non sapevamo delle frequentazioni marine dell’avvocato del popolo Conte “Giuseppi” (come lo chiama Trump), ma il suo impegno proclamato e conclamato appena pochi mesi fa sulle risorse da destinare al Sud è pronto ad andare in soffitta. Sospesa fino a nuovo ordine la norma – perentoria – che imponeva di riservare il 34% della spesa per gli investimenti al Mezzogiorno. Almeno è quanto prevede un documento riservato della Presidenza del Consiglio, elaborato dal Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica. Nel documento sono presenti alcune proposte per far ripartire il Paese dopo l’emergenza sanitaria. Una ripartenza, che – a quanto pare – va fatta a spese del Mezzogiorno e, ovviamente della Calabria.

A dare l’allarme di questo inspiegabile e illogico passo indietro sono i deputati dem del Mezzogiorno (tra cui i calabresi Enza Bruno Bossio e Antonio Viscomi) che hanno inviato una lunga e arrabbiata nota al Presidente Conte.

I deputati democratici del  Mezzogiorno ritengono «imprescindibile che il Governo mantenga, ribadendola con forza, una linea politica per lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali che da un lato favorisca una pronta ripartenza del proprio tessuto produttivo e dall’altro permetta il recupero progressivo dei divari economici e infrastrutturali con il resto del Paese». A tal fine, – dicono i parlamentari – «consideriamo i seguenti punti come componenti fondamentali e non derogabili di questa strategia:

1. mantenere il vincolo di destinazione territoriale delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) congiuntamente a quelle degli altri Fondi strutturali, al fine di promuovere le politiche per lo sviluppo della coesione sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e infrastrutturali tra le regioni;

2. considerare le risorse di cui al punto 1) aggiuntive rispetto a qualsiasi altro strumento di finanziamento ordinario e/o straordinario, non derogando così al criterio dell’addizionalità previsto per i fondi strutturali dell’Unione Europea;    

3. rispettare la cosiddetta ‘clausola del 34%’ che prevede la distribuzione degli stanziamenti in conto capitale delle Amministrazioni Pubbliche in proporzione alla popolazione nelle varie regioni italiane. Il 34% è, infatti, la percentuale della popolazione residente nel territorio delle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia».

È opportuno far notare che il Presidente Conte, a fine novembre aveva dichiarato che il Governo intendeva dare attuazione «alla nota “Quota 34”, ovvero un criterio di riequilibrio territoriale della spesa per investimenti» riconoscendo che la quota di spesa effettiva del 28% rilevata nell’ultimo decennio si è tradotta «in una vera e propria perdita di risorse per investimenti al Sud, che si riflette anche in quel crollo delle dotazioni infrastrutturali». Quindi il premier per sanare questo squilibrio aveva stabilito, attraverso un’apposita norma in legge di bilancio, che «tutti i programmi pubblici di investimento devono distribuire ex ante le risorse in maniera proporzionale alla distribuzione della popolazione sul territorio».

Magnifica proposizione d’intenti, ribadita peraltro a Gioia Tauro alla presentazione del Piano per il Sud con il ministro Peppe Provenzano.

Quest’ultimo – convinto meridionalista – aveva esposto chiaramente nella sua premessa che «Colmare i divari territoriali non è solo un atto di giustizia, è la leva essenziale per attivare il potenziale di sviluppo inespresso del nostro Paese… L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. Nessuno si salva da solo. La sfida del Sud – aveva detto Provenzano – è la più difficile di tutta la nostra storia unitaria. Ma non è una causa persa… Lo sviluppo e la coesione sono “missioni”. Non riguardano solo i meridionali, ma tutti coloro che sono impegnati nella battaglia per rendere l’Italia un paese più giusto e avanzato. Le istituzioni e i cittadini, la politica e la società devono combatterla fianco a fianco. Consapevoli delle difficoltà, certo, ma anche del mare di opportunità che abbiamo di fronte. Possiamo aprire una nuova pagina. Dobbiamo scriverla insieme».

E il primo passo verso questa “mission” era proprio quel ristabilimento – intoccabile – secondo Conte – del 34& del riparto di spesa da destinare al Mezzogiorno.

Peccato che – come fanno notare i deputati dem nella lettera a Conte – nel documento (alle pagine 129-132) siano «previste due ipotesi di intervento che riteniamo ingiustificate e in grave danno al Mezzogiorno, territorio che rappresentiamo. Nello specifico, – osservano i parlamentari dem – si tratta di una proposta concernente il superamento dell’attuale riparto delle risorse del FSC (80% Mezzogiorno e 20% Centro Nord) per promuovere una nuova redistribuzione che assicuri, evidentemente, una quota maggiore di risorse al Centro-Nord a discapito del Mezzogiorno e di una seconda proposta che riguarda la sospensione (non è specificato per quanto tempo) della norma che prevede di destinare il 34% degli stanziamenti in conto capitale della Pubblica Amministrazione al Mezzogiorno. Con ogni probabilità, anche in questo caso, l’intenzione dell’estensore è quella di ridurre le risorse a favore delle regioni meridionali, assicurandone una fetta maggiore alle altre».

È evidente che l’emergenza coronavirus faccia perdere il controllo anche al più equilibrato dei governanti, ma un minimo di buon senso avrebbe suggerito di immaginare ben altri scenari nella ricerca di soluzioni anti-Covid.

Tanto per dare un’idea del danno che andrebbe a ripercuotersi su tutto il Meridione è interessante ripescare l’interrogazione dello scorso luglio con primo firmatario l’on. Francesco Boccia (attuale ministro delle Regioni) presentata al Governo dai parlamentari dem della coalizione giallo-rossa. Secondo i dati dei conti pubblici territoriali, – evidenziava l’interrogazione – negli ultimi dieci anni la quota di risorse ordinarie in conto capitale della Pubblica Amministrazione al Mezzogiorno è stata in media intorno al 26%, ben 8 punti percentuali in meno rispetto alla percentuale di popolazione residente in quei territori. Ciò si è tradotto in un trasferimento dalle regioni meridionali a quelle del Centro-Nord di circa 4 miliardi all’anno di risorse ordinarie in conto capitale per una perdita complessiva di oltre 40 miliardi nel decennio.

«Dalla lettura di questi dati – si legge nell’interrogazione dei deputati dem eletti nelle regioni meridionali – appare evidente che l’arretramento infrastrutturale del Mezzogiorno, che in larga parte spiega anche il mancato recupero del divario di crescita con le restanti aree del Paese, sia l’effetto inevitabile del taglio delle risorse per la spesa in conto capitale».

Il “marinaio” Conte con il consueto garbo che lo contraddistingue, quando parla al “popolo” si era allargato nel suo entusiasmo del ritrovato meridionalismo: «Sono profondamente convinto – e su questo vi posso assicurare che ho trovato piena consonanza in tutto le componenti di Governo – che abbattere i divari territoriali fra Nord e Sud e fra aree urbane ed aree interne non risponda esclusivamente ad una logica di equità e di corretta redistribuzione delle risorse fra i territori. Riportare il Mezzogiorno su una traiettoria di crescita sostenuta, è una condizione irrinunciabile per garantire lo sviluppo economico dell’intero nostro Paese».

Bene, Presidente Conte, che fa, si rimangia gli impegni? E cosa racconterà ai calabresi, ai meridionali, il buon Provenzano che è rimasto – causa Covid – al palo col suo magnifico Piano per il Sud?

Dirà che il Governo ha scherzato? Attenzione, non è una mano di poker, qui c’è da pensare e ripensare non più alle mille malefatte ai danni del Sud che decenni di cattivo governo (di qualunque colore fosse) hanno provocato, bensì guardare al dopo-Covid.

In un Mezzogiorno che se è stato – grazie a Dio – in gran parte risparmiato dall’epidemia rispetto ai tragici numeri delle tre regioni dell’autonomia differenziata (e soprattutto mancata, per fortuna!), nondimeno ha necessità di far ripartire le aziende, rimettere in moto l’economia reale, con investimenti infrastrutturali, sostegni agli imprenditori, sgravi per incentivare assunzioni e nuova occupazione. E vedersi sottrarre di nuovo risorse finanziarie. Con tutto il rispetto per il disastrato Nord di oggi. Se vi pare poco… (s)

Governo, 325 euro per incentivare il turismo
Ma in Calabria la stagione non è compromessa

di SANTO STRATI – Il neopresidente designato di Confindustria Carlo Bonomi ha parlato ieri di «classe politica smarrita». Ma è smarrito anche l’esecutivo che continua a varare ridicoli provvedimenti per gestire l’emergenza che di sicuro manderanno a picco questo Paese. L’ultima trovata – che ci riguarda come regione tendenzialmente votata al turismo – è l’incentivo di (massimo) 325 euro a famiglia per fare vacanze in Italia. L’equivalente di due pernottamenti in un albergo di 3 stelle per una famiglia di quattro persone. Ma si può pensare di incentivare il turismo “locale” con provvedimenti del genere, riservati peraltro a chi ha redditi trai 7.500 e i 26mila euro. Ma dove vivono i nostri governanti?

Questo insulso “obolo” (crediamo difficile che con tali redditi una famiglia quest’estate possa permettersi più del noleggio di un ombrellone e due sdraio) ci offre però il pretesto per raccogliere gli allarmi che in Calabria stanno arrivando dagli operatori turistici su una stagione che rischia di apparire già da ora compromessa.

E allora visto che dal Governo centrale non c’è da aspettarsi niente di buono in termini di reali incentivazioni (quanto meno dovrebbero essere sospese tasse e tributi a tutto il comparto) occorre che la Regione faccia la sua parte, con un ruolo da protagonista.

Giuseppe Nucera, imprenditore turistico che è stato a capo degli industriali reggini, proprio su queste pagine nei giorni scorsi aveva messo in guardia sulla necessità di cominciare da subito il montaggio e la manutenzione degli stabilimenti balneari, senza aspettare l’ultimo momento per dare il via libera ai lavori.

Secondo il decreto Cura Italia tocca al presidente di Regione stabilire le attività ammesse e i codici Ateco degli stabilimenti balneari non risultano autorizzati. «La presidente Jole – dice Nucera – deve fare subito l’ordinanza, entro lunedì al massimo, per far partire i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture turistiche, diversamente sarà troppo tardi e agli imprenditori non resterà che tenere serrati gli impianti. Altre regioni hanno già provveduto, perché la Calabria ritarda?»

«Ad oggi non sono stati ancora autorizzati i lavori di ripristino e sistemazione delle strutture balneari»: è scettico sui tempi l’imprenditore turistico Pino Falduto. «30 giorni prima dell’apertura tradizionale della stagione, del 1° maggio, andava comunicato l’inizio dei lavori, e già siamo in grave ritardo: rischiamo di avere cantieri aperti in una stagione già si annuncia peraltro imprevedibile».

In Calabria ci sono 2500 stabilimenti con oltre 20mila unità lavorative. Nucera – che da imprenditore e politico (guida il movimento La Calabria che vogliamo) è abituato prima a fare e poi a parlare, ha indicato espressamente che «serve una deroga che conceda agli stabilimenti balneari maggiori spazi e aree di concessione demaniale». Ma per gli interventi servono aiuti e provvidenze, non promesse e crediti d’imposta: bisognerà prevedere sostegni adeguati per affrontare una stagione che – se tutto va bene – viaggerà a scartamento ridotto, molto ridotto. È facile prevedere un abbattimento superiore al 50% delle presenze e dei ricavi, considerando però che i costi saranno identici a quelli di una stagione tradizionale.

Si tenga, inoltre, presente che in condizioni normali, la programmazione delle vacanze al mare avrebbe già dovuta essere avviata da metà marzo, ma siamo in piena emergenza e nessuno è in grado di immaginare il prossimo scenario dei mesi estivi. E allora è necessario mettersi subito al lavoro prevedendo sin da ora tutte le possibili opzioni per garantire la tenuta del comparto.

Le nostre bandiere blu (che segnalano un mare pulitissimo) e la contenuta diffusione del virus nella regione possono costituire un reale incentivo a scegliere la Calabria per l’eventuale (e auspicabile) periodo di vacanze al mare. La Calabria – come hanno suggerito gli operatori della Riviera e Borghi degli Angeli del basso jonio catanzarese anche su queste colonne – dovrebbe diventare una regione Covid-free in termini di marketing turistico.

L’ex consigliere regionale Candeloro Imbalzano, che in passato ha guidato la commissione Bilancio della Regione, ha lanciato un’idea di grande suggestione alla presidente Santelli: rimodulare la programmazione dei fondi europei  2014-2020 e farsi autorizzare per il settore turistico parte significativa delle imponenti risorse fin qui non spese. Con la necessità di costituire un Fondo Speciale Europeo per il Turismo sul modelli dei fondi Fesr.

L’assessore Fausto Orsomarso, che ha anche la delega al Turismo, ha già dato assicurazione ai gestori dei lidi dall’alto Jonio – peraltro danneggiati gravemente dalle mareggiate dello scorso dicembre – per questa difficile stagione e sta predisponendo una serie di iniziative regionali che riguardano tutti gli operatori del settore.

«Noi guardiamo con fiducia – ha detto Orsomarso – alla possibilità di poter recuperare parte della stagione estiva 2020,  prevedendo una ripresa graduale almeno a metà giugno e adeguando le attività alle eventuali misure di distanziamento sociale che saranno ancora in atto».

Non si può, ovviamente, decidere da soli: «anche in Calabria – ha rilevato l’assessore Orsomarso – vogliamo supportare le proposte avanzate a livello nazionale, che prevedono la possibilità per gli operatori di accedere alle strutture balneari e alle spiagge per prepararle e attrezzarle in vista della ‘fase 2’ e la necessità di dare una chiara indicazione ai Comuni  affinché  vengano estese  le concessioni al 2033 per dare certezza alle imprese e consentire l’utilizzo degli strumenti del Dl liquidità».

Decreto di cui, peraltro,  abbiamo ampiamente criticato l’inefficacia e la scarsa applicabilità per le piccole e medie imprese.

È uno scenario imprevedibile quello che si va prefigurando e l’aspetto non meno rilevante è la caduta di reputazione della regione, per gli “interventi” della mafia che in molti paesi del Mezzogiorno si è sostituita allo stato negli aiuti per le famiglie e le imprese.

Certamente, va considerato che non si prospetta un’estate di grandi numeri, soprattutto dall’estero, ma già recuperare, ovvero attrarre nuovi flussi italiani verso le nostre splendide località marine e montane sarebbe un primo passo per affrontare la crisi e pensare al dopo.

Come si farà a conciliare balneazione, ricettività e ristorazione con le limitazioni imposte dal coronavirus?

La distanza tra i soggetti è l’unica terapia di prevenzione che, in qualche modo, ha dato risultati, ma non si può immaginare una spiaggia con ombrelloni separati da pareti di plexiglas, come bizzarramente ha proposto un’azienda in cerca di un quarto d’ora di notorietà. La formula vincente potrebbe essere quella di garantire intanto la perfetta igiene degli ambienti (alberghi, ristoranti, ritrovi) con continue sanificazioni e quindi prevedere una diversa sistemazione, in spiaggia, di ombrelloni e sdraio. Difficile immaginare la gente in costume con la mascherina, ma se fosse necessario per salvaguardare (pur con lecite perplessità) i bagnanti dal rischio di trasmissione del virus, dovranno dirlo le autorità sanitarie. Non è questo il punto. Il vero problema riguarda la redditività delle imprese turistiche e non soltanto balneari. Se sarà necessario contingentare l’accesso ai ristoranti, con tavoli distanziati fino a dimezzare la capienza, e nei bar limitare il servizio al tavolo, siamo sicuri che i gestori saranno in grado di far quadrare costi e ricavi? I costi saranno quelli di sempre, anzi no, aumentati perché c’è un incontrollato rialzo dei prezzi nelle materie prime di consumo (zucchero, caffè, bibite, ecc), ma i ricavi saranno dimezzati. Come può un ristoratore o il proprietario di un bar affrontare una stagione dove la rimessa è, con buona probabilità,  pressoché garantita?

In questo senso, la Regione, l’assessorato al Turismo e quanti altri possono essere coinvolti, dovranno immaginare una sorta di aiuto economico a sostegno delle attività in crisi che permetta di superare la contingenza di un anno da dimenticare e pianificare, un po’ più serenamente, il futuro. (s)

Disinformazione e fake news: l’altro contagio.
Il ruolo dell’Agcom, l’Autorità Comunicazioni

di ALDO MANTINEO – Un sistema dell’informazione “strutturata” decisamente più maturo, che ha imparato – e sta continuando a farlo – “come rapportarsi al ruolo della conoscenza scientifica e come la ricerca di sensazionalismi danneggi la società nel suo complesso”. È la fotografia della complessa “industria” delle news così come, verosimilmente, verrà fuori dal tunnel di questa pandemia che ha letteralmente stravolto consolidate certezze, a ogni livello, e creato pericolosi vuoti che troppi provano a colmare non senza approssimazione. È un’analisi che si muove tra le poche (provvisorie e mutevoli) certezze che oggi la conoscenza scientifica riesce ad offrire sul coronavirus e la straordinaria abbondanza di informazioni che vengono riversate, attraverso ogni canale – più o meno codificato –   nella nostra quotidianità quella di Antonio Nicita, siracusano, docente di politica economica alla Lumsa e, da gennaio 2014 commissario dell’Agcom, l’Autorità per le Garanzia nelle Comunicazioni, occupandosi in maniera più specifica di infrastrutture e reti. Autore di numerosi saggi, Antonio Nicita aveva lasciato il suo incarico all’Agcom al quale era stato chiamato dal Parlamento a novembre del 2013 in quanto il mandato era già scaduto ed era stato prorogato una prima volta. L’esplodere dell’emergenza coronavirus ha indotto il presidente dell’Agcom a chiedere a Nicita di congelare le proprie dimissioni per continuare a dare il proprio contributo di idee, progetti, analisi e proposte in un momento nel quale anche l’intero sistema dell’informazione è chiamato a svolgere con – se possibile – ancora maggior senso di responsabilità, il proprio ruolo.

– Professore, sull’emergenza coronavirus (in tutti i diversi aspetti nei quali viene declinato) in giro c’è tanta buona e puntuale informazione così come se ne trova anche molta altra quanto meno discutibile. Non direi, invece, che ce ne sia troppa come si argomenta da qualche parte. Il problema non è, semmai, che c’è una diffusa scarsa capacità di valutare e “pesare” le diverse notizie (non sempre tali…) che scorrono incessantemente sotto i nostri occhi sugli schermi di tutti i device dei quali non sappiamo più fare a meno? La corsa alla condivisione, che sembra essere l’unica “regola” alla quale attenersi nel mondo dei social, ha acuito questa diffusa difficoltà di analisi dei singoli contenuti?

«Distinguiamo innanzitutto l’evoluzione della conoscenza su questo nuovo virus e l’informazione sulla conoscenza disponibile. Dalla metà del mese di gennaio le notizie hanno ‘inseguito’ le conoscenze scientifiche del fenomeno e queste sono state, inevitabilmente, provvisorie e talvolta contraddittorie. I dati su cui è stata costruita la nostra conoscenza scientifica del fenomeno, cosi come comunicata dall’Oms, si sono basati soprattutto sul caso cinese. Sapremo, con il tempo, se quei dati hanno fotografato solo una parte di un fenomeno più ampio, in termini numerici. Il punto è che, basandosi su quei dati, il Governo italiano ha attuato misure di prevenzione nella convinzione che non ci fossero stati i tempi per una epidemia in loco. Ciò ha fatto si che l’informazione ci abbia raccontato un virus d’importazione, l’attenzione ai rapporti con persone che provenivano dalla Cina, circostanza che in alcuni casi ha anche generato pregiudizi e sospetti nei confronti della comunità cinese in Italia. Ciò ha comportato che non fossero indagate molte persone con sintomi ricoverate negli ospedali. Poi abbiamo drammaticamente scoperto che il virus stava già in Italia da molto tempo e vi sono stati approcci contraddittori tra il virus come influenza e il virus come epidemia ad alta letalità. L’informazione è stata corretta ma ha dovuto seguire conoscenze incomplete e in continuo aggiornamento. L’informazione sul virus è stata tanta, le emittenti televisive hanno dedicato oltre il 50% delle notizie al tema. Ma ovviamente su questa incertezza ha anche proliferato la disinformazione, inclusa quella organizzata”.

– Nodo fake news. Di recente anche l’Unione Europea si è mobilitata e nei suoi rapporti parla anche di una massiccia immissione di notizie false – create in ambienti politici precisi e in contesti geografici ben individuati – che nelle prime settimane del dilagare in Europa dalla pandemia hanno avuto come bersaglio specifico Paesi come l’Italia. Una dimensione Internazionale del fenomeno che fa il paio con quella più domestica che si concretizza in un flusso quotidiano, incessante, di false notizie che si inseguono di chat in chat… come giudica questo fenomeno dal suo osservatorio dell’Agcom?

«La Commissione Europea ha avviato subito un atto di indirizzo, ma l’Agcom ha anticipato con un proprio richiamo a tutte le emittenti radio-tv, la Commissione Europea. Il tema non ha riguardato soltanto il web ma anche talune trasmissioni televisive nazionali e alcuni programmi di televendita di prodotti para-farmaceutici anche su emittenti private. Agcom ha fatto uno studio sulle principali dieci notizie false riguardanti il coronavirus e ha misurato, con un proprio algoritmo, l’esplosione nei mesi di febbraio e marzo, della disinformazione online. I siti che da molti fact-checker vengono indicati i come produttori di disinformazione hanno dedicato quasi il 40% della propria disinformazione al coronavirus. Alcuni studi stranieri mostrano come la bufala che mostrerebbe correlazioni tra il 5G e il coronavirus proviene da siti ben organizzati stranieri, con le stesse modalità che in passato hanno riguardato meccanismi di disinformazione durante le elezioni in alcuni Paesi. Segno che c’è chi elabora strategie id disinformazione, puntando sulla paura e sulla preoccupazione delle persone, per fini di destabilizzazione, alimentando la sfiducia nelle istituzioni».

– L’Agcom è intervenuta in più occasioni anche sanzionando comportamenti irregolari… 

«L’Autorità ha richiamato alcune emittenti nazionali per la superficialità con la quale hanno contribuito a rilanciare alcune notizie false, ad esempio quella circolata su Facebook in relazione agli effetti “miracolosi” di un farmaco utilizzato in Giappone che poi si è scoperto non essere ancora oggetto di sperimentazione in quel Paese, in quanto, come ha dimostrato un report del Corriere della Sera, quel tipo di farmaco sarebbe ancora in una fase di definizione di protocolli. L’Autorità ha anche deciso di sospendere per sei mesi, ai sensi della normativa vigente, l’attività di talune trasmissioni di sedicente informazione scientifica in realtà aventi natura di televendita di prodotti parafarmaceutici. Infine l’Autorità ha rivolto un atto di indirizzo anche alle piattaforme online, finché, con la loro autoregolamentazione, possa no contrastare questo tipo di fenomeni».

– Nella battaglia per affermare il primato di un’informazione ancorata a dati oggettivi, verificati, che aiuto può venire dal mondo dell’intelligenza artificiale? Che ruolo stanno già avendo oggi i big data nel modo di produrre informazione? Adesso si punta, tra l’altro, su un progetto che utilizza proprio whatsapp  per verificare l’attendibilità di una notizia: che risultati stanno maturando? Qual è lo scenario che si profila?

«Sicuramente, gli algoritmi cosi come svolgono un ruolo nel proporre determinati tipi di contenuti e di disinformazione proprio a quei soggetti che mostrano più attenzione e interesse a questo tipo di contenuti, cosi possono evitare fenomeni di polarizzazione. Sono allo studio diversi meccanismi, da parte delle piattaforme, per identificare questo tipo di strategie e contrastarle. Agcom non ha al momento alcun potere sulle piattaforme online, ma ha aperto tavoli di confronto rispetto all’autoregolamentazione che le piattaforme online si sono date. All’interno di questo tavolo è partito un progetto molto interessante con WhatsApp per il quale l’utente può rivolgere a un numero di WhatsApp che corrisponde ad un fact-checker scelto dalla piattaforma, i contenuti che ha ricevuto sul coronavirus per sapere se gli stessi sono stati oggetto di factchecking. È un esperimento importante perché si fonda sulla consapevolezza e la capacità critica dell’utente anziché sulla eliminazione della notizia, facendo quindi salva la libertà di espressione, anche quando essa di fatto è solo lo strumento privilegiato degli strateghi della disinformazione”.

– Spingiamoci avanti con lo sguardo, al momento in cui la pandemia sarà alle nostre spalle. Come immagina che sarà, in quel momento, il sistema dell’informazione? Il fruitore medio dei contenuti di informazione, indipendentemente dallo strumento che utilizzerà, lo immagina più avvertito è consapevole di quanto non sembra lo sia oggi? Che ne sarà dell’editoria tradizionale (giornali, tv generalista e radio)?

«Dipende da noi. Questa vicenda drammatica del coronavirus deve farci capire che la conoscenza scientifica non ha la verità in tasca ma procede, con umiltà, alla verifica di ipotesi ed è quindi lo spazio più protetto e sicuro nel quale avviare il dibattito e il progresso delle provvisorie verità scientifiche. Le fake news invece ci offrono certezza e sicurezza, ma proprio per questo dobbiamo dubitarne. Chi ci offre complotti e sospetti sta parlando alla nostra pancia affinché la nostra testa smetta di pensare. Credo che tutta l’informazione abbia imparato come rapportarsi al ruolo della conoscenza scientifica e come la ricerca di sensazionalismi danneggi la società nel suo complesso. C’è una domanda di informazione di qualità e occorrono politiche di sostegno al lavoro e alla missione del giornalismo autentico che non cerca facili risposte e che aiuta il cittadino a ragionare con la propria testa senza cercare il conforto dei complottisti o dei facili profeti». (am)

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