QUEL PIANO DI BILANCIO INADEGUATO PER
LE REALI ESIGENZE DI CRESCITA DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – È cominciato il rito delle audizioni. Dinanzi alla Camera dei Deputati è stato sentito il 7 ottobre il capo del Dipartimento di Economia e Statistica di Banca d’Italia, Sergio Nicoletti Altimari, per esaminare il Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025 2029, che con un acronimo difficilissimo viene chiamato (PSBMT).

L’8 ottobre, presso la Sala del Mappamondo di Montecitorio, le Commissioni Bilancio di Camera e Senato, nell’ambito dell’attività conoscitiva preliminare all’esame del Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine 2025-2029, si è svolta l’audizione del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti.    

Si è trattato di illustrare i dati fondamentali per un periodo estremamente lungo: cinque anni. La Commissione Europea vuole vederci chiaro sui progetti dei vari Paesi dell’Unione, dopo la parentesi del Covid, nella quale si è proclamato il “liberi tutti”. I temi fondamentali riguardano il debito pubblico accumulato negli anni e la sua sostenibilità, il deficit annuale, il saldo primario, le riforme necessarie che allineano i percorsi di tutti i Paesi dell’Unione, tipo la Bolkstein, l’incremento atteso del Pil e dell’occupazione. 

È un vero e proprio quadro di cosa sarà il Paese nel  periodo prossimo considerato e quindi alla fine dei cinque anni. Ma non può essere un libro dei sogni perché le poste che si presentano devono essere coerenti tra di loro ed effettivamente realizzabili. Il grande rischio che si corre è, però, che in tutte le audizioni previste ci si addentri  nelle singole poste con molta precisione e si perda di vista il quadro generale. In particolare questo problema esiste per il Mezzogiorno che di questo progetto o piano strutturale vorrebbe conoscere gli elementi fondamentali che riguardano il suo futuro. 

Tra questi quelli che interessano maggiormente sono il numero di posti di lavoro che saranno creati nel periodo considerato nell’area.  Anche in tutto il Paese, cosa altrettanto importante, ma maggiormente nelle realtà meridionali, nelle quali le esigenze sono più importanti.

Infatti la quantità di persone che dovranno andar via per cercare una ipotesi di futuro altrove, i figli e i nipoti che potranno rimanere accanto ai loro genitori e ai loro nonni, dipenderà da quel rapporto occupati popolazione che continua ad essere al Sud di una persona su quattro.

Il 36,2 per cento della domanda di lavoro sarà innescata nelle Regioni del Mezzogiorno, con la Campania (68.194 unita) e la Sicilia (56.031 unita), che coprono il 17,5 per cento della domanda di lavoro generata dal Pnrr. Cosi recita il Piano. 

Ma questa è una dichiarazione di sconfitta assoluta. Perché anche se il numero globale di saldo occupazionale fosse nei cinque anni prossimi vicino ai 500.000, e dalle previsioni del piano siamo assolutamente distanti da questi numeri, saremmo molto lontani dalle esigenze effettive che il Mezzogiorno ha per arrivare a un rapporto popolazione occupati simile a quelle delle aree sviluppo a compiuto. Quel benchmark di riferimento che è l’Emilia-Romagna, nella quale il rapporto é vicino all’uno a due. 

Altimari, per esempio nella sua audizione ha riconosciuto l’importanza del Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025-2029, nel quadro della nuova governance economica europea, approvata nell’aprile 2024, che prevede l’impegno dei Paesi membri con un elevato debito pubblico, come l’Italia, a intraprendere un percorso di riduzione del rapporto debito/Pil. E nessuno può pensare di non concordare su tale importanza. 

Ma vogliamo anche dire che il Piano prevede che, anche in costanza in parte degli effetti del Pnrr, la situazione non muterà  rispetto alla domanda di posti di lavoro necessaria per il Mezzogiorno? 

Vogliamo dire che la Zes unica, succeduta alle otto Zes, nel piano è ritenuta un fallimento visto che l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, per la quale è stata concepita, alla fine non crea quei posti di lavoro che nessuno mai si è azzardato di quantificare adeguatamente? Oppure si ritiene che i vari temi  vadano ognuno per la propria strada e siano indipendenti? Certo il Vangelo dice che è bene che la destra non sappia quello che fa la sinistra, ma in quel caso si parlava di elemosina, di fare del bene. Qui invece si analizzano  tutti gli aggregati macroeconomici, cercando di farli rimanere all’interno del range che l’Unione ritiene opportuno, ma alla fine non vi è una parola chiara sul fatto che con questi dati del Piano si prevede che perduri quel percorso che si è avuto fino ad adesso e che vede piccole crescite sia del Pil che degli occupati, certamente inadeguate rispetto alle esigenze.

Nessun  salto di qualità, nessuna crescita particolare, nessun recupero di ritardo previsto. È tutta la saggistica sul Mezzogiorno batteria d’Europa, sul Mediterraneo centrale per il prossimo futuro, sul Sud nuova opportunità e locomotiva del Paese, rimangono per le prossime grida manzoniane. 

Grida che  serviranno  per le  future campagne elettorali, per illudere i meridionali che qualcosa cambierà finalmente, in termini occupazionali, in termini di diritti. 

Il Piano dice invece quello che effettivamente avverrà con tutti i vincoli dei quali non si può tener conto a cominciare dall’enorme debito pubblico che ci fa pagare interessi importanti che sottraggono risorse agli investimenti possibili. Debito pubblico che, visto lo stato della infrastrutturazione del Mezzogiorno, nasce anche dalle grandi opere che sono state fatte in una sola parte del Paese. O dagli aiuti che sono dati alla parte produttiva che certamente nella sua maggiore dimensione è localizzata al Nord. 

Nemmeno l’opposizione evidenzia in modo adeguato le carenze del Piano, perché segue le logiche delle audizioni, perdendosi spesso nei dettagli e perdendo di vista il quadro complessivo.  

Ma è evidente che il Piano previsto forse è l’unico possibile se si tiene  conto dei condizionamenti esistenti, di realtà consolidate che non possono essere ignorate, di un appesantimento di una struttura amministrativa burocratica centrale che certo non può essere sfoltita e alleggerita in modo rapido.  La cosa più facile è il percorso degli anni passati, andare piano. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

L’OCCASIONE PERDUTA DI BAKER HUGHES
SFUMATO L’INVESTIMENTO A CORIGLIANO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – B

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ker Hughes ha rinunciato a investire nel Porto di Corigliano Rossano. Sfuma, così, l’ennesima opportunità di sviluppo di un territorio che ha un’insaziabile fame di lavoro, ma anche di riscatto e di rilancio di un’area portuale non valorizzata quanto dovrebbe.

Una «difficile ma inevitabile decisione», ha spiegato l’azienda che in Italia opera principalmente attraverso la società Nuovo Pignone, provocata «dall’incertezza legata ai tempi di sviluppo, rallentati da un ricorso dell’Amministrazione comunale di Corigliano-Rossano, e quindi il venire meno delle condizioni temporali necessarie per realizzare il progetto come inizialmente concepito, inclusa la concentrazione di tutte le attività in un’unica area idonea ad ospitarle, cioè la banchina».

«Baker Hughes l’ha assunta con grande rammarico – prosegue la nota – nonostante le risorse impiegate e il grande impegno dedicato nel corso dell’ultimo anno e mezzo al confronto e all’ascolto degli attori del territorio: istituzioni, parti sociali e società civile. A fronte di questa mancata espansione in Calabria, e per poter rispondere alle esigenze dei clienti nei tempi appropriati, Baker Hughes sta valutando soluzioni interne di medio termine per garantire la continuità del proprio business».

E, mentre i progetti a Corigliano Rossano sono sfumati, l’Azienda ha confermato, invece, che «gli investimenti annunciati nel proprio stabilimento di Vibo Valentia, che consentiranno di potenziarne la capacità produttiva e realizzare nuove infrastrutture, a testimonianza del ruolo della Calabria nelle strategie aziendali e nella filiera globale di Baker Hughes».

«L’azienda riconosce e apprezza l’impegno, la disponibilità e la collaborazione offerte al progetto nelle numerose e frequenti interazioni da parte di Regione Calabria, Autorità di sistema portuale dei Mari Tirreno Meridionale e Ionio, Zes, Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Confindustria, organizzazioni sindacali e quanti altri siano stati coinvolti nel percorso», conclude la nota.

«Al di là di un incomprensibile e ingiustificato formalismo procedurale, la verità è che la Giunta Comunale ha dimostrato, nei fatti, che non voleva l’insediamento industriale in un porto deserto da 40 anni, condannandolo ad altri 100 anni di solitudine», ha commentato il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale dei Mari Tirreno Meridionale e Ionio, Andrea Agostinelli, ribadendo come l’Autorità di Sistema «aveva fortemente voluto, con l’appoggio convinto della Regione, degli industriali, di tutto il fronte sindacale e anche della società civile», un progetto che avrebbe portato tra Vibo Valentia e Corigliano-Rossano, la creazione di duecento nuovi posti di lavoro, indotto, sviluppo, riqualificazione industriale di un intero quadrante.

Per Agostinelli, dunque, «hanno detto no ad un’imperdibile occasione di sviluppo nel pieno rispetto della sostenibilità ambientale. Hanno detto no a 200 posti di lavoro e a 200 giovani che da domani prenderanno la via del Nord per cercare la propria occupazione. Chi non ha voluto che questo progetto si insediasse nel Porto di Corigliano Calabro, si goda questa tragica vittoria».

A puntare il dito contro l’Amministrazione comunale di Corigliano Rossano è anche il presidente della Regione, Roberto Occhiuto: «ha da sempre avuto un atteggiamento ostativo nei confronti di questa multinazionale che aveva deciso di scommettere sulla Calabria.
Sono amareggiato, quasi sconfortato».

«Sto facendo di tutto per attrarre investimenti, per creare opportunità, per raccontare alla comunità nazionale e internazionale una Calabria nuova, che ha voglia di crescere, di competere e di mettersi in gioco», ha spiegato il Governatore, ricordando che incontra quotidianamente imprenditori, decisori, politici e istituzioni.

«Qualcuno, invece – e mi piacerebbe conoscere a tal proposito l’opinione dei sempre loquaci rappresentanti dell’opposizione in Consiglio regionale –, si diletta a fare il ‘signor no’ di professione – ha concluso – distruggendo senza alcuna ragione ciò che altri faticosamente provano a costruire.Un comportamento davvero incomprensibile»-

«Fa male, dopo aver profuso tanto impegno per creare un contesto favorevole ad un insediamento produttivo significativo, come quello proposto da Baker Hughes nel porto di Corigliano Rossano, vedere svanire l’opportunità di un investimento da 60 milioni di euro che avrebbe potuto cambiare le sorti di un intero territorio», ha commentato l’assessore regionale allo Sviluppo Economico, Rosario Varì.

«In Calabria c’è un governo regionale, guidato dal presidente Occhiuto – ha ricordato – che lavora quotidianamente per attrarre investimenti, fonti di crescita, sviluppo e ricadute occupazionali per i nostri giovani. C’è poi un’altra parte politica che, invece, lavora nella direzione opposta, condannando i territori che amministra all’oblio e facendo scappare aziende e opportunità».

Sulla vicenda è intervenuto il sindaco Flavio Stasi, ribadendo la necessità di fare chiarezza: «purtroppo, a differenza di chi racconta altro, paghiamo il fatto che da 30 anni il nostro Porto sia colpevolmente sprovvisto di pianificazione ed il Comune non poteva dare alcuna conformità urbanistica, se non violando le norme».

«Lo sapete che, nonostante questo – ha proseguito il primo cittadino – l’investimento aveva da mesi una autorizzazione valida a tutti gli effetti? Questo perchè il Comune non ha mai chiesto alcuna “sospensiva”, ma attende da un anno una proposta di pianificazione o una nuova conferenza dei servizi. Una proposta l’abbiamo persino fatta noi, senza risposta».
«Continuiamo ad essere disponibili a trovare soluzioni condivise che garantiscano l’investimento e la compatibilità con un piano di sviluppo complessivo del Porto – ha concluso – intervenendo anche nella zona industriale ed assicurando che quello di Schiavonea non diventi un porto totalmente industriale. Ovviamente nel rispetto delle procedure e delle vocazioni del territorio».

I segretari generali di Cgil Pollino Sibaritide Tirreno, Cisl Cosenza e Uil Cosenza, rispettivamente Giuseppe GuidoGiuseppe LaviaPaolo Cretella, hanno definito la rinuncia di Baker Hughes come «una notizia non certa inaspettata, motivata dall’azienda dal ricorso presentato dal Comune che ha rallentato e bloccato le fasi autorizzative e di realizzazione dell’investimento».

«Abbiamo sempre sostenuto, unitamente alle federazioni di categoria – hanno spiegato – la bontà dell’investimento per le sue ricadute occupazionali, circa 200 posti di lavori, per l’indotto che sarebbe stato generato e per le competenze che sarebbero state trasferite sul territorio. I nostri appelli rivolti all’amministrazione comunale e al Sindaco sono caduti nel vuoto. Il Consiglio Comunale non ha trovato il tempo di discutere di un argomento così importante, anche dopo una conferenza dei capigruppo aperta alle forze sociali, nella quale come Cgil, Cisl e Uil, abbiamo spiegato le ragioni del nostro si all’investimento. Un’occasione persa per il territorio. Hanno vinto le associazioni senza associati, i Presidenti del nulla. Hanno vinto le sindromi di nimby e nimto. Non nel mio giardino, non nel mio mandato elettorale. Ha vinto il nostro autolesionismo. Un investimento pienamente compatibile con le altre vocazioni della struttura portuale: pesca, commercio, diporto».
«Noi lo ripetiamo, affidare il nostro futuro soltanto alle sorti magnifiche e progressive di agricoltura e pesca, settori pur importanti, è un errore strategico – hanno ribadito –. L’investimento era ed è pienamente compatibile con queste vocazioni. Se ci fosse un solo spiraglio di riaprire la partita, tutti, nessuno escluso, dovrebbero coglierlo; il nostro è un appello accorato a tutte le Istituzioni che richiamiamo al senso di responsabilità nell’interesse di una comunità che ha fame di lavoro dignitoso. In attesa di decine e decine di navi da crociera, che sono lì, alla rada, e che aspettano solo di entrare nel Porto». (ams)

UNA CAPITALE REGIONALE DELLA CULTURA
BELL’IDEA PER MOTIVARE I PICCOLI CENTRI

di FABRIZIA ARCURIParte da Belvedere Marittimo un’importante iniziativa volta a valorizzare il patrimonio culturale della Calabria: l’istituzione del titolo di ‘Capitale Regionale della Cultura’. Durante l’ultimo Consiglio Comunale, riunitosi di recente, è stata approvata all’unanimità la proposta da presentare alla Regione Calabria.

Questo ambizioso progetto, promosso dall’assessore alla Cultura, Istruzione e Politiche Sociali della cittadina tirrenica, Raffaela Sansoni, mira a valorizzare il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico della Calabria, ispirandosi a modelli di successo adottati in altre regioni italiane, come Veneto e Puglia. L’iniziativa punta a favorire uno sviluppo culturale e turistico sostenibile, allineandosi con la visione strategica regionale e comunale, che pone la cultura al centro della crescita dei territori e della regione.

L’Assessore Sansoni ha espresso grande soddisfazione per l’approvazione unanime dell’iniziativa, evidenziando il potenziale di questo progetto. «Con questa proposta – ha dichiarato – intendiamo dare il via a un progetto che possa coinvolgere l’intera Calabria, mettendo in luce la straordinaria ricchezza culturale e paesaggistica delle nostre città e borghi. Ogni anno, i comuni calabresi potranno candidarsi per ottenere il titolo di ‘Capitale Regionale della Cultura’, presentando progetti culturali che rappresentino l’identità, la storia e le tradizioni del nostro territorio. Si tratta di un’importante opportunità per promuovere una visione della Calabria come terra di cultura, arte e innovazione, e non solo come destinazione turistica stagionale».

La proposta di ‘Capitale Regionale della Cultura’, seguendo l’esempio della Capitale Italiana e Europea della Cultura, rappresenta un’occasione unica per stimolare non solo lo sviluppo culturale, ma anche la coesione sociale e l’inclusione. In questo modo, il patrimonio culturale diventa un motore di crescita economica e di benessere per le comunità locali.

Il progetto prevede che la Regione Calabria, attraverso un bando pubblico, selezioni annualmente una città calabrese a cui verrà attribuita la designazione. Quest’ultima dovrà dimostrare la capacità di realizzare un programma culturale di alto profilo, in grado di coinvolgere la cittadinanza e attrarre visitatori a livello nazionale e internazionale.

«La cultura rappresenta un elemento fondamentale per lo sviluppo sostenibile dei nostri territori – ha sottolineato Raffaela Sansoni –. Questo progetto ambizioso permetterà ai comuni di mettersi in gioco, di arricchire la propria offerta culturale e di collaborare con le istituzioni regionali, nazionali ed europee per attrarre nuove risorse e opportunità. Gli stessi non solo beneficeranno di una grande visibilità, ma contribuiranno anche a dare nuovo slancio all’intera regione. Questo riconoscimento avvierà, infatti, un percorso di espansione e consolidamento delle realtà culturali locali».

L’Assessore ha poi aggiunto: «Uno degli elementi chiave di questa iniziativa è il coinvolgimento delle comunità locali. Non si tratta solo di proporre eventi culturali, ma di creare un percorso condiviso che parta dal basso, con il contributo delle associazioni, delle scuole e delle imprese locali. Chi si candiderà dovrà dimostrare non solo di avere un patrimonio culturale da valorizzare, ma anche di saper coinvolgere la popolazione in un processo di partecipazione attiva. Questo favorirà un senso di appartenenza e di identità, elementi fondamentali per un progresso culturale».

Si tratta dunque di una vera e propria proposta di legge che stabilisce requisiti e criteri di selezione e si inserisce in una visione di lungo termine volta a promuovere una Calabria inclusiva, innovativa e competitiva. L’istituzione del titolo di ‘Capitale Regionale della Cultura’ consentirà infatti di mettere in rete i comuni calabresi, valorizzando le specificità di ciascuno e creando nuove opportunità di crescita non solo in termini culturali, ma anche turistici ed economici.

L’Assessore alla Cultura ha concluso affermando con grande fervore: «Ci auguriamo che la Regione Calabria accolga con favore questa iniziativa e che altri enti locali si uniscano a noi in questa visione ambiziosa. La cultura rappresenta la nostra risorsa più preziosa; se sapremo valorizzarla adeguatamente, avremo l’opportunità di costruire un futuro arricchente non solo per le nostre comunità, ma per l’intera regione. Insieme, possiamo trasformare la Calabria in un faro di cultura, innovazione e progresso». (fa)

CALABRESI E CALABRIA DEI TANTI PERCHÉ
E LO SMISURATO SENSO DI APPARTENENZA

di ORLANDINO GRECO – «Il calabrese è educato e sempre disponile. Chi altro parte dalla propria Terra per realizzarsi altrove, ed è pronto ad una nuova vita portandosi dietro l’educazione sempre presente dei propri genitori?»

È stata questa una delle frasi che ho sentito  con più vigore durante un incontro con alcuni importanti imprenditori milanesi e romani. Una sorta di mantra sulla Calabria e su i suoi figli che partono per il mondo e si realizzano.

Le nostre individualità inserite in contesti diversi diventano un’epifania di competenza e professionalità, a prescindere dai settori nei quali sono inseriti.

In fondo, siamo pur sempre la Terra dove la storia ha fatto il suo cammino, sempre immersa negli splendori della Magna Grecia con la scuola pitagorica che è diventata un’istituzione in tutto il globo. La Terra di Telesio; di filosofi e grandi personaggi storici.

Ma siamo anche la Calabria dei tanti perché, suddivisa in tempi antichi in Ulteriore e Citeriore, una divisione non solo geografica ma anche di usi, costumi, linguaggio e tradizione. Una regione così grande che ha in sé, un caleidoscopio di ricchezze e tesoro inestimabile.

E, proprio grazie a questa sua estensione territoriale, la Calabria e i calabresi hanno difficoltà ad essere un tutt’uno solido perché troppo distanti da essere popolo, nonostante ci sia un calabrese a rappresentarci in ogni angolo del mondo. E lo fa in ragione della sua forza, del suo smisurato senso di appartenenza ad una Terra bella e misteriosa ma capace di creare un legame forte ed indissolubile con le proprie radici e la propria storia millenaria.

Il calabrese è educato, lavoratore instancabile e persona perbene che riesce ad essere un valore aggiunto ovunque vada, tra un legame  forte alla famiglia e un alto senso del dovere. Rispetto per l’amicizia e per l’ospite, comunità inclusiva ed accogliente, comunità di persone generose che molte volte peccano per un pernicioso individualismo.

È l’essenza del nostro dna che diventa patrimonio collettivo di un popolo ancora in divenire e sempre con le radici ben piantate sulla propria Terra: Mamma Calabria e i suoi figli educati e perbene.  (og)

SPOPOLAMENTO E INVERNO DEMOGRAFICO
LA CALABRIA STA PERDENDO LA SUA GENTE

di FRANCESCO AIELLO – Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2020, il tasso annuo di crescita composto della popolazione italiana è stato pari a -0,59%. Questo significa che, nei 7.908 comuni analizzati, la popolazione residente è diminuita complessivamente del 5,9%, passando da 60,58 milioni nel 2010 a 59,23 milioni di abitanti nel 2020. Lo spopolamento ha continuato a manifestarsi anche negli anni successivi: al 1° gennaio 2024, la popolazione italiana si è ulteriormente ridotta a 58,99 milioni di residenti.

L’analisi delle statistiche comunali permette di esaminare le dinamiche demografiche per specifici gruppi di comuni, aggregando i dati per localizzazione, dimensione e zona altimetrica. Questo approccio consente di verificare regolarità empiriche sullo spopolamento, offrendo una descrizione più chiara di come il fenomeno possa essere più pronunciato in determinate categorie di comuni o aree geografiche. Per esempio, se da un lato osserviamo che nel periodo 2010-2020 lo spopolamento è diffuso in tutta Italia, le variazioni dei residenti sono diverse a seconda dell’area geografica considerata. Il Sud e le Isole risultano le aree più colpite, con un calo medio annuo dello 0,88%, seguite dal Centro (-0,67%) e dal Nord (-0,42%). Nei dieci anni considerati, la popolazione residente nei comuni del Sud è diminuita complessivamente dell”8,8%, quella del Centro del 6.7% e quella del Nord del 4,2%.

Differenze molto marcate si osservano anche quando i comuni si raggruppano in due categorie, a seconda se ricadono o meno in un’area interna. In media, si ottiene che i comuni di aree interne registrano una riduzione demografica più elevata dei residenti (-0,85% all’anno) rispetto allo spopolamento delle aree urbane (-0,24% all’anno). Analoghe differenze dei valori medi nazionali si ottengono aggregando i comuni per zona altimetrica. In tale ambito, le zone montane registrano una contrazione della popolazione dello 0,83% annuo, mentre nelle zone collinari il calo è dello 0,63%. Per i comuni localizzati in pianura lo spopolamento esiste sì, ma è più contenuto, con una riduzione demografica dello 0,26% annuo. Un ultimo elemento che è utile considerare è la dimensione dei comuni. I comuni più piccoli sono quelli che soffrono maggiormente il fenomeno, registrando un tasso di spopolamento dell’1,35% annuo nel caso dei 998 nano comuni italiani (13% del totale), ossia quelli con una popolazione inferiore nel 2020 a 500 abitanti. In questi comuni, la popolazione è complessivamente diminuita del 13,5%. Man mano che cresce la dimensione dei comuni, il tasso di decrescita si attenua; i comuni con oltre 10.000 abitanti, infatti, presentano tassi di diminuzione molto più contenuti.

Questi dati mostrano chiaramente che il declino demografico è, in media, più accentuato nelle aree interne, montane e nei piccoli comuni, rispetto a quelli urbani, pianeggianti e di maggiori dimensioni. Tuttavia, nonostante questa analisi evidenzi importanti tendenze generali, non permette di distinguere le dinamiche demografiche tra diverse tipologie di comuni, come quelle delle aree interne del Sud rispetto al Centro-Nord. Classificazioni più granulari dei comuni consentirebbero di ottenere informazioni utile per verificare, per esempio, se i piccoli comuni delle aree interne del Sud si spopolano più rapidamente rispetto ai piccoli comuni del Centro-Nord. Oppure se le aree interne del Nord presentano andamenti diversi da quelle del Sud al variare della popolazione comunale. La figura 2 riporta alcuni risultati che aiutano a comprendere meglio la “geografia” dello spopolamento dei comuni italiani.  La figura mostra il tasso annuo di crescita composto della popolazione nei comuni italiani tra il 2010 e il 2020, suddiviso per area geografica (Centro, Nord, Sud-Isole), dimensione (classi di popolazione residente) e classificazione Snai (Poli e Comuni Cintura rispetto alle Aree Interne).

Emerge, chiaramente, che sia la collocazione geografica sia la dimensione dei comuni influenzano il fenomeno dello spopolamento. Tuttavia, l’effetto dimensione sembra prevalere. Infatti, in tutti i contesti geografici e territoriali, i comuni più piccoli subiscono le perdite demografiche più consistenti, con tassi di declino che superano l’1% annuo. È un fenomeno che è più accentuato nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto del paese. Al contrario, i comuni più grandi (oltre 10.000 abitanti) registrano tassi di spopolamento molto più contenuti e, in alcuni casi, stabili, qualsiasi sia l’aggregazione territoriale che si considera. Le Aree Interne mostrano una maggiore vulnerabilità, con i piccoli comuni che soffrono le perdite più significative, mentre i poli urbani e i comuni cintura tendono a subire un calo più moderato (Figura 2). Tuttavia, anche all’interno delle Aree Interne, la dimensione del comune resta un fattore determinante: i piccoli centri sono i più colpiti, mentre i comuni più grandi riescono a mitigare gli effetti dello spopolamento.

L’analisi esplorativa dei dati sulla popolazione comunale evidenzia come la dimensione dei comuni sia un elemento cruciale per rappresentare meglio la distribuzione dello spopolamento. I maggiori tassi di riduzione della popolazione si registrano, infatti, nei comuni più piccoli, indipendentemente dalla loro posizione geografica, mentre quelli di maggiori dimensioni mostrano una maggiore resilienza. Una prima implicazione di questa analisi è la necessità di ripensare la tradizionale suddivisione tra aree interne e non interne come criterio per spiegare la distribuzione dello spopolamento in Italia.

L’approccio dicotomico “aree interne-aree non interne” potrebbe non essere del tutto adeguato per comprendere la complessità del fenomeno. Piuttosto, sembra che la dimensione del comune svolga un ruolo importante nel determinare la vulnerabilità allo spopolamento. Di conseguenza, la seconda implicazione è che l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai vincoli e ai costi gestionali ed organizzativi che emergono nell’offerta di servizi pubblici nei piccoli comuni. Questi vincoli di inefficienza derivano proprio dalla loro ridotta dimensione e possono essere affrontati attraverso una riforma della governance territoriale, ridefinendo gli assetti istituzionali dei piccoli comuni. Indipendentemente se ricadono in aree interne. (fa)

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica all’Unical]

(Courtesy OpenCalabria)

IL PREMIO PER LA CULTURA MEDITERRANEA
DA COSENZA UN MODELLO PER LA CALABRIA

di SANTO STRATI – Le cerimonie di premiazione sono abitualmente una soporifera passerella di volti, persone e personaggi con la consegna di riconoscimenti da parte di vecchi premiati a nuovi premiati. Ma non è detto che debba essere sempre così: la serata del Premio Mediterraneo, al Teatro Rendano di Cosenza, promosso e organizzato dalla Fondazione Carical, ha mostrato esattamente il contrario.

Ovvero, come trasformare una cerimonia di consegna di premi in una performance-spettacolo che ha prodotto una delle più belle pagine di Cultura in Calabria. Merito del Presidente della Fondazione, il reggino Giovanni Pensabene, e il Presidente del Premio Mario Bozzo, che hanno ideato insieme con il bravissimo regista Stefano Bellu un evento-show con innesti di libri, musica, balletto, teatro. Il risultato è stato un due ore e mezzo di avvincente intrattenimento (il teatro Rendano era pieno, nessuno è andato via prima dei saluti finali) che dovrebbe essere preso a modello da tutti gli organismi (privati o pubblici) che si avventurano a consegnare riconoscimenti e premi di varia natura. Intendiamoci, non è l’eccezione che conferma la regola (qualcosa del genere si è vista a Taurianova col Premio CalabriAmerica ideato oltre trent’anni fa da Mimmo Morogallo), ma sarebbe ingeneroso non riconoscere alla Fondazione Carical (e ai suoi attentissimi collaboratori – Valeria Giordano e Rosa Cardillo, solo per citare qualche nome) un mix di genialità con l’obiettivo dichiarato di “fare cultura” utilizzando gli elementi tipici dello spettacolo.

L’occasione di venerdì scorso era particolare: il Premio per la Cultura Mediterranea ha compiuto 18 anni, come se fosse diventato “adulto”, ma in realtà è stata solo una finzione scenica giacché, dalla prima edizione, questo Premio ha mostrato una grande maturità e, soprattutto, una visione anticipatrice e per questo largamente ammirevole di cosa rappresenti il Mediterraneo per la Calabria e l’Italia. La posizione strategica della nostra regione, al centro del Mare Nostrum implica un’idea di coinvolgimento e di coordinamento di tutti i Paesi che vi si affacciano, in un pout-pourri culturale che i giovani, correttamente, definiscono mainstream. Ovvero, di primo piano. Che offre e richiede un’attenzione singolare e non di maniera.

Dunque, uno spettacolo per sottolineare la valenza e il significato di un Premio che la Fondazione Carical vuole utilizzare per sostenere e promuovere una “cultura del Mediterraneo” che solo organismi indipendenti possono agevolmente portare avanti per costruire un’idea di condivisione, di interscambio culturale, di arricchimento reciproco tra gli attori protagonisti di ogni edizione: autori, poeti, personalità del mondo della cultura e della società civile. Ci vuole tanta organizzazione e tanta pazienza (un bravo e un grazie alla giuria internazionale) per scegliere le terzine finaliste, ma serve anche tanto “coraggio” e convinzione per coinvolgere centinaia di studenti a selezionare e scegliere un’opera di narrativa di un autore giovane da premiare.

Non è vero che i  giovani non amano leggere, al 90 per cento sono distratti dai social, dai videogiochi, dalle videochat e trascurano, colpevolmente, la lettura: tocca alle generazioni più anziane, soprattutto quelle cresciute a pane e libri e al massimo la tv dei ragazzi, accendere una passione che se parte non si ferma più. Sono questi gli obiettivi che, meritoriamente, la Fondazione Carical porta avanti da 18 anni e i risultati sono oltremodo soddisfacenti, soprattutto per una regione che conta un altissimo livello di disoccupazione giovanile: ragazzi acculturati (laureati e senza occupazione) che vanno seguiti e ulteriormente incentivati a fare della loro formazione un obiettivo vitale.

Certo, di fronte a una magnifica serata-spettacolo dove la Cultura (con la C maiuscola) ha fatto da protagonista viene da piangere pensando alle tante meste cerimonie di premiazione che nel corso dell’anno si susseguono a ritmi inimmaginabili. Tutto si riduce a una photo-opportunity con i premiati e la passerella dei politici di turno e tutto scorre via senza lasciare traccia. Al contrario, il Premio per la Cultura Mediterranea lascia una traccia importante e significativa: le ola delle centinaia di ragazzi venuti da ogni parte della Calabria a sostenere i propri giurati-delegati rappresentano l’urlo di gioia di chi sa già di poter scommettere sul proprio futuro, puntando alla cultura.

E qui, nasce, inevitabile una proposta di sapore utopico: perché le maggiori associazioni culturali della Calabria (la Fondazione Carical, il Rhegium Julii, il Premio Nosside, la Fondazione Corrado Alvaro, etc, giusto per fare nomi e cognomi) non creano una sorta di federazione della cultura per fare finalmente rete? Se ne sente davvero bisogno. Un sodalizio di idee che travalichi le miserie campanilistiche e le tifoserie del più vieto localismo.

Sarebbe magnifico immaginare tutti insieme a un tavolo teste pensanti (think thank) che abbiano un solo obiettivo: dare alle nuove generazioni strumenti di cultura e avviare processi formativi che preparino la classe dirigente di domani. Ragazzi in gamba ce n’è in quantità industriale: cercano segnali, indicazioni, idee, percorsi da seguire.

Pur nella rigorosa distinzione della memoria storica di ciascuna associazione, nuove iniziative in comune sarebbero una mano santa per l’industria culturale della regione. L’unica che offre una solida speranza di crescita e sviluppo e non  inquina in alcun modo. Nel solco della tradizione millenaria magnogreca ma anche delle culture delle tante dominazioni che hanno tentato – senza  successo – di distruggere questo territorio. I saraceni, gli spagnoli, i borboni tanti altri invasori non ci sono riusciti: il timore è che riescano nell’intento i molti incapaci che sono convinti di saper governare. E solo la cultura li può fermare. (s)

L’ASSORDANTE SILENZIO DELLE ISTITUZIONI
PER IL SISTEMA BIBLIOTECARIO VIBONESE

di MARIA LUISA MAZZITELLI, BEATRICE MIRABELLO E KATIA ROSI Sono trascorsi poco più di 30 giorni da quando, lunedì 2 settembre, noi, l’unica dipendente e le volontarie che, per due anni, hanno retto gratuitamente e senza alcuna risorsa le sorti del Sistema Bibliotecario Vibonese, ci ritrovavamo davanti ai cancelli di Palazzo Santa Chiara… Per non riaprire. 

Non una protesta, ma piuttosto una scelta obbligata. Obbligata e sofferta, imposta dalle condizioni in cui per troppo tempo l’Ente ha versato, vessato dai debiti e dalle inchieste giudiziarie, certo, ma anche dall’indifferenza di molti decisori politici: nessuna risorsa, nessuna prospettiva né possibilità di dar vita ad una progettualità, il rischio di restare al buio da un giorno all’altro per una delle biblioteche più importanti della Calabria è davvero troppo.

Eppure negli ultimi due anni molto è stato fatto per cercare di rimettere ordine e di scongiurare il peggio: con sacrificio e abnegazione, i Presidenti susseguitisi in questo difficile arco temporale (Corrado L’Andolina fino a dicembre 2022, e Fabio Signoretta da febbraio 2023) hanno lavorato insieme ai sindaci appartenenti al Sistema per far approvare i bilanci rimasti in sospeso (l’approvazione è di fatto avvenuta nel mese di febbraio di quest’anno) e per tracciare un quadro dettagliato – per come richiesto dalla Regione Calabria – della situazione debitoria e creditoria dell’Ente; contestualmente, seppur tra mille difficoltà, si è tentato di portare avanti (in forma necessariamente ridotta, a causa della totale assenza di risorse e di personale) le attività, i servizi e gli eventi che, in oltre 30 anni di storia, hanno reso il Polo culturale di Vibo Valentia un punto di riferimento per la Calabria e non solo. 

Ma stando ad oggi, probabilmente tutto questo non è bastato. Dal 2 settembre in moltissimi stanno dimostrando con forza, e attraverso mezzi diversi, il proprio sconcerto, il dispiacere, la preoccupazione per il destino del Sistema Bibliotecario Vibonese: solidarietà e vicinanza è giunta dalle maggiori istituzioni bibliotecarie calabresi, attonite davanti all’immobilismo istituzionale nei confronti dei problemi che riguardano la cultura. 

Numerose le associazioni, come L’Osservatorio civico – Città attiva, che hanno lanciato il proprio appello per scongiurare la chiusura dell’Ente, consapevoli del fatto che sarà “l’incolpevole Comunità” a subire «i drammatici effetti dell’ennesima sottrazione di un servizio» (così Francesca Guzzo, referente dell’Osservatorio); e poi i Dirigenti scolastici di Vibo e provincia, che non vogliono arrendersi alla triste realtà che anche le istituzioni scolastiche possano rimanere orfane di un servizio fondamentale, di crescita ed arricchimento per bambini, ragazzi, docenti.

Accorato ed incisivo il grido d’allarme della Sezione Calabria dell’Associazione Italiana Biblioteche (AIB) che, nella persona del suo Presidente, Raffaele Tarantino, ha scelto di sottolineare in una lettera aperta datata 3 settembre 2024 (ed inviata anche al Prefetto di Vibo Valentia e al Presidente della Regione Calabria) come il SBV sia «un bene di tutti, in quanto alimenta le sorgenti della vita, della convivenza civile, della conoscenza e del dialogo», e ha invitato «le istituzioni competenti a sedersi intorno a un tavolo, anche col supporto dell’AIB, per trovare una soluzione che salvi il SBV». 

Ma sono anche e soprattutto i liberi cittadini di Vibo e provincia a sentirsi traditi da una politica che sembra essere cieca davanti a tanto scempio… Cittadini di ogni età, provenienza, estrazione sociale, privati in un attimo non solo di un luogo di incontro e crescita, ma di un baluardo di democrazia e legalità, un presidio fondamentale in una terra nella quale poco si ha e ancora meno si rischia di ottenere. Insomma, tutti sembrano riconoscere il valore del Sistema Bibliotecario Vibonese e preoccuparsi del suo destino. Un po’ meno le istituzioni, che in questo mese, laddove si sono mosse, lo hanno fatto a rilento e forse senza troppa convinzione.

Insomma, in una regione in cui si lotta ogni giorno per scongiurare la “fuga di cervelli” e lo spopolamento, nella quale si usa per fare propaganda la creazione di nuovi posti di lavoro (spesso fantasma), si può davvero accettare che venga scritta la parola fine sulla storia dell’ennesimo Ente riconosciuto come valido, utile a tutti, funzionante ed attivo, e che se messo a regime potrebbe tra l’altro offrire opportunità di lavoro in moltissimi ambiti a tanti giovani che vorrebbero restare in Calabria? 

Ma soprattutto viene da domandarsi: ogni Ente che si trova oggi in una situazione di dissesto finanziario ha come proprio unico destino naturale la chiusura? E poi, quanti Comuni, aziende, enti pubblici travolti da inchieste giudiziarie sono stati costretti, ad oggi, ad interrompere le proprie attività? È giusto, non si può cancellare tutto con un colpo di spugna: le situazioni passate devono essere sanate, i debiti onorati, e la giustizia deve fare il proprio corso, ma il SBV non è solo il suo passato, e può meritare di avere un futuro nuovo.  (

EDILIZIA SCOLASTICA IN CALABRIA ANCORA
C’È TROPPO DA FARE TRA DIVARI E RITARDI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria a poco a poco si stanno rendendo più sicure e moderne le scuole. Si tratta certamente di un importante risultato, ma questo non è abbastanza per poter dire che nella regione le Scuole stanno bene, perché non è così. A certificare lo stato di salute degli edifici in Calabria e in tutta Italia, la 14esima edizione del report Ecosistema Scuola di Legambiente, in cui sono emersi dati molto interessati.

Ad esempio, Vibo Valentia è tra le città che hanno realizzato maggiori interventi di adeguamento sismico, mentre Cosenza è tra quelle che hanno realizzato i maggiori interventi di messa in sicurezza dei solai nelle proprie scuole negli ultimi 5 anni, oltre ad avere – assieme a Crotone – il maggior numero di scuole servite da pedibus. La città bruzia, inoltre, brilla per il maggior numero di scuole raggiungibili in bicicletta grazie alle piste ciclabili. Catanzaro, invece, viene “rimandata” per non aver fornito dati gli impianti di energia rinnovabile nelle scuole, mentre Vibo, se da una parte è stata virtuosa contro i terremoti, dall’altra viene “bocciata” per non avere impianti di energia. Il capoluogo e Crotone rientrano, anche, tra le scuole che non hanno fornito dati sul monitoraggio amianto. Sempre Vibo, è tra le città che spendono di pi ù nel servizio di pre e post scuola. Reggio Calabria, invece, non compare in nessuna classifica.

Dati importanti, considerando che i dati sulle certificazioni ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco rassicurante, visto che ancora oggi solo 1 edificio su 2 dispone del certificato di agibilità (49,3%) e di collaudo statico (47,5%). Nello specifico, il 68,8% degli edifici del Nord dispongono del certificato di agibilità, mentre solo il 22,6% di quelli del Sud e il 33,9% delle Isole.

Nel Report, infatti, sono raccolti i dati del 2023 di 100 Comuni capoluogo su 113  e che riguardano 7.024 edifici scolastici di loro competenza, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, frequentati da una popolazione di oltre un milione e 300mila studenti, offre un’analisi dettagliata sullo stato di salute delle scuole confrontandola con i servizi essenziali di prestazione, i cosiddetti Lep previsti dall’autonomia differenziata, e che per le scuole riguardano edilizia scolastica, digitalizzazione e servizi mensa, denunciandone ritardi ed emergenze da affrontare anche per quel che riguarda trasporti, palestre e sostenibilità energetica, tre servizi non contemplati dai Lep riguardanti l’istruzione.

«Con l’autonomia differenziata – ha commentato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Di questo passo senza un investimento sui Lep, rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne, non solo di non recuperare i ritardi sull’edilizia scolastica ma anche di restare indietro sui servizi scolastici. Se si vuole lavorare su una didattica inclusiva e innovativa l’organizzazione e la progettazione degli spazi è rilevante, bisogna che ci siano laboratori, palestre, mense, nuovi ambienti di apprendimento».

«Ma anche le condizioni di lavoro sono fondamentali – ha aggiunto – gruppi classe più piccoli, un isolamento termico che consenta di stare in classe senza disagi, scelte di sostenibilità che migliorino lo stato generale degli edifici. Tutto questo potrebbe essere realizzato se la messa a terra dell’autonomia differenziata aprisse una stagione con al centro un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole per connettere bisogni e azioni».

«Per ridurre il gap con il resto d’Italia – si legge nel rapporto – ma soprattutto per mettere in sicurezza le scuole, si rende, quindi, urgente dedicare maggiori fondi al Sud e Isole ma, soprattutto, aiutare le amministrazioni a realizzare gli interventi necessari per la messa a norma degli edifici scolastici di loro competenza.

«È giunto il tempo – ha detto Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – di “alzare l’asticella della qualità”, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive».

Infatti, nella Penisola una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, un dato che nel Sud e nelle Isole sale al 50%, 1 scuola su 2. Un’emergenza ormai cronica, che non migliora, nonostante nel 2023 a livello nazionale siano stati stanziati maggiori fondi per la manutenzione straordinaria (media per singolo edificio), 42milax euro, rispetto a quelli medi degli ultimi 5 anni, 36mila euro. Senza contare che persiste un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto le amministrazioni riescono effettivamente a spendere: nel 2023 considerata la media a edificio scolastico su 42.022 euro stanziati ne sono stati spesi 23.821 euro. Preoccupano, anche, i ritardi su digitalizzazione, trasporti, servizi per lo sport ed efficientamento energetico e in questo quadro l’autonomia differenziata rischia di non aiutare la scuola.

Ma non solo: a pesare sullo stato di salute  degli edifici scolastici sono anche i ritardi che si registrano sul fronte della sicurezza – solo il 50% delle scuole ha tutte le garanzie (ossia i certificati di sicurezza) – ma anche sul fronte servizi come, ad esempio, sull’innovazione digitale con poco più di 1 scuola su 2 che dispone di reti cablate e Wi-Fi.Le mense restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%. Preoccupa la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso. Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente.

Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7 % si trova in classe A.  Per Legambiente è una grave mancanza che i Lep relativi all’istruzione non considerino tre servizi come trasporto scolastico, palestre e sostenibilità energetica. Si tratta di servizi indispensabili per garantire il diritto allo studio, l’accessibilità a strutture sportive pubbliche e ambienti qualitativamente vivibili anche da un punto di vista climatico.

Nel rapporto, poi, viene rilevato come «persiste, nella Penisola, il divario tra Nord e Sud anche in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e di finalizzazione della spesa. In particolare, per quel che riguarda i fondi nazionali per l’edilizia scolastica per interventi di diversa tipologia, nel 2023 nel Nord e nel Sud la media dei fondi nazionali ricevuti per edificio scolastico è stata di circa 1,4milioni di euro, nel Centro il dato scende a poco più di 600mila, per arrivare a meno di 300mila euro a edificio nelle Isole. Fondi esigui, quest’ultimi, per la messa in sicurezza e l’efficientamento degli edifici scolastici. Differenti anche i tempi di durata dei cantieri, se in alcune regioni del Nord possono essere di 8-10 mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata, in diverse regioni del Sud possono invece arrivare a 24 mesi. Sul fronte nuova edilizia scolastica, negli ultimi 5 anni stando ai dati inviati dalle amministrazioni, nella Penisola sono solo 41 le scuole nuove costruite».

Alla luce dei dati emersi dal Report, Legambiente ha presentato dieci proposte che hanno come filo rosso un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole a partire da una manutenzione, gestione, organizzazione e qualità della scuola migliore. Primo intervento importante da mettere in campo, attivare da parte degli Enti Locali processi di amministrazione condivisa sulla base di patti educativi di Comunità. A seguire tra gli interventi prioritari per Legambiente occorre ampliare la funzione dell’anagrafe scolastica rendendo trasparenti le informazioni sullo stato di avanzamento degli interventi per l’edilizia scolastica e relativi finanziamenti, creare una struttura di governance per facilitare accesso e gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e garantire il funzionamento dell’Osservatorio per l’edilizia scolastico. (ams)

IL PAZIENZE “CALABRIA” SI PUÒ CURARE:
RIPARTIRE EQUAMENTE FONDI SANITARI

di GIACINTO NANCI – I danni ai malati calabresi vengono, oltre che dalle infiltrazioni mafiose, prima di tutto dal cronico ultraventennale sottofinanziamento della sanità calabrese. Infatti la Calabria è la regione che da sempre è nelle ultime posizioni per i finanziamenti pro capite (oltre 100 milioni annui di euro in meno rispetto alla regione più finanziata) per la sua sanità in base alla legge 386 del 18 luglio 1996. Da qui l’accumulo di un deficit sanitario di un miliardo e mezzo per cui nel 2009 la decisione da parte del Governo di imporre alla Calabria il piano di rientro sanitario e nel 2011 il commissariamento.

Le infiltrazioni mafiose nella sanità hanno solo peggiorato la qualità della sanità calabrese, sottraendo ulteriori fondi dedicati ai malati calabresi. Ma, ad aggravare pesantemente la situazione della sanità calabrese e a bocciare definitivamente l’attuale criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni, è il fatto che in Calabria ci sono molti più malati cronici che non nelle altre regioni e da ciò ne consegue che la Calabria avrebbe dovuto in passato e dovrebbe ricevere in futuro molti più fondi delle altre regioni e non meno fondi.

A certificare la presenza di molte malattie croniche che necessitano quindi di maggiore spesa sanitaria in Calabria è stato perfino il commissario Scura, firmando il decreto 103 nel lontano 15 settembre 2015. Decreto che, con le sue specifiche tabelle, quantificava in 287.000 malati cronici in più tra i circa due milioni di abitanti calabresi, rispetto ad altri due milioni di altri italiani. Come se ciò non bastasse, vi è che per le spese sanitarie dei calabresi fuori regione ormai spendiamo fino a 300 milioni di euro, che sono fondi sottratti agli investimenti della sanità in Calabria.

Ancora vi è il fatto che il piano di rientro, oltre a far danno ai malati calabresi, peggiora anche l’economia della Calabria perché, proprio perché siamo in piano di rientro, da 15 anni a questa parte noi calabresi paghiamo più tasse (Irap, Irpef, accise sui carburanti e per un periodo anche maggiori ticket sanitari) degli altri italiani. A conferma di quanto fin qui scritto, vi è il fatto che nel 2016 la Conferenza Stato Regioni ha fatto una parzialissima (per come affermato dal suo presidente on. Bonaccini) modifica ai criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni, considerando la presenza delle malattie nelle varie regioni. Ebbene, in seguito a questa “parzialissima modifica” nel 2017, la Calabria ha ricevuto ben 29 milioni di euro in più del 2016 e tutto il Sud ben 408 milioni in più. Ovviamente la modifica non è stata ne ampliata ne riproposta.

Un’altra conferma è il fatto che nel 2022 la regione Campania (l’unica che riceve meno fondi pro capite anche rispetto alla Calabria, ha fatto ricorso al Tar proprio contro i criteri distorti del riparto dei fondi sanitari alle regioni. Significativo è il fatto che, dopo questo ricorso al Tar, il Governo ha modificato i criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni, introducendo il criterio della “deprivazione” per dare più fondi (pochissimi) alle regioni del Sud. Allora cosa fare per salvare la sanità calabrese? Oltre ad aumentare la lotta alla mafia, che non è comunque la causa principale del disastro della sanità calabrese, bisogna chiudere con il piano di rientro perché esso stesso è dannoso per la sanità calabrese, e modificare i criteri del riparto ai fondi sanitari alle regioni basandolo sulla presenza delle malattie.

Oggi sappiamo quanto costa curare una malattia cronica, sappiamo quante malattie croniche ci sono nelle varie regioni e, quindi, non sarebbe difficile finanziare le sanità regionali in base ai reali bisogni delle popolazioni. La chiusura del piano di rientro, tra l’altro giudicato parzialmente anticostituzionale da una sentenza della Corte Costituzionale nel 2021, dovrebbe essere una cosa ovvia considerando il fatto che, dopo 15 anni di piano di rientro, la regione Calabria è maglia nera nell’applicazione dei Lea (Livelli Essenziali di Assistenziali) e lo è anche nonostante dal 2019 siano anche commissariate anche tutte le Asp calabresi, e i tre maggiori ospedali regionali. I commissari non sono stati utili neanche per la lotta alla infiltrazione mafiosa, visto la che la Asp di Vibo Valentia ha avuto forse più di 4 commissari negli ultimi anni.

È chiaro cosa fare per un giusto finanziamento delle sanità regionali, ossia il riparto in base alla presenza delle malattie. Si punti su questo. (gn)

[Giacinto Nanci è medico di famiglia in pensione dell’Associazione Mediass]

LA CALABRIA È LA REGIONE CON MAGGIORI
DISUGUAGLIANZE TRA I PAESI DELLA UE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Qual è la regione con le maggiori disuguaglianze nell’Unione Europea? Risposta scontata: la Calabria, purtroppo. Secondo i dati di Eurostat, diffusi dalla Cgil, i numeri segnano il risultato più drammatico, in cui emerge non solo una bassa condizione di crescita, ma anche una forte disparità retributiva tra il capitale e il reddito.

Il 20% dei cittadini calabresi ricchi accresce il suo benessere, mentre il 20% povero diventa ancora più indigente non potendo disporre dei basilari mezzi di sussistenza su beni e servizi essenziali.

L’Istituto economico europeo, infatti, certifica la divaricazione della forbice sociale a vantaggio degli strati più ricchi e ne accentua lo stato di povertà, in valore e condizione, assoluta. Tutto ciò mentre la nostra regione sconta una crisi demografica, uno spopolamento delle aree interne ed una emigrazione giovanile senza precedenti che verrà acuita dall’autonomia differenziata.

Per la Cgil Calabria «c’è un tema ineludibile per il Governo nazionale e regionale: quello salariale, del lavoro, degli investimenti che sfuggono dall’orbita di ogni provvedimento emanato dall’esecutivo».

Un fenomeno che, per quanto paradossale, vista la quantità e la finalità di risorse europee, ordinarie e straordinarie, di cui la Calabria oggi dispone, il sindacato ha sempre cercato di evidenziare negli ambiti istituzionali della programmazione europea, richiamando un approccio di indirizzo e di merito basato sulla qualità della spesa in termini di impatto e congruità dei risultati».

Oltre la metà della spesa comunitaria viene assegnata con bonus, incentivi e crediti d’imposta che solo marginalmente determina una premialità negli investimenti su politiche distributive e reddituali, con un basso coefficiente occupazionale. Per quanto evidenti, i fattori dì criticità nella spesa comunitaria vengono spesso concepiti nella necessità di intervento sugli aspetti quantitativi, anziché affrontarli nella complessità delle loro dinamiche distributive per meglio agire processi contestuali di sviluppo e di crescita sia economica che sociale.

In altre parole, «non c’è solo un problema nella capacità di investire i fondi per ridurre i divari territoriali con le altre aree del Paese – ha rilevato il sindacato – ma, di farlo, attraverso mirate politiche sociali ed occupazionali per garantire un generale benessere di tutte le classi sociali che nei territori risiedono. L’indagine dell’Eurostat, sostanzialmente, ci suggerisce di considerare i divari regionali per poter meglio affrontare quelli nazionali».

Sul tema del lavoro, «il contratto è un buon punto di partenza, ma è necessario potenziarne l’azione nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori», ha detto Mariaelena Senese, segretaria generale della Uil Calabria, intervenendo ai lavori del convegno sui 30 anni dell’Ebac a Reggio Calabria, annunciando di aver chiesto «n incontro per migliorare le prestazioni dell’ente bilaterale a favore dei lavoratori e prevedere un sistema di premialità per le aziende di settore, predisposizione di un fondo di incentivo all’occupazione finalizzato ad evitare la fuga dai giovani dalla Calabria, intervenendo anche con progetti mirati nelle scuole prevedendo il supporto dell’Inail regionale. Inail che è sempre stata al fianco della bilateralità attraverso dei progetti mirati che partono proprio dal mondo della scuola».

Ma non sono solo i sindacati a essere impegnati sul tema del lavoro: Anche la Regione Calabria sta facendo la sua parte. È stato approvato, infatti, su proposta dell’assessore regionale al Lavoro, Giovanni Calabrese, il nuovo schema di Accordo per la realizzazione dell’investimento 1.1 “Piano potenziamento Centri per l’impiego” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), Missione M5, Componente C1.

L’accordo sarà sottoscritto dalla Regione Calabria – Dipartimento Lavoro, dall’Unità di missione per l’attuazione degli interventi del Pnrr e dalla Direzione generale presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

L’intervento è finalizzato al potenziamento dei Centri per l’impiego, allo scopo di consentire un’efficace erogazione dei servizi per l’impiego e la formazione e, nell’ambito del medesimo, sono previste attività legate al potenziamento dei Cpi tramite il rafforzamento delle competenze del personale e il potenziamento infrastrutturale. L’importo del finanziamento per la Regione Calabria è di 10.593.900,48 euro.

Insomma, c’è grande consapevolezza che nella regione ci sia un grave problema occupazionale a cui, poco a poco, si sta cercando di trovare una soluzione per impedire non solo lo spopolamento dei borghi, ma anche la partenza dei cervelli che, con le loro capacità, potrebbero contribuire a risollevare questa terra dalle grandi potenzialità.

Sicuramente c’è più bisogno di sinergia tra istituzioni, sindacati, Enti e associazioni di categoria per mettere nero su bianco un piano capace di colmare uno dei più gravi e atavici divari della Calabria. I continui report che i sindacati o gli Enti producono, devono indurre la Regione a fare una riflessione seria sul tema e cercare una quadra anche col Governo per mettere a punto una strategia con azioni mirate a rendere la regione un modello virtuoso capace di attrarre, non di indurre a scappare.