CIAK SI GIRA, BASTA CON LE “ANIME NERE”
E ORA IL BELLO DELLA CALABRIA NEI FILM

di FRANCESCO RAOIn questa riflessione non è mia intenzione mettere in discussione il valore dell’arte, della cinematografia o della libertà espressiva: ogni opera creativa è un tassello fondamentale del nostro patrimonio universale ma personalmente credo che i fini educativi possano essere praticati attraverso altri messaggi.

Tuttavia, quando la rappresentazione mediatica si ostina a raccontare solo una parte della realtà – quella più oscura – diventa necessario porsi delle domande. In questi casi, la comunicazione non è mai neutra: plasma percezioni, orienta il pensiero collettivo e contribuisce a definire l’immagine di un luogo ben oltre i suoi confini geografici. Da sociologo vorrei condivider con i lettori di Calabria.Live alcune considerazioni per tentare di decifrare questi processi.

Pierre Bourdieu, attraverso i suoi studi, ha chiarito come il potere simbolico agisca nel determinare ciò che viene percepito come “normale” e ciò che viene etichettato come “deviante”.

Se la Calabria continua a essere raccontata esclusivamente attraverso la lente del malaffare, questo racconto finisce per consolidarsi nell’immaginario collettivo, trasformandosi in quella che Robert K. Merton definisce una “profezia che si autoavvera”. Di conseguenza, il rischio che si andrà a consolidare nel tempo è evidente e sarà unicamente finalizzato ad alimentare pregiudizi esterni e, ancor più grave, generare nei calabresi un senso di rassegnazione e impotenza.

La narrazione ha dunque un impatto diretto sulla fiducia sociale, sul senso di appartenenza e sulla capacità espressa dai territori per poter attrarre opportunità di sviluppo e non vie di fuga. Come sottolineato da Robert Putnam, il capitale sociale di una comunità – ovvero la rete di relazioni, fiducia e cooperazione – è fondamentale per il suo sviluppo.

Una comunicazione orientata solo al negativo mina dalle fondamenta questo capitale, mentre una narrazione equilibrata e costruttiva, con pochissimi sforzi può rafforzarlo generando bene comune. Non si tratta di negare i problemi o di edulcorare la realtà, la lotta alla criminalità dovrà essere un fatto concreto e praticato quotidianamente, percorrendo il solco tracciato dal certosino lavoro svolto con professionalità sia dalla Magistratura sia dalle Forze dell’Ordine. Per generare risultati evidenti è necessario dare spazio anche alla Calabria che resiste, innova, crea e ispira.

La Calabria dei giovani imprenditori, delle università in fermento, delle eccellenze enogastronomiche, dei borghi che riscoprono il turismo sostenibile, degli artisti, dei ricercatori e delle imprese sociali. Perché non raccontare la storia di una terra che ha dato i natali a scienziati, giuristi, filosofi e artisti di rilievo internazionale? Perché non proiettare sul grande schermo le esperienze virtuose di chi ogni giorno costruisce la legalità, la cultura e lo sviluppo, contrapponendosi a logiche becere e figlie della devianza? Nel mondo, oltre ai calabresi residenti, esistono altri sei milioni di Calabresi, figli e discendenti di questa terra ai quali è necessario far giungere il desiderio di essere sostenuti anche nel processo di una nuova narrazione di questa terra e successivamente chiedere loro sostegno per pensare al rilancio della nostra economia, dello sviluppo sociale e organizzativo, ponendoci tutti e insieme in una discontinuità evidente rispetto a quel passato nel quale chiamarsi fuori dalle responsabilità, formalmente poneva fine al problema ma sostanzialmente lo faceva crescere indisturbato.

Credo che l’importante legame esistente tra la nostra realtà con la teoria dell’agenda setting di McCombs e Shaw possa insegnarci tanto: i media – secondo gli autorevoli studiosi – non dicono alle persone cosa pensare, ma su cosa pensare. Ecco perché è urgente spostare il focus verso una narrazione che sappia illuminare anche ciò che di positivo germoglia in questa regione. Attraverso una “curvatura positiva” che non vuole essere semplice ottimismo di facciata ma un atto strategico e sociale bisognerà stimolare il senso della fiducia collettiva per attrarre investimenti, favorire il turismo e creare nuove opportunità.

La Calabria ha bisogno di essere raccontata nella sua complessità autentica in quanto terra fatta sì di contraddizioni, ma anche di bellezza, resilienza e ingegno. Personalmente credo che la quantità di bene sia nettamente superiore alla quantità del male e per estirparne le radici di quest’ultimo è indispensabile scegliere una comunicazione costruttiva tesa ad attivare un circolo virtuoso in cui le comunità si riconoscano nelle proprie eccellenze e diventino protagoniste del proprio destino attraverso una rinnovata autodeterminazione.

Attivare questi anticorpi sociali non significherà solo alimentare una sfida culturale e artistica ma nel tempo potrà divenire esigenza sociale diffusa attraverso la quale la responsabilità delle persone sarà il catalizzatore di una scelta. Continuare a proiettare sul mondo l’immagine di una Calabria prigioniera degli stereotipi significa tradire le sue potenzialità ostacolandone il riscatto che passa anche – e soprattutto – dalla capacità di raccontarsi in modo diverso, con dignità, fiducia e orgoglio.

Cerchiamo di non dimenticare che ogni territorio, prima di essere trasformato, deve essere prima immaginato in modo nuovo. Per il bene della Calabria è tempo di cambiare sguardo, evitando di fare spot a ciò che da tempo ostacola il bene. 

[Francesco Rao è sociologo e docente a contratto Università “Tor Vergata” – Roma]

INFRASTRUTTURE: LA MANCANZA AL SUD DI COMPETITIVITÀ EQUIVALE A 8 PUNTI DI PIL

di ERCOLE INCALZA – Solo ultimamente abbiamo cominciato a capire che il settore primario, sì quello che comprende le attività legate allo sfruttamento delle risorse naturali quali l’agricoltura, la pesca, l’allevamento, la pastorizia ecc., riveste un ruolo chiave nella crescita del Paese e che, in questo determinante ruolo, il Mezzogiorno è senza dubbio determinante.

Pochi giorni fa il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha ricordato che elemento cardine della agricoltura non è solo la produzione quanto, soprattutto proprio nel Mezzogiorno, la ristorazione, la trasformazione e la distribuzione ed ha precisato che è necessario supportare le nostre imprese convincendole ad investire in tecnologie e tracciabilità ed in particolare ha precisato: «È prioritario arrivare a sistemi di snodo logistico. I porti sono basilari, sono le autostrade del futuro che daranno ulteriore centralità al Mediterraneo. Ma si deve realizzare un meccanismo di interconnessione. Il porto deve essere collegato al retroporto, alla ferrovia e anche per una breve percorrenza alle autostrade. Solo con un sistema misto ed interconnesso potremo recuperare quella competitività che oggi costa 96 miliardi di euro al sistema Paese e 9 miliardi solo al comparto agro alimentare».

Leggendo attentamente la ricerca prodotta dall’Istituto “Divulga” della Coldiretti ci si convince che dei 96 miliardi di danno alla economia, circa la metà è proprio relativa alla carenza infrastrutturale del Sud, di un Sud che, a differenza delle aree del Centro Nord, possiede solo un Hub interportuale come quello di Nola – Marcianise a differenza del Nord che ne ha invece otto; un Sud che, in 74 anni, ha realizzato solo le autostrade Palermo – Messina,  Salerno – Reggio Calabria e Catania – Siracusa (non cito le autostrade Napoli – Bari – Taranto e Palermo – Catania perché le caratteristiche non possono certo essere definite di livello autostradale) ed invece non ha realizzato assi viari essenziali come la Maglie – Santa Maria di Leuca o l’asse 106 Jonica che collega Taranto con Reggio Calabria, non ha realizzato reti ferroviarie ad alta velocità lungo il collegamento Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Catania, Catania – Messina, Palermo – Messina, non ha neppure elevato i livelli funzionali di un asse ferroviario come quello jonico che collega Taranto – Sibari – Crotone – Reggio Calabria.

Lo abbiamo capito tardi e lo abbiamo capito proprio simulando queste macro aggregazioni; questo approfondimento sicuramente sarà bene utilizzarlo sia nella lettura delle “autonomie regionali differenziate”, sia dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) ed un simile approccio, a mio avviso, servirà sia a confermare la nuova narrazione sul Sud emersa già nel Festival Euromediterraneo dello scorso anno, sia a creare, insisto fino alla noia, dopo 74 anni, strumenti ed organismi davvero capaci per leggere ed al tempo stesso interpretare fenomeni che, specialmente durante i Governi Conte 1 e 2 e, purtroppo, anche Draghi, erano stati sempre affrontati con la logica davvero “offensiva” del 30% delle risorse degli investimenti globali da assegnare al Sud; purtroppo dichiarazione rimasta sempre una “buona intenzione”.

Ebbene, pochi mesi fa ebbi modo di ribadire che, senza innamorarci più di “percentuali” e di norme annunciate e mai attuate, eravamo in grado, senza inventare o programmare nuove opere, ma prendendo in esame il quadro di quelle già programmate ed in alcuni casi già supportate finanziariamente, di rigenerare davvero questa vasta tessera del mosaico Paese e, a tale proposito, elencai un quadro di interventi attraverso i quali era possibile, a mio avviso, ridimensionare il forte danno denunciato proprio dalla Coldiretti. Anticipai il quadro degli interventi, precisando che, se entro 5 – 8 anni fossimo stati in grado di attivare la spesa realizzando i vari interventi, il Mezzogiorno sarebbe stato in grado di passare dall’attuale 22% ad oltre il 30% nella formazione del Pil del Paese.

Devo dare atto al presidente Prandini ed al mondo degli operatori della logistica, soprattutto del comparto agro alimentare, di aver denunciato questa impellente esigenza di offerta infrastrutturale e, al tempo stesso, come ribadito dallo stesso Prandini, di aver posto, dalla stessa Coldiretti, come elemento centrale la Zes Agricola che questo anno era scomparsa dalla Legge di bilancio e che grazie ai Ministri Fitto e Lollobrigida è stata poi recuperata.

Ed allora con queste scelte la dominanza del Mezzogiorno nei confronti del Nord nel processo di crescita del Paese non sarebbe un caso sporadico, come avvenuto lo scorso anno, ma diventerebbe un dato strutturale consolidato. (ei)

L’ULTIMO ADDIO A FRANCESCO
IL PAPA DEGLI ULTIMI

di SANTO STRATI – L’ultimo addio col funerale che tutto il mondo ha potuto seguire in diretta attraverso tv e social (quanti milioni, forse miliardi di persone?) ci ha messo di fronte a una realtà ineludibile.

Francesco non c’è più e lascia un vuoto enorme. Ci mancheranno la sua freschezza, la sua spontaneità, il suo sorriso, ma peserà, soprattutto, l’assenza di una figura carismatica che contro la guerra – contro tutte le guerre – ha usato lo strumento della persuasione opponendo nessuna indulgenza nei confronti dei responsabili.

La guerra – le guerre (ci sono più di 60 conflitti in corso, non è solo Russia-Ucraina e Israele-Gaza) – sta diventando l’atroce paradigma di questo Terzo Millennio che doveva segnare orizzonti di prosperità e benessere e, invece, ha pagato il caro prezzo della pandemia prima e dell’acuirsi dei conflitti mondiali.

La pace non è un’utopia, ma bisogna crederci per volerla davvero, attività che non sembra praticata né dai grandi né dai piccoli della terra. E a fianco allo strazio della guerra si deve registrare il deterioramento dei rapporti umani, delle relazioni sociali, con il prevalere di una intollerabile (ma ahimè troppo in crescita) indifferenza. Un sentimento che è peggio dell’odio perché induce a dimenticarsi degli altri e scartare a priori fragilità e povertà, malesseri che non derivano da scelte personali ma condizionano in maniera severa l’intera esistenza di milioni di persone.

Francesco aveva preso a cuore la lotta contro l’indifferenza, esaltando la necessità non solo di concorrere al bene comune ma anche l’esigenza di condivisione dei valori cristiani opposti alla non-curanza: il paradigma sociale della concuranza (termine coniato dal prof. Mauro Alvisi in un voluminoso trattato costato 10 anni di lavoro) era nel percorso indicato da Francesco: curare insieme, occuparsi degli altri, spendere la vita guardando anche a chi non porge la mano per vergogna, pur avendo bisogni estremi.

È una traccia importante dell’eredità di Papa Francesco, come la sua personale “guerra” contro tutte le guerre, in nome dello spirito cristiano, in nome di Dio in tutte le sue declinazioni. Il dialogo interreligioso è stato una costante di Francesco, un Papa che, non a caso, ha scelto il nome del poverello d’Assisi e ne ha mutuato gli insegnamenti, portandoli a diventare un modello di vita.

La sua stessa fine – pur paventata, temuta e consapevolmente avvertita come prossima – ci indica la caducità della nostra stessa esistenza: domenica di Pasqua era – pur malato e affaticato – tra i fedeli, a scorrere in piazza San Pietro a far vedere che il Papa c’era. Qualche attimo dopo, Dio l’ha chiamato a sé. Questo ribadisce – per chi ancora non se n’è fatto una ragione, da credente o no – che siamo niente. Stamattina siamo forti e ci sentiamo invincibili, trascurando le vere cose della vita (amore e sentimenti), stasera possiamo non esserci più.

Muore il corpo – è vero – secondo la dottrina cristiana – ma non lo spirito: povere ossa che andranno a diventare cenere e con esse superbia, ambizione, indifferenza, passioni, amore e corsa verso la ricchezza e il potere. Tutte cose che non serviranno più: potere e ricchezza saranno dilapidati in un modo o nell’altro) da chi rimane, ma i sentimenti d’amore (come si raccomandava di insegnare Francesco) sono un’eredità inalienabile per chi sente e avverte l’assenza fisica della persona cara, ma ne accoglie la vitale essenza spirituale.
Francesco lascia questo in eredità a tutto il mondo: tornare a ragionare con la testa e far prevalere il sentimento sull’indifferenza.

È un’indicazione per il futuro pontefice, ma soprattutto per il popolo cristiano che, troppo spesso, ormai usa la religione a corrente alternata. La fede è un dono che lo spirito cristiano deve saper utilizzare in tutte le sue opportunità. La vita si è allungata, ma si sono ristretti i sentimenti di altruismo e il desiderio (innato) di fare del bene, seguendo gli insegnamenti di Cristo: non sappiamo se ha saputo Francesco risvegliare le tante coscienze sopite, ma sicuramente ha acceso tante lampadine che sembravano fulminate.

Grazie Papa Francesco per quanto ci hai donato e perdona chi non ha capito. E come hai sempre chiesto, pregheremo per te, questa volta, però, con gli occhi lucidi di lacrime. Quelle sì, vere, autentiche, meglio di tante parole intrise d’ipocrisia che hanno accompagnato il tuo ultimo viaggio terreno. (s)

PORTO DI GIOIA, 50 ANNI FA L’INIZIO LAVORI
OGGI UNA GRANDE REALTÀ MEDITERRANEA

Nessuno, quando venne messa la prima pietra del Porto di Gioia, avrebbe potuto immaginare uno sviluppo così forte e, diciamolo, anche inaspettato. Ma il Porto sta esprimendo solo il 20% del suo potenziale: la Calabria deve adottarlo e farlo diventare il volano della crescita del territorio per l’attrazione di investimenti (c’è un retroporto vastissimo e inutilizzato). E – quando si farà – per il Ponte Gioia può rappresentare una sede logistica eccezionale dove stoccare (e perché no? lavorare) i “pezzi” che andranno allestiti e montati. Non ci vuole un genio, ma solo buonsenso, quello di cui la Calabria ha davvero tanto bisogno. Presidente Occhiuto non sottovaluti questa ulteriore opportunità per Gioia Tauro. Il futuro è lì, tra quelle banchine e il retroporto. (s)

di MICHELE ALBANESE – Ricorrono oggi (ieri ndr), 25 aprile, i 50 anni dalla posa della prima pietra per la costruzione del porto di Gioia Tauro. Fu GiulioAndreotti, all’epoca Ministro alla Cassa per il Mezzogiorno, presente anche Giacomo Mancini, ad inaugurare il cantiere che costruirà il porto.

In occasione della visita, un po’ oscura e misteriosa tanto che pochi giorni prima nessuno tra i dirigenti provinciali della Dc sapeva della presenza del Ministro e della cerimonia che molti anni dopo farà parlare di se anche per l’imbarazzante presenza, al rinfresco, di esponenti del clan mafioso dei Piromalli, Andreotti diede prova del suo proverbiale senso dell’ironia commentando la sfiducia delle popolazioni locali nei confronti delle promesse del governo.

«I calabresi hanno ragione di diffidare», disse, «perché spesso alla prima pietra non segue la seconda».

La cava dei Mancuso e il ruolo dei Piromalli

Ma in quella circostanza non an­dò così. Alla prima ne seguirono altre e poi altre ancora, molte delle quali provenienti da una cava tra Nicotera e Limbadi che abilitò i Mancuso di Limbadi alla conquista del vibonese. Si scrisse che i Piromalli di Gioia Tauro per mettere le mani sulle quelle pietre diedero dei soldi a don Ciccio Mancuso per comprare e poi sfruttare quel pezzo di montagna di granito fatta saltare con la dinamite. Un’opera­zione che fece con volare i Mancuso ai tavoli che contavano della ‘ndrangheta calabrese. Il comple­tamento del porto avvenne ben 13 anni dopo con un costo stimato di quasi mille miliardi di vecchie lire. Una cifra mostre per allora. Quel 25 aprile il palco era stato allestito dal comune di Gioia Tauro in C.da Vota proprio davanti alla distesa di agrumeti già espropriati e da­vanti al piccolo paese di Eranova che nonostante la tenace resistenza degli abitanti verrà spazzato via dalle ruspe. Si dava quindi il via a quella che veniva ritenuta essere l’avvio dell’industrializzazione calabrese. Il porto costituiva l’asset principale per la realizzazione del Quinto Centro Siderurgico partorito dopo i moti di Reggio Calabria del 1970.

Le resistenze dell’Iri e di Confindustria sul Quinto Centro Siderurgico

Allora c’era da combattere, per avere ragione delle ultime resistenze sulla strada della realizzazione dell’impianto siderurgico, provenivano dall’Iri, dalla Confindustria e da alcuni settori delle forze politiche di Governo e di opposizione. Il porto fu finito, ma del siderurgia che avrebbe all’impiego di 7500 posti di lavoro non si vide nemmeno l’ombra. Il Cipe aveva deliberato per la costruzione del porto 178 miliardi di lire che, presto, a suon di perizie e varianti, si moltiplicarono. Nonostante tutto, tra le potreste della gente di braccianti e operai già allora dubbiosi che la siderurgia effettivamente si realizzasse, che issarono cartelli “Non basta la prima pietra, il quinto centro non ce lo darà nessuno”.

«Tutte le preoccupazioni e le perplessità della popolazione della zona e, allo stesso tempo, la piena consapevolezza che quanto finora sia è ottenuto è frutto delle lunghe lotte popolari (anche contro le provocazioni fasciste che qui spalleggiano gli agrari) – scrisse nella sua cronaca sull’Unità Franco Martelli allora – sono state espresse a nome della Cgil, della Cisl e della Uil dal compagno Alvaro il quale ha, anche, chiaramente indicato l’esigenza che la lotta prosegua per battere tutte le resistenze e avviare veramente la costruzione del Quinto Centro Siderurgico. Né – ha aggiunto ancora Alvaro – il conto coi lavoratori calabresi da parte del Governo può chiudersi qui, dal momento che anche altri impegni assunti sono ancora in gran parte da realizzare».

Una passerella per tutti

Durante la cerimonia presero la parola i dirigenti locali del Pci, del Ps, della Dc e della Psdi e il presidente della Regione Ferrara e il sindaco di Gioia Tauro Gentile. Come sospettavano gli operai, il Quinto Centro Siderurgico sparì ben presto e le sole opere realizzate furono il porto, la Diga sul Metramo e la Superstrada Jonio-Tirreno. Perché? Primo perché, allora, la siderurgia era già in crisi per cui realizzare un altro impianto siderurgico era praticamente inutile e, secondo, perché quelle opere civili servirono ad altro e cioè a far dare alle famiglie di ‘ndrangheta il salto di qualità, trasformando la loro dimensione agro pastorale in vere e proprie imprese criminali: nacque in quel modo la “‘ndrangheta imprenditrice”, che cominciò a mettere le mani sui cantieri con le guardianie e successivamente, grazie ai subappalti, a divenire unici fornitori di servizi ai mega Consorzi edili che stavano per realizzare il porto imponendosi con le forniture di cemento, movimento terra, ferro e altro. I boss divennero “imprenditori”, comprarono camion e ruspe e misero le mani sulla montagna di miliardi destinati alla costruzione del Porto, della Diga e della strada tra i due versanti della Provincia reggina.

Il progetto del Porto

Il progetto per la costruzione del porto prevedeva la realizzazione di “un canale della larghezza di galleggiamento variabile da 250 a 350 metri e della lunghezza di 3200 metri, che doveva avere regine dal bacino d’ingresso proteso a mare e protetto a due moli foranei convergenti. I quali formeranno un’imboccatura della larghezza di 300 metri al galleggiamento e di 220 metri a quota meno quindici metri. Il molo Nord, lungo 950 metri, raggiungerà con l’unghia della scarpata esterna il fondale di meno 50 metri, mentre quello Sud si spingerà fino a 440 metri dalla battigia raggiungendo un fondale di 35 metri. L’avamporto avrò un cerchio di diametro di 800 metri per l’evoluzione del naviglio all’attracco, mentre il banchinamento è previsto per oltre cinque chilometri, di cui tre saranno adibiti alle necessità del Centro siderurgico. Per le sue caratteristiche, il costruendo porto consentirà l’attracco di navi fino a 80mila tonnellate.

Tutte le infrastrutture al servizio dell’agglomerato di Gioia Tauro interessano una superficie di oltre 500 ettari; il consorzio industriale ha, fino a oggi, acquistato la disponibilità dell’area interessata alla realizzazione della prima fase dei lavori del porto, la cui ultimazione è prevista entro 40 mesi.

Per l’esecuzione dell’opera si calcola che saranno impegnate oltre duecentomila giornate lavorative. Si prevede che, entro il 1978, il complesso delle opere portuali e delle altre infrastrutture generali (con un ulteriore investimento globale di oltre 200 miliardi di lire) sarà completamente ultimato. Di tempo per finirlo ci sono voluti non 40 mesi, ma quasi 160 e quella somma totale di 200 miliardi in totale non bastò manco a realizzare meno di un quarto delle opere previste. La “grande piscina”, come veniva troppo affettuosamente chiamata in zona, nella quale brulicavano le cozze e le ostriche, restò tale per alcuni anni, prima che qualcuno pensò di utilizzarlo come terminal carbonifero, osteggiato per anni dalla popolazione. Poi arrivò il transhipment! Ma questa è un’altra storia. (ma)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud]

 

 

FESTA LIBERAZIONE: “MEMORIA È LIBERTÀ”
80 ANNI FA LA VITTORIA SUL NAZIFASCISMO

di SANTO STRATI – Ai piedi del bel murale dello street artist Daniele Geniale che campeggia a Reggio su un palazzo di piazzale Botteghelle c’è scritto “Memoria è libertà”: non c’è espressione migliore per celebrare gli 80 anni dalla Liberazione dal nazi-fascismo che si celebrano oggi. La memoria non deve scemare né cedere il passo a facili assoluzioni ex-post.

Il ventennio non ha alcunchè di giustificabile, a partire dalle infami leggi razziali per finire alle tante vittime della follia nazista “adottata” in modo ancora più follemente atroce dal regime mussoliniano.  Non si può e non si deve dimenticare il sacrificio di tanti giovani che hanno donato la vita per ridarci la libertà perduta. Il 25 aprile costituisce la laica rappresentazione del culto della libertà e niente e nessuno potrà mai giustificare omicidi, violenze, prepotenze e quant’altro il “male assoluto” ha lasciato alle sue spalle.

Purtroppo la guerra civile tra rossi e neri non si è mai conclusa: l’antifascismo, qualche volta, è diventato un trend modaiolo per qualcuno in cerca di visibilità, ma invece esprime la “resistenza” che non finirà di essere attiva per fermare qualsiasi rigurgito (anche se impossibile) di dittatura e regimi a senso unico.

La nostra democrazia è stata conquistata col sangue e la Carta Costituzionale è il suo passaporto di accesso a una libertà che nessuno può minimamente pensare di limitare o soffocare. L’Italia deve guardare al futuro, anche se la “riappacificazione” in realtà non si è mai realizzata: dopo 80 anni dobbiamo consegnare alle nuove generazioni un messaggio di pace e libertà da difendere a ogni costo. (s)

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MEMORIA COMPLESSA MA VERA
LA RESISTENZA NON SOLO LOTTA ARMATA
MA ANCHE UNA SCELTA ETICA

di SASÀ BARRESI  – Quest’anno celebriamo un anniversario speciale: ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. L’80° 25 aprile non è solo una data della memoria, ma una lente potente attraverso cui leggere il presente.

Che cosa accadde davvero il 25 aprile 1945?

La Liberazione non avvenne in un solo giorno. Fu un processo, un’onda partigiana che travolse città e paesi del Nord Italia nel giro di pochi giorni.

Il 25 aprile non fu vissuto allo stesso modo in tutto il Paese. Al Sud e nel Centro, liberati ben prima, il conflitto si era già allontanato nella memoria. Nel Nord, invece, si respirava il sapore amaro della lotta, della paura, della speranza riconquistata. Non esiste un solo 25 aprile, ma tanti. Ognuno con la sua geografia e la sua emozione.

Ecco perché, ancora oggi, la memoria del 25 aprile non è mai un racconto semplice o univoco. È una memoria complessa, a tratti lacerata, ma proprio per questo vera. Ed è proprio questa complessità che dobbiamo abbracciare, non rimuovere.

Anche se qualcuno proclama che non dobbiamo più ricordare la Festa della Liberazione, in un mondo in cui la guerra è tornata a sfiorarci, e le minacce alla libertà si presentano in nuove forme, il 25 aprile non è nostalgia, ma coscienza civile.

Dobbiamo ricordare che la Resistenza non fu solo una lotta armata: fu una scelta etica, collettiva, popolare, capace di immaginare un’Italia diversa.

La Costituzione che oggi ci guida nasce da quella scelta. Da quella corsa verso la politica necessaria ogni volta che la società deve salvarsi da una grave malattia.  Oggi, l’eredità del 25 aprile ci interroga: a che punto siamo con la nostra libertà? Con la nostra democrazia? Che cosa vuol dire oggi “resistere”? Forse è scegliere la giustizia quando conviene voltarsi dall’altra parte. Difendere i diritti quando sembrano scomodi. Educare alla pace in un tempo segnato dal conflitto.

Ottant’anni dalla liberazione dal Nazifascismo. Ottant’anni di libertà, indipendenza e democrazia. I valori antifascisti su cui si fonda la Costituzione della nostra Repubblica. E il sacrificio dei partigiani nella lotta per la Resistenza. Ecco cosa si festeggia il 25 aprile, Festa della Liberazione.

Ottant’anni dopo, la Liberazione non è finita. È ancora in cammino.

 

LE “IGNAVIE” POLITICHE CHE CONDANNANO
L’ARCO JONICO ALL’OBLIO: SERVE SINERGIA

di DOMENICO MAZZA – Da qualche anno, con non poche difficoltà, si è fatta forte la volontà di immaginare un contesto allargato che partendo dall’attuale Provincia di Crotone spaziasse lungo l’area della Sibaritide fino a lambire la Lucania.

Un nuovo perimetro d’area vasta, ma a saldo zero per lo Stato, per accomunare i territori omogenei del Crotoniate e della Sibaritide sotto un unico contenitore amministrativo coordinato da due Capoluoghi di riferimento: Crotone a sud, Corigliano-Rossano a nord.

Una biogeocenosi territoriale che dalle comuni radici storiche basasse la propria azione amministrativa sui diversi punti di contatto tra gli ambiti componenti la vasta area, per creare la sintesi perfetta in un distretto policentrico e plurale. Un processo geo-politico, quindi, al fine di riequilibrare su principi di pari dignità, territoriale e demografica, gli ambiti dei Capoluoghi storici calabresi con la nascente geolocalizzazione dell’Arco Jonico sibarita e crotoniate.

 

Sibaritide-Pollino: idea ammuffita dalla storia e rispolverata da una Classe Politica che arranca a stare al passo con i tempi

Tuttavia, un tessuto sociale e un ambiente istituzionale poco predisposti al cambiamento, tendono a sfavorire processi di amalgama territoriale. Si prediligono, invero, visioni decadenti o menefreghismi politici verso progettualità di ampio respiro. A tal riguardo, negli ultimi mesi, lungo la Sibaritide, è tornato in auge il sentimento autonomista che circa 30 anni fa aveva visto uno sterile dibattito politico, poi finito nel nulla, di istituire la sesta Provincia calabrese (Sibaritide-Pollino).

Senza considerazione alcuna della ormai risicata demografia regionale, illuminati da salotto, nell’area che un tempo appartenne alla nobile Sybaris, rimuginano sulla creazione di ulteriori ambienti amministrativi. Di contro, nel Crotonese, con apatia e inerzia, si preferisce soprassedere rispetto a quelle tematiche che potrebbero rappresentare innovativi processi di emancipazione territoriale e di crescita sociale e sostenibile. Si predilige, piuttosto, delegare le forme di protesta a sterili dibattiti social, invece di incalzare le Classi Dirigenti, trincerate nei palazzi e allineate ai diktat del potere centralista consolidato.

Una spocchiosa retorica da bassifondi che divide i territori invece di unirli 

Contrariamente a ogni logica, nella Sibaritide si avverte da tempo un atteggiamento di superiorità nei confronti delle popolazioni del Crotonese. Una spocchia che si manifesta nel sottintendere differenze tra le due realtà, senza però mai esplicitarle chiaramente. Si cercano di narrare fantasiose ricostruzioni che dovrebbero palesare diversità tra i due contesti. Tuttavia, quando si chiedono chiarimenti a riguardo, si piomba in imbarazzanti silenzi.

Verrebbe da pensare, ma non è vero, che storia ed economia potrebbero essere rivendicazioni alla base di presunte superiorità di un ambito sull’altro. Tuttavia, entrando nel merito, si scorgono argomenti che, più che convincere, generano sogghigni: alta densità criminale e ritardo culturale che vedrebbero il Crotonese soccombente rispetto la Sibaritide.

Tali astruse teorie, tuttavia, vorrebbero narrare una concezione che nella realtà dei fatti, però, è diametralmente diversa. Come se i contesti di quella che un tempo fu la ex Calabria Citra fossero illibati o esenti dalle medesime dinamiche che affliggono il Crotonese. O come se il nord-est calabrese fosse custode di chissà quale levatura culturale da sentirsi superiore a un ambito che racchiude quasi tre millenni di storia.

Questa retorica da ghetto ha prodotto un risultato evidente: una separazione netta tra i due ambiti e un non-dialogo che ha reso impossibile qualsiasi forma di collaborazione reale. E, ahinoi, le conseguenze dell’illustrato ghetto culturale sono sotto gli occhi di tutti. Gli assi infrastrutturali terrestri, che avrebbero dovuto unire alto e basso Jonio cosentino e crotonese, sono ancora fermi a un livello inaccettabile.

Una condizione, quella della mobilità negata, che offende la dignità dei Cittadini residenti nell’estremo lembo di levante calabrese. Ormai, diventa sempre più calzante il termine “Altra Calabria” per inquadrare geograficamente la Sibaritide e il Crotonese. Un’area, l’Arco Jonico calabrese, figliastra non solo rispetto al resto del Paese, ma relativamente la stessa Calabria.

Il mancato collante infrastrutturale alla base del ritardo storico dei due territori 

Si pensi a quale narrazione ci sarebbe stata se il Crotonese e la Sibaritide avessero avuto una connessione carrabile a quattro corsie o un asse ferroviario moderno a doppio binario. Sarebbe bastato un intervallo di tempo compreso tra i 30 e i 50 minuti per raggiungere l’aeroporto Pitagora anche dai lembi più periferici dell’estremo nord-est calabrese. Il maggior bacino d’utenza avrebbe consentito allo scalo picchi di crescita notevoli, rendendolo punto di riferimento per la mobilità dell’intera area jonica.

E invece, l’Establishment delle due aree costiere continua a guardare altrove. Si contempla, come se affetti da una degenerata Sindrome di Stoccolma, alle aree vallive dell’Istmo e della val di Crati, anziché cercare alleanze strategiche tra territori omogenei che condividono problemi e potenzialità. I contesti vasti (Area centrale e Area nord Calabria) in cui gli ambiti jonici sono incastonati restano in perenne crisi e sembrano essere ormai un vincolo più che un’opportunità. La provincia Crotonese, troppo piccola e impalpabile, mai realmente svezzata da Catanzaro, arranca a trovare una dimensione.

La Sibaritide, un grande riferimento geografico, ma dalla risicata demografia, resta inquadrata in un contesto provinciale elefantiaco e con cui non condivide alcun tipo di processo economico. Vieppiù, le dinamiche centraliste, tipiche dei Capoluoghi storici di Provincia, avvolgono i territori jonici in una stretta mortale da cui non riescono a divincolarsi. Forse sarebbe il momento di ridiscutere una nuova organizzazione territoriale che tenga conto di realtà più affini, per renderle più produttive e competitive.

Avviare iniziative congiunte tra Corigliano-Rossano e Crotone per sensibilizzare le popolazioni sui problemi comuni 

Negli ultimi tempi, strutture politiche e organizzazioni datoriali, spesso e volentieri, stanno organizzando iniziative congiunte tra Corigliano-Rossano e Castrovillari per discutere di questioni dirimenti per il territorio. Tra gli argomenti oggetto dei dibattiti figurano: alta velocità ferroviaria, difficoltà di accesso alle aree interne, trasversali stradali pensate e mai realizzate e molto altro.

Nessuno, tuttavia, ha pensato ad analoghe iniziative che coinvolgano Corigliano-Rossano e Crotone. Le due Città, non solo rappresentano i principali centri urbani dell’Arco Jonico, ma fanno da confine a una delle più grandi aree interne d’Italia e già inclusa nella Snai (Strategia Nazionale Aree Interne): il Cirotano-Sila Graeca.

Sembra non esserci alcun interesse ad affrontare il disastro infrastrutturale che nell’asse Corigliano-Rossano/Crotone trova la sua più alta espressione. L’inquinamento industriale imposto dallo Stato, tanto a Crotone quanto nella Sibaritide, diventano vessilli da utilizzare solo a ridosso di vuote campagne elettorali. Latitano, invero, pianificazioni sistemiche per tutto il comparto enoico, agroalimentare e per il settore turistico.

Tematiche, quelle citate, che dovrebbero invogliare a trovare soluzioni comuni per unire i lembi jonici, piuttosto che dividerli. Solidarietà, sussidiarietà dovrebbero essere le linee guida di un partenariato pubblico/privato in cui l’agire politico, fedele ai dettami raccomandati dall’Europa, potrebbe favorire processi di coesione sociale ed economica. Forse, più che parlare di differenze tra la Sibaritide e il Crotonese, bisognerebbe concentrarsi su affini interessi e soluzioni condivise. Tuttavia, quanto detto, richiederebbe coraggio, visione e prospettiva; parametri su cui, al momento, le Classi Dirigenti dei due contesti sembrano arrancare.

Fin quando non ci sarà la consapevolezza che la vertenza jonica potrà essere risolta se inizierà un lavoro di sinergie politiche tra Crotone e Corigliano-Rossano, probabilmente la narrazione del territorio continuerà a essere quella di landa desolata e depressa descritta negli ultimi decenni. Contrariamente, l’avvio di azioni cooperative, in virtù della rappresentanza demografica inverata dal territorio unitario di riferimento, potrebbe essere la chiave di svolta per uscire dal ricatto centralista e avviarsi al riscatto sociale.

La sintesi dell’area omogenea composta dalla Sibaritide e dal Crotoniate andrebbe a rompere cristallizzate geometrie che vogliono i due ambiti proni ai desiderata dei rispettivi centralismi storici.

Per Corigliano-Rossano e Crotone dovrebbe essere imperativo pianificare insieme il futuro. Non già e non solo per i rispettivi ambiti urbani, ma per tutto il vasto perimetro che dal Lacinio, passando per la Sila, lambisce la Lucania e che alle due Città joniche guarda come naturali riferimenti. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

CALABRIA CAPITALE DELLA NON LETTURA
NEL GIORNO IN CUI SI FESTEGGIANO I LIBRI

di GUIDO LEONEStudiare tutti e leggere tutti. Dal più anziano al più giovane. Dal Nord al Sud. È quanto si auspica, ogni anno, dal 1996, per la Giornata mondiale del Libro e del diritto d’autore, finalizzata a celebrare i molteplici ruoli del libro nella vita della società umana e per proporre una riflessione seria sulle politiche culturali, dove centrale resta l’educazione alla lettura e l’importanza delle biblioteche intese non solo come luogo di conservazione e di accumulazione, ma come centri vivi di rielaborazione e di produzione di cultura.

Ma, per tradizione, l’Italia è un paese dove si legge poco e finiamo in fondo alla classifica. 

Il 65% degli italiani sopra i 16 anni d’età non ha letto nemmeno un libro nel corso del 2022. Ecco cosa rilevano i dati più aggiornati forniti dall’Ufficio statistico dell’Unione Europea, l’Eurostat, in uno studio che raccoglie le percentuali dei libri mediamente letti dai cittadini del vecchio continente, dove si registra, fra le altre cose, che il Paese in cui si legge di più è il Lussemburgo, dove nel 2022 il 75% degli abitanti sopra i 16 anni ha letto almeno un libro.

Seguono la Danimarca (72%) e l’Estonia (71%). In Italia, invece, questa percentuale è pari al 35%, la terza più bassa del continente, dietro a Cipro (33%) e Romania (29%). Guardando ai grandi Paesi europei, nel 2022 in Francia il 62% dei cugini d’oltralpe ha letto almeno un libro, mentre in Spagna il 54%. Qual è la media europea? il 53%, da cui noi ci distacchiamo di ben 18 punti percentuali.

Le cause di questa condizione sono diverse e vanno dalle scadenti competenze alfabetiche degli italiani, ovvero da quell’insieme di strumenti che consentono capacità autonome di lettura comprensione e interpretazione del testo alla concorrenza del web per i giovani, abituati ad un tipo di fruizione diversa e ad essere sempre connessi, il che non aiuta la concentrazione che richiede la lettura di un libro.

I bassi livelli di lettura sono dovuti anche ad un analfabetismo di ritorno. 

Il libro, dunque, oggetto silenzioso ,insostituibile strumento di cultura, in Italia muore di freddo.

Ma quanti sono gli italiani che leggono?

Preoccupano i dati sulla lettura rilevati dall’Osservatorio di Aie e presentati a ‘Più libri più liberi’. Grosso divario tra Nord e Sud

La qualità della lettura in Italia peggiora, con una netta differenza tra Nord e Sud. Secondo quanto emerge dall’analisi dell’Osservatorio dell’associazione italiana editori (Aie) su dati Pepe Research, il 30% delle persone legge in maniera frammentaria, dedicandosi a tale attività una volta al mese, se non solo in qualche sporadico caso isolato nel corso dell’anno.

Considerati tutti i fattori, il tempo medio settimanale dedicato alla lettura si assesta sulle 2 ore e 47 minuti, contro le 3 ore e 16 minuti dell’anno scorso, e quindi in decisa contrazione. Lo studio è stato presentato in anteprima a Più libri più liberi, la fiera nazionale della piccola e media editoria in corso di svolgimento presso la Nuvola dell’Eur a Roma.

I dati non possono che destare preoccupazione: tra i 15 e i 74 anni d’età, il 73% dichiara di aver letto un libro (anche in formato ebook o audiolibro), anche solo una parte, nel corso del 2024, contro il 74% del 2023. Guardando invece ai soli libri a stampa, il dato cala al 66% (l’anno precedente era al 68%).

Di certo leggono più le donne rispetto agli uomini: 72 contro 60 per cento del campione considerato nella rilevazione. Per quanto riguarda le fasce d’età, invece, leggono di più i giovani tra i 18 e 24 anni (74%), seguiti dai 15-17enni (73%) e 35-44enni (71%).

Nelle otto Regioni (Abruzzo, Molise, Sicilia, Basilicata, Calabria, Puglia, Sardegna e Campania) prese ad esame nella ricerca presentata da Aie e condotta da Pepe Research, leggono libri a stampa, ebook o ascoltano audiolibri il 62% dei cittadini sopra i 15 anni, contro il 77% del Centro-Nord e una media nazionale del 72%. Le librerie che non ci sono e i libri che non si vendono.

Nel Sud e nelle Isole vive un terzo (34%) della popolazione italiana, ma i libri venduti sono meno di un quinto, il 19%. Questi numeri vanno messi in correlazione a quelli delle librerie presenti sul territorio: al Centro-Nord c’è una libreria ogni 15.730 abitanti, nel Sud e nelle Isole una ogni 20.880 abitanti, con ampie aree del territorio non coperte. Il dato varia molto da Regione a Regione, con Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia le Regioni più in difficoltà.

Significativamente, se si chiede agli acquirenti di indicare dove comprano i libri, il 24% di questi nel Sud e nelle Isole indicano come canale utilizzato le cartolibrerie e le edicole, dieci punti percentuali in più rispetto al 14% del Centro-Nord, a testimoniare un ruolo di supplenza sul territorio. Invece le librerie indipendenti nel Sud e nelle Isole sono frequentate dal 21% degli acquirenti, sei punti percentuali in meno rispetto al 27% del Centro-Nord. Le librerie di catena sono indicate come luogo di acquisto dal 48% degli acquirenti nel Sud e nelle Isole e dal 44% nel Centro-Nord.

Qual è la situazione nella nostra Regione?

Si conferma la distanza tra Nord e Sud nell’abitudine alla lettura, che si amplifica quando si considerano i libri: si dichiarano lettori di almeno un libro negli ultimi 12 mesi il 27,9 e il 28,0 per cento dei residenti, rispettivamente, nel Sud e nelle Isole.

La Calabria si trova al penultimo posto nella graduatoria delle regioni per percentuale di lettori: il 24,5%. Di questi , il 46,6% ha letto da 1 a 3 libri, e il 12,8% da 12 o più libri.

Pesante il dato complessivo, sempre per la nostra regione, della percentuale delle persone di 6 anni e più che non hanno letto libri negli ultimi 12 mesi il 71,6% o quotidiani il 74,8% e che portano la Calabria all’ultimo posto nelle graduatoria regionale.

I dati Istat indicano come dall’inizio di questo decennio ci sia stato un calo dei bambini che leggono, comune – anche se in misura diversa – alle varie fasce d’età.

Infatti fanalino di coda sono Calabria (36,7%), Campania (35,4%) e Sicilia (29%) dove appena circa tre ragazzi su 10 hanno l’abitudine di leggere libri.

Inoltre l’Osservatorio Kids dell’Associazione Italiana Editori  secondo l’ultimo rapporto presentato il mese scorso i ragazzi, tra i 10 e i 14 anni, per ogni ora che trascorrono sui libri, ne dedicano 6 a fruire contenuti su smartphone: ogni settimana il tempo dedicato alla lettura è in media di 1 ora e 43 minuti, contro le 10 ore e 28 minuti occupate dallo smartphone.

Dall’altra parte, la concorrenza di tablet e smartphone rende difficoltoso il passaggio dei bambini e poi dei ragazzi alla lettura autonoma: il mercato cala nelle fasce di età più alte e il disinteresse cresce. 

Non va trascurato che questo calo è in parte sovrapponibile agli anni della crisi economica e dell’aumento della percentuale di famiglie in povertà assoluta.

Se i genitori sono lettori, i figli leggono in 3 casi su 4. Se né il padre né la madre leggono, la quota scende a 1 su 3. Per questo il ruolo della comunità educante è cruciale.

In alcune regioni, come Calabria e Sicilia, solo un minore su 3 legge abitualmente. Negli anni scorsi, le rilevazioni di Istat hanno indicato come circa una famiglia su 10 non abbia libri in casa. L’abitudine alla lettura è perciò fortemente influenzata dall’ambiente familiare in cui cresce il bambino. In presenza di genitori che sono lettori, anche i figli leggono, nel 73,5% dei casi. Al contrario, nelle famiglie in cui né il padre né la madre leggono, la quota scende al 34,4%. 3 su 4 i minori figli di lettori che leggono. In assenza di genitori che leggono, la quota scende a 1 su 3 (Istat, 2021).

La Calabria è  prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non ha  libri in casa, il 17% ne possiede da uno a dieci, il 15% da 11 a 25, il 4,5% più di quattrocento.

Anche questo dato è praticamente costante da quasi un ventennio. Di fronte a questa evidenza, si pone il tema di garantire un’offerta pubblica adeguata, in questo caso a partire dalle biblioteche.

La diffusione e il ruolo delle biblioteche

Secondo le statistiche dell’Iccu (Istituto centrale catalogo unico biblioteche) in Italia il numero delle biblioteche per regione al 31 dicembre 2024 ammonta a 13.639, di cui 480 in Calabria, venti in più rispetto al 2023, 146 in più rispetto al 2020.

Il confronto con i Paesi stranieri, però, è deprimente.

Esiste anche un “Sud delle biblioteche”. Più si scende, più la situazione peggiora. Basti pensare che il 51,4% delle biblioteche è al nord, il 20,6% al centro e il 28% al Sud, e oltre la metà delle istituzioni del Mezzogiorno, dice l’Istat, ha un patrimonio librario inferiore ai 5mila volumi.

Le biblioteche, dunque, arrancano. Nel Sud e nelle Isole le biblioteche hanno un patrimonio carente e per questo i prestiti non si fanno. L’indice di frequentazione delle biblioteche nella regione Calabria è dello 0,05%, mentre l’indice di prestito è dello 0,02%. Agli ultimi posti nella classifica delle regioni italiane.

 L’impatto delle biblioteche è decisamente inferiore nel Lazio (3,6) e in larga parte delle Regioni del Mezzogiorno: Sicilia (3,8%), Calabria (3,3%) e Campania (2,4%) mostrano infatti valori molto al di sotto della media italiana.

Riguardo le biblioteche scolastiche, poi, secondo l’Aie, il 97% delle scuole ha dichiarato di avere una biblioteca, ma con limiti tali (mancanza di postazioni internet, assenza di personale specializzato)da renderla spesso inagibile e quindi inutile.

Non c’ è dubbio che va sollecitata una nuova stagione della lettura e del libro nel momento della massima espansione della comunicazione televisiva e multimediale.

A fronte di questa comunicazione immediata e necessariamente elementarizzata, la lettura del libro può e deve svolgere una funzione di riequilibrio delle capacità riflessive ed espressive di più ampio e penetrante dominio del linguaggio e del pensiero.

Questo equilibrio qualitativo si può realizzare soprattutto nei luoghi deputati della preparazione e promozione della cultura, rappresentati dalla scuola, dalle biblioteche e dai musei che potranno assumere funzione continua di vivai culturali.

La buona salute del libro invece è fondamentale per la crescita culturale del Paese, non può essere una seconda scelta. I Paesi in cui si legge di più sono anche quelli in cui si consuma più musica, più giornali, si va più al cinema e a teatro.

Nella scuola e negli studenti manca l’abitudine al leggere. Non basta studiare testi, bisogna leggerli, commentarli, discuterli. I libri vanno “vissuti” nell’ambito scolastico perché lettori si diventa. Imporre la lettura come un dovere è soltanto un disincentivo:leggere deve essere un piacere.

Insomma, è impensabile risalire la china senza affrontare questo focolaio di sottosviluppo che è la scarsa diffusione degli strumenti dell’informazione e della cultura. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

 

ADDIO A PAPA FRANCESCO: FINO ALLA FINE
A CERCARE LA PACE, INSEGNANDO L’AMORE

di SANTO STRATI  – La “scorribanda” sulla Papa Mobile la domenica di Pasqua, fra i fedeli a Piazza San Pietro, ci aveva fatto illudere, dopo tanti giorni di grande apprensione, che la crisi fosse superata e Papa Francesco stesse recuperando  in maniera formidabile. È stato un momento di grandissima emozione che il sommo pontefice ci ha avuto donare, forse perché aveva intuito o capito che la fine era ormai prossima.   

Abbiamo sofferto e pregato tutti dal primo giorno del suo ricovero al Gemelli e in più di un’occasione s’era temuto il peggio. Poi il rientro in Vaticano e le uscite estemporanee, con un filo di voce, a far sentire che il Papa erà lì, a rappresentare la Chiesa nel mondo, nel minuscolo, ma fondamentale, Stato Vaticano, una voce discorde sulla guerra inarrestabile. Ovunque essa fosse. Ben 66 i conflitti in corso e Francesco soffriva per la popolazione inerme e pregava contro la stupidità degli uomini.

È stato il papa che ha meglio interpretato il senso francescano della carità e della solidarietà. Ha mostrato un percorso da seguire invitando tutti a prendersi cura degli altri (cura comune, la cosiddetta “concuranza” – termine coniato dalll’accademico pontificio Mauro Alvisi) che spinge al bisogno di fratellanza e amore.

Il suo è un messaggio di pace e fraternità che dovrà scuotere i grandi della Terra. (s)

DISABILITÀ NELLE SCUOLE, LA LEGGE È OK
MA SERVONO RISORSE E NUOVO PERSONALE

di GUIDO LEONEIl tema della disabilità continua ad essere uno dei più difficili da affrontare nel nostro sistema scolastico, nonostante l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisca da tempo un punto di forza del nostro sistema educativo. Anche se esiste una normativa che esige la piena inclusione scolastica, sono evidenti e persistenti da tempo varie criticità di non poco conto, dalla insufficiente assistenza in classe  alla presenza di barriere architettoniche, alla carente formazione degli insegnanti di sostegno, agli inadeguati e talvolta assenti servizi  di supporto, che  le varie indagini nazionali evidenziano impietosamente.

Incremento continuo degli alunni disabili anche in Calabria

Nel frattempo nelle scuole italiane aumenta di anno in anno il numero degli alunni disabili come fa notare il Ministero dell’Istruzione secondo cui in questo anno scolastico gli alunni disabili presenti  negli istituti italiani di ogni ordine e grado statali sono 331.124, sul totale di una popolazione scolastica di 7.073.587 allievi, evidenziando  un incremento di 19.923 unità rispetto all’anno precedente e concentrati per lo più nella scuola primaria 123.436. A seguire la secondaria di II grado con 94.680, la secondaria di I grado con 89357 ed infine la scuola dell’infanzia con 23.651. 

Anche in Calabria e nella Provincia di Reggio

Nelle classifica delle regioni italiane sui numeri della presenza degli allievi disabili  la Calabria si colloca al decimo posto con 10.755 unità, 791 allievi in più rispetto all’anno precedente; un incremento continuo come si può ben notare (erano 6.591 nel 2014/15; 6.457 nel 2013/14; 6.224 nel 2012/2013).

Nella nostra regione gli allievi in questione sono così distribuiti: nella scuola dell’infanzia 944, nella primaria 3.843, nella scuola media di primo grado 2.677, nelle scuole superiori 3.291.

Gli allievi portatori di handicap nelle scuole della provincia di Reggio Calabria sono in tutto 3.560 anni, così distribuiti: 245 nelle scuole dell’infanzia, 1.230 nella primaria, 854 nella media di primo grado, 1.231 nelle superiori.

Aumenta anche il contingente degli insegnanti di sostegno

Ma, aumenta, al contempo, il contingente dei docenti di sostegno: questa figura è molto importante non solo per il processo formativo dell’alunno disabile, ma anche per promuovere il processo di inclusione scolastica.

Sono quasi 205.253mila, più 10.772 rispetto all’anno precedente, per  331.124 studenti disabili  Si prendono cura ogni giorno di bambini e ragazzi con i disturbi più disparati e mandano avanti la scuola italiana, contribuendo a realizzare quella che in Europa definiscono una eccellenza del sistema scolastico italiano. Certo non tutti i numeri sono positivi, nel senso anche che troppo docenti, almeno il 40% del totale, sono ancora precari.

In totale in Calabria risultano 8.260 posti di sostegno, più 1.658 rispetto all’anno precedente

Dal report sulla inclusione scolastica nel 2024, pubblicato dall’Istat a marzo scorso, emerge che per quanto riguarda le ore di sostegno a livello territoriale si osservano differenze per tutti gli ordini scolastici, con un numero di ore maggiore nelle scuole del Mezzogiorno (17,3 ore, +3,4 rispetto alle 13,9 del Nord). 

Il 3,7% delle famiglie ha presentato ricorso al Tar, ritenendo l’assegnazione delle ore non adeguata. Nel Mezzogiorno i ricorsi risultano più frequenti (5,1%), mentre nel Nord la quota scende al 2,7%.

Elevata la discontinuità nella didattica: più di un alunno su due (il 57% degli alunni con disabilità) ha cambiato insegnante per il sostegno da un anno all’altro, l’8,4% nel corso dello stesso anno scolastico.

Il rapporto Istat evidenzia, poi, la necessità della implementazione degli assistenti alla autonomia e alla comunicazione che affiancano gli insegnanti di sostegno, si tratta di  una figura fornita dagli Enti territoriali. La distribuzione sul territorio risente dell’ammontare delle risorse della spesa sociale dei comuni allocata per finanziare questo tipo di servizio. Se a livello nazionale si registrano quattro alunni per assistente, in Calabria il rapporto è al 4,3%. 

La domanda di assistenza non è totalmente soddisfatta: oltre 15mila studenti (il 4,2% degli alunni con disabilità) avrebbero bisogno del supporto di un assistente all’autonomia e alla comunicazione, ma non ne usufruiscono.

Le criticità strutturali e infrastrutturali

Il rapporto Istat fotografa ,poi, le criticità del pianeta disabilità dove si evidenzia che Il 75,2% delle scuole primarie e secondarie dispone di postazioni informatiche adattate alle esigenze degli alunni con disabilità. In Calabria la percentuale è de 76,4%.

Tra le scuole che dispongono di postazioni informatiche, per quanto riguarda la Calabria  la collocazione in classe si registra nel 48,2% delle scuole, in laboratori specifici nel 59,7%, in apposite aule di sostegno nel  27,5% delle varie istituzioni scolastiche a fronte di una media nazionale,  in tal caso, del 42,6%.

Sono ancora molte le barriere fisiche presenti nelle scuole italiane: solamente il 40,5% degli edifici scolastici risulta accessibile per gli alunni con disabilità motoria. In Calabria la percentuale è del 34,6%. Non accessibili per la presenza di barriere fisiche invece sono il 48,3%.

Più critico l’accesso per le persone con disabilità sensoriali. 

Infatti, l’accessibilità degli spazi deve comprendere anche gli ausili senso-percettivi destinati all’orientamento degli alunni con disabilità sensoriali: solo l’11,1% delle scuole calabresi dispone di segnalazioni visive per studenti con sordità o ipoacusia, mentre le mappe a rilievo e i percorsi tattili, necessari a rendere gli spazi accessibili agli alunni con cecità o ipovisione, sono presenti entrambi solo nel 2,2%% delle scuole della nostra regione.

Il dettaglio delle tipologie di disabilità

Il problema più frequente è la disabilità intellettiva che riguarda il 37% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado attestandosi rispettivamente al 42% e al 48%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (32% degli studenti), che aumentano nelle scuole del primo ciclo, in particolare nella scuola dell’infanzia (57%).

Frequenti anche i disturbi dell’apprendimento e quelli dell’attenzione, ciascuno dei quali riguarda quasi un quinto degli alunni con disabilità, entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 26% e il 21% degli alunni). Meno frequenti le problematiche relative alla disabilità motoria (10,5%) e alla disabilità visiva o uditiva (circa 8%), con differenze poco rilevanti tra gli ordini scolastici. 

Il 39% degli alunni con disabilità presenta più di una tipologia di disabilità, questa condizione è più frequente tra gli alunni con disabilità intellettiva che, nel 54% dei casi, vive una condizione di pluridisabilità. 

Quasi un terzo degli studenti (28%) ha, inoltre, un problema di autonomia con difficoltà nello spostarsi

Analoga situazione è riscontrabile nella provincia di Reggio Calabria dove prevale la minorazione psicofisica.

Rilevanti, anche, i numeri relativi ai disturbi specifici dell’apprendimento

Aumentano anche nelle statistiche i dati relativi ai disturbi specifici dell’apprendimento.

In effetti, dopo il ritardo mentale nella tipologia dei problemi degli alunni con disabilità risulta al secondo posto il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), una sindrome che si manifesta con la difficoltà di imparare la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento.

Troppo spesso l’individuazione e il riconoscimento dei sintomi tardano: nella scuola secondaria di primo grado ,secondo i dati ministeriali,  il 4,2% dei ragazzi è affetto da Dsa, a fronte dell’1,6% nella primaria, del 2,5% nella secondaria di primo grado e del 2,1% totale nazionale.

Ma a seguito del tardivo riconoscimento si complica nel frattempo il rendimento scolastico del bambino o del ragazzo affetto da Dsa, caricandolo così di ulteriori disturbi emozionali e comportamentali ma anche facendo crescere il disagio delle famiglie.

Nelle scuole italiane, però, ci sono anche studenti riconosciuti come Bes, ovvero che hanno Bisogni Educativi Speciali. Ovvero ragazzi e ragazze ai quali, si legge sul sito del Miur “per motivi fisici, biologici, fisiologici o ance per motivi psicologici, sociali, è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”.

In questa categoria, ad esempio, rientrano gli studenti dislessici, disgrafici e discalculici, ma anche quelli con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Adhd).

In Calabria, come da report Istat già citato, nelle scuole dell’infanzia si registra una presenza di alunni Bes dello 0,7%, nella primaria del 3,4%, nella scuola media del 6% , nelle scuole superiori del 4,7%.

Come visto persistono delle criticità di e lacune, che non facilitano il percorso della inclusione scolastica degli allievi con disabilità. La predisposizione di posti di sostegno adeguati, la formazione dei docenti delle materie disciplinari in tema di pedagogia inclusiva, discontinuità didattica, un terzo degli insegnanti di sostegno non ancora specializzato. E poi la inadeguatezza delle strutture, dei supporti didattici e del personale di assistenza.

Tuttavia qualche importante novità si registra sulle misure  adottate dal Ministero dell’Istruzione finalizzate a garantire la continuità dei docenti a tempo determinato su posto di sostegno per l’anno scolastico 2025/2026. Le famiglie potranno avanzare la loro richiesta al dirigente scolastico entro il 31 maggio 2025. Una innovazione di non poco conto.

Tuttavia necessita un nuovo welfare  regionale, perché si apra una fase nuova. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

IL DIVARIO ASSURDO SULLA MOBILITÀ TRA
NORD E SUD: PERCHÈ SERVE CAMBIO PASSO

di LEANDRA D’ANTONEIl divario tra Centro-Nord e Sud nella dotazione e nella qualità delle infrastrutture della mobilità è ancora talmente vistoso da essere unanimemente denunciato, anche se purtroppo si tende ad indicarne le ragioni o in politiche pubbliche sin dall’Unificazione ostili al Mezzogiorno o in una presunta vocazione antropologico-culturale ultrasecolare del Sud all’arretratezza economica e civile.

Le politiche trasportistiche dello Stato italiano, al contrario di quanto dai più ritenuto, sono state per tutta l’età liberale sostanzialmente equilibrate verso le diverse aree territoriali italiane, interessare a valorizzare le risorse di ogni tipo ai fini della formazione della ricchezza nazionale. È significativo che alla vigilia della prima guerra mondiale l’Italia, dipendente dall’estero per le materie prime e capitali, fosse riuscita a pareggiare i conti con l’estero grazie alle esportazioni agricole, agroindustriali e minerarie di tutte le regioni italiane, particolarmente di quelle meridionali, ai noli della marina mercantile e alle rimesse dei milioni di emigrati oltre l’Atlantico partiti soprattutto dal Sud Italia.

La movimentazione delle merci in un sistema di scambi globali disponeva allora di un efficiente sistema intermodale ferrovia-mare, la rete ferroviaria attraversava l’intero territorio italiano ed era connessa con i principali porti del Mezzogiorno e delle grandi isole. Non si ricorda abbastanza che la spesa dello Stato italiano per infrastrutture di trasporto fu per oltre mezzo secolo equa riguardo agli investimenti ferroviari e che fu addirittura più vantaggiosa per il Sud quella per porti e la mobilità via mare; proprio per assecondare gli enormi flussi internazionali delle merci e degli uomini nel grande spazio della globalizzazione del tempo.

Alla vigilia della prima guerra mondiale il Pil del Sud Italia, nonostante lo sviluppo industriale fosse concentrato nel noto “triangolo” settentrionale, era l’80% di quello italiano, misurando una divergenza ancora fisiologica e non patologica. Nonostante la diversa intensità di diffusione nelle regioni meridionali, nelle più grandi città del Sud i servizi urbani della mobilità non differivano sostanzialmente da quelli del Centro-Nord favorendo l’intensa partecipazione delle classi alte e medie alla vivacità culturale della belle époque e simile accessibilità, non solo locale, ad incantevoli beni monumentali, architettonici, artistici e archeologici.

Alla fine della seconda guerra mondiale il divario di Pil tra Nord e Sud sia aggirava intorno al 50%. Ragioni storiche, due guerre mondiali, l’autarchia e il riarmo, avevano determinato la contrazione degli scambi internazionali, deleteria per il Sud d’Italia peraltro teatro di gravissime distruzioni belliche infrastrutture della mobilità. Tuttavia le prime scelte trasportistiche davvero dualistiche (contro le stesse intenzioni dei decisori) sono iniziate negli anni Sessanta del secolo scorso, paradossalmente nel segno di una idea di corto respiro della modernizzazione del Mezzogiorno.

La divisione dell’Italia in due diversi sistemi di trasporto e la disuguaglianza nel diritto alla mobilità si è radicata in occasione della realizzazione del sistema autostradale nazionale. Rispetto al sistema di rete a pedaggio del Centro-Nord, realizzato dalla Società autostrade a partire dall’autostrada del Sole da Milano a Napoli, l’autostrada del Sud da Salerno a Reggio Calabria, sebbene capolavoro dell’ingegneria, fu realizzata con caratteristiche tecniche “minori” di strada superveloce, di collegamento in gran parte di montagna dovendo servire tre regioni tra Tirreno e Jonio, con più pendenze e dislivelli, senza corsia di emergenza e senza pedaggio. Autostrade di rete e di qualità superiore, localizzate nel Centro-Nord, hanno generato in seguito una rete ferroviaria migliore.

L’Alta velocità ferroviaria, realizzata negli anni Novanta, ha seguito esattamente i percorsi e la logica di rete delle autostrade del Centro-Nord fermandosi specularmente a Napoli e lasciando scoperto tutto il resto del Sud, i cui cittadini e sono ancora oggi costretti all’uso dell’autotrasporto e dell’auto privata per i percorsi più  brevi, e a quello assai più costoso dell’aereo per i collegamenti che nell’altra metà d’Italia si effettuano ormai a cadenze continue e in tempi rapidissimi su treni ad alta velocità a prezzi competitivi (peraltro le offerte low cost, limitatissime, non bastano a coprire gli scandalosi costi dei voli). Tutto questo è noto e talmente grave da aver recentemente reso prioritari, almeno nelle dichiarazioni d’intenti, investimenti nel Sud e nelle infrastrutture della mobilità come impegni fondamentali del Pnrr, attualmente in esecuzione con scadenza 2026.

Raramente sono stati specificamente esaminati gli effetti deleteri di tale dualismo infrastrutturale sulla accessibilità e sulla fruizione dell’immenso patrimonio culturale e artistico delle regioni del Sud. I flussi turistici nel Sud e Isole non raggiungono 1/5 di quelli nazionali; eppure vi si trova un diffuso tessuto di opere e testimonianze storico-culturali di eccellenza e rilevanza mondiale (lo dimostrano i molti siti Unesco al Sud). La qualità della fruizione è legata non solo all’organizzazione delle istituzioni culturali e alla stessa qualità delle comunicazioni locali (spesso gravemente carenti); è un vero handicap l’assenza di quella primaria capacità garantita dai collegamenti principali.

Nonostante notevoli miglioramenti intervenuti negli ultimi decenni nelle politiche europee e nazionali di valorizzazione del patrimonio culturale, il persistente gravissimo divario nel sistema di trasporti tra Centro-Nord e Sud, e soprattutto l’assenza dell’alta velocità ferroviaria in tutte le regioni meridionali inclusa Sicilia (quindi la connessione del Sud ai grandi corridoi intermodali paneuropei), influenza negativamente non solo la fruizione del patrimonio culturale urbano, ma anche dei tanti musei e parchi archeologici delle aree interne.

È significativo che nella classifica per visitatori dei primi 30 siti museali ed archeologici italiani figurino ancora solo 6 siti meridionali, tutti in Campania (quasi tutti nell’area napoletana). Unica eccezione è stata recentemente la Valle dei Templi di Agrigento, la più estesa area archeologica europea e del Mediterraneo, che solo nel 2023 ha superato con oltre un milione di visitatori annui il Museo Egizio di Torino (comunque a fronte degli oltre 12 milioni di visitatori annui del Colosseo). Eppure oltre il 50% dei siti archeologici italiani si trova al Sud; eppure la Sicilia è un parco archeologico a cielo aperto con le sue note numerose aree archeologiche patrimonio dell’Unesco.

Un esempio lampante della correlazione critica indicata è il caso dei Bronzi di Riace. Restaurati a Firenze nel 1980 ed esposti per 6 mesi al Museo archeologico di Firenze hanno avuto in 6 mesi oltre 400.000 visitatori; quindi, esposti al Quirinale, in soli 12 giorni hanno avuto 300.000 visitatori. Dal momento del trasferimento al Museo archeologico di Reggio Calabria ad oggi, il picco in un anno ha raggiunto 230.000 visitatori, con concentrazione nella stagione turistica estiva. È che valorizzazione del patrimonio museale e archeologico nel Sud è notevolmente cresciuta negli anni Novanta grazie ad un risuscitato ”orgoglio culturale” dei sindaci (di diverso colore politico) di molte città meridionali verso i tanti beni culturali in passato sottoutilizzati e persino colpevolmente deteriorati in decenni di degrado dell’urbanistica e dell’amministrazione locale; e grazie alla centralità della valorizzazione dei beni culturali e ambientali della Nuova Programmazione per il Mezzogiorno a cura del Dipartimento per le politiche di coesione e sviluppo con fondi europei, istituito nel 1998 da Carlo Azeglio Ciampi e affidato alla direzione di Fabrizio Barca.

Per la migliore accessibilità del patrimonio culturale e artistico sono stati da fondamentali gli investimenti del DpS nella mobilità urbana con la realizzazione di nuove linee metropolitane e in quella di lungo raggio con nuovi aeroporti, oltre che col potenziamento degli aeroporti internazionali esistenti e dei collegamenti diretti con grandi capitali mondiali. Restano tuttavia ancora irrisolti i nodi strategici della disuguaglianza territoriale in ambito nazionale ed europeo. Anche ai fini della valorizzazione del patrimonio culturale, continuo ad essere convinta che rimanga imprescindibile – anche ai fini dell’adeguamento dei collegamenti locali e delle aree interne – la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria e della viabilità sicura e innovativa lungo tutte le direttrici verticali e trasversali meridionali, Sicilia inclusa.

Questo rende imprescindibile la realizzazione del collegamento stabile stradale e ferroviario nello Stretto di Messina il cui progetto – di elevatissimo valore scientifico e positivo moltiplicatore di impatti, colpevolmente più volte accantonato per ragioni squisitamente partitiche, sembra finalmente giunto alla fase di realizzazione. Il progetto di collegamento stabile contiene già nel suo stesso primato tecnologico mondiale, con 3.300 mt di campata unica e due torri alte 399 mt – il valore inestimabile di un bene ingegneristico-architettonico che arricchirà il grande patrimonio culturale meridionale, italiano ed europeo.

Peraltro, la progettazione urbanistica e di riorganizzazione territoriale si è avvalsa e continuerà ad avvalersi del contributo di grandi architetti, come già avvenuto grazie alla partecipazione di Daniel Libenskind, tra i più famosi architetti contemporanei al mondo, cui si devono tra l’altro opere come il Museo ebraico a Berlino e di Ground Zero a New York.

Il Pnrr ha avuto diverse formulazioni e diverse opere sono entrate e uscite da esso, fra cui proprio l’alta velocità ferroviaria fra Salerno e Reggio Calabria, di cui è ora in attuazione a carico del Pnrr solo il tratto campano da Battipaglia a Romagnano. In realtà pur annunciando radicali cambiamenti nella qualità delle dotazioni infrastrutturali del Sud, il Pnrr ha sin dalla sua prima formulazione destinato più risorse a porti, strade e ferrovie del Nord. Inoltre, riguardo alle principali opere ferroviarie in corso anche fuori dal Pnrr, la gran parte della Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania, sono in corso importanti lavori di ammodernamento e la realizzazione della vera alta velocità ferroviaria, quella che includerebbe, con qualità analoghe a quelle del resto del Paese e d’Europa, i cittadini e le risorse del Sud nel sistema della mobilità continentale con pari opportunità, pari diritti e pari libertà. Mi auguro che, essendo in corso la progettazione esecutiva della gran parte dei lotti, si possa ancora correggere l’attuale confuso indirizzo strategico e programmatico.

La piena valorizzazione dello straordinario patrimonio culturale del Sud italiano fa parte di una compiuta visione identitaria europea, per una Unione europea oggi debole anche per aver finora mancato l’originaria promessa istituzionale, socio-economica e geopolitica mediterranea, più che mai indispensabile alla sua stessa sopravvivenza. (lda)