di FRANCESCO AIELLO – In un contesto politico dominato dalle crisi internazionali e dalle discussioni sul ruolo dell’UE nel nuovo ordine mondiale, in Calabria torna d’attualità un tema strutturale: il riordino degli enti locali.
L’occasione è data da una recente proposta di legge regionale presentata dal Partito Democratico finalizzata a promuovere le unioni e le fusioni tra i comuni montani calabresi. L’iniziativa punta a contrastare una delle principali debolezze dell’assetto istituzionale calabrese: la frammentazione amministrativa e le difficoltà croniche nella gestione dei servizi pubblici nei territori più marginali. Più in generale, il tema delle fusioni dei comuni riaffiora periodicamente tra gli interessi sia degli osservatori sia di autorevoli rappresentanti istituzionali.
Lo ha fatto pochi mesi fa il Presidente della Giunta Regionale Roberto Occhiuto (“In Calabria ci sono troppi Sindaci, serve una riforma sui Comuni con pochi abitanti”) e lo ha ripreso in questa settimana il prefetto di Catanzaro, Castrese De Rosa. Con i suoi 404 comuni, l’assetto istituzionale regionale risulta altamente frammentato, con una forte asimmetria tra la Regione – dotata di elevate capacità di gestione e programmazione – e un tessuto comunale caratterizzato da una prevalenza di piccoli enti con limitate capacità amministrative.
L’abolizione delle comunità montane e l’indebolimento dell’azione delle province hanno lasciato un vuoto istituzionale che rende la governance del territorio particolarmente debole e disomogenea. In questo contesto, la proposta del PD assume rilievo non solo per gli strumenti normativi che intende introdurre, ma anche per la capacità di riportare al centro del dibattito un nodo strutturale troppo a lungo trascurato.
La proposta del PD introduce strumenti normativi e incentivi per favorire l’aggregazione volontaria dei comuni montani, riconoscendo la necessità di un modello amministrativo più efficiente e sostenibile per le aree svantaggiate. La montuosità della Calabria è un fattore chiave per comprendere le sfide che attraversano la governance territoriale. Con una quota significativa di territorio classificata come area interna e una larga parte dei comuni definiti montani, la regione si confronta con criticità strutturali persistenti: bassa densità abitativa, carenza di servizi essenziali, scarsa accessibilità e fragilità finanziaria degli enti locali.
In molti di questi comuni si osservano un costante calo demografico, l’invecchiamento della popolazione e crescenti difficoltà nella gestione ordinaria. In questo contesto, la proposta di legge del PD si pone l’obiettivo di incentivare i comuni montani a superare la frammentazione attraverso forme associative più strutturate, come unioni e fusioni, per rafforzare la capacità amministrativa e migliorare la qualità dei servizi ai cittadini.
Uno degli aspetti innovativi della proposta riguarda la regolamentazione del quorum nei referendum per la fusione dei comuni montani, un nodo da tempo discusso nel dibattito sulle aggregazioni amministrative. Il testo del PD stabilisce che una fusione possa considerarsi approvata solo nel caso in cui il voto favorevole prevalga in ciascuno dei comuni coinvolti, superando così il rischio che una maggioranza complessiva sul totale dei votanti imponga la fusione a singole comunità non favorevoli (art. 12).
Nelle intenzioni dei promotori, questa impostazione mira a garantire che ciascuna realtà locale sia pienamente convinta dell’opportunità di unirsi ad altri comuni, rendendo il processo di aggregazione il risultato di una scelta condivisa, non imposta dall’alto. Tuttavia, questo criterio di unanimità potrebbe rendere più difficile il raggiungimento del consenso, poiché anche un solo comune contrario sarebbe sufficiente a bloccare, o rallentare, il processo.
Il modello proposto dal PD si distingue anche per la previsione di incentivi economici specifici a favore dei comuni montani che scelgono di collaborare nell’offerta di servizi o di aggregarsi. La proposta prevede l’accesso a contributi straordinari regionali per dieci anni (art. 14), oltre ad agevolazioni nei bandi regionali per i comuni che gestiscono funzioni in forma associata (art. 6). Sono previsti anche comitati tecnici per lo studio di fattibilità (art. 11) e attività di accompagnamento e supporto da parte della Regione (art. 9).
A queste misure si affianca la Conferenza delle Unioni montane (art. 8), con compiti di monitoraggio e impulso. In un’ottica di rafforzamento della proposta, sarebbe auspicabile l’istituzione di un Osservatorio permanente sulle fusioni e unioni dei comuni, dotato di funzioni tecniche e valutative, così come l’adozione di un Piano Strategico decennale per il riordino istituzionale, utile a individuare in modo sistematico le aree dove avviare processi di aggregazione sostenibile.
In estrema sintesi, dall’esame del testo emerge chiaramente che il principio ispiratore della proposta è quello di concepire i processi di unione e fusione non come una perdita di autonomia da parte dei singoli comuni, ma come strategie condivise e partecipate per garantire continuità amministrativa e rafforzamento della capacità di intervento locale. In questa prospettiva, l’iniziativa del PD rappresenta un contributo rilevante al dibattito sulla riorganizzazione istituzionale della Calabria, affrontando un nodo cruciale per la modernizzazione della governance regionale e la resilienza dei territori più fragili.
Concentrandosi sulle aree montane, il testo si inserisce in una più ampia visione politica del PD calabrese, che da tempo pone al centro dell’agenda regionale e nazionale i temi della marginalità e del riequilibrio tra aree del territorio. Tuttavia, è lecito chiedersi se esistano valide ragioni per ampliare la riflessione sulle fusioni oltre la dicotomia montagna-pianura. In questa direzione, un contributo arriva da un recente studio di alcuni ricercatori italiani (Cerqua et al, 2025) che per il periodo 2001-22 hanno costruito un indice della qualità amministrativa nei comuni italiani (1) Facendo riferimento al 2022, emerge che l’andamento di questo indice dipende, sia in Italia sia in Calabria, molto più dalla dimensione demografica che dalla collocazione altimetrica
. I punteggi medi mostrano, infatti, che i comuni di montagna non presentano livelli significativamente inferiori di qualità amministrativa rispetto a quelli di pianura o collina: in Calabria la differenza di punteggio medio è solo di 0.66 a sfavore dei comuni di montagna. Al contrario, le differenze più marcate emergono tra comuni piccoli e grandi (+5.7), con i primi che manifestano maggiori difficoltà in termini di efficienza burocratica, qualità della classe politica e performance economico-finanziaria.
In questa prospettiva, l’approccio della proposta di legge – focalizzato esclusivamente sui comuni montani – rischia di trascurare un elemento centrale del problema: non è la geografia a determinare le fragilità istituzionali, bensì la scala amministrativa. Una riforma coerente e strutturale dovrebbe, quindi, prendere in considerazione tutti i piccoli comuni, indipendentemente dalla loro altitudine, per garantire un reale rafforzamento della governance locale.
A fronte di queste evidenze, resta da comprendere quale sarà la risposta del Consiglio Regionale e se vi sarà la volontà politica di estendere la riflessione a una riforma più ampia e strutturale, che non si limiti alle sole aree montane, ma coinvolga tutti i piccoli comuni calabresi. La Calabria è davanti a un bivio: restare immobile, lasciando i piccoli comuni al declino, oppure avviare un vero processo riformatore per garantire servizi, rappresentanza e futuro alle comunità locali.
(1) Il Municipal Administration Quality Index (MAQI) è un indice sintetico che misura la qualità delle amministrazioni comunali italiane lungo tre dimensioni fondamentali: la capacità della burocrazia, la qualità della classe politica locale e le performance economico-finanziarie dell’ente. Il primo pilastro considera elementi come il livello medio di istruzione dei dipendenti comunali, il numero di funzionari per abitante, l’assenteismo e il turnover.
Il secondo pilastro si concentra sul profilo degli amministratori locali, valutando il grado di istruzione, l’equilibrio di genere e la composizione socio-professionale. Infine, il terzo pilastro riguarda la gestione del bilancio comunale, attraverso indicatori come la rigidità e la capacità di spesa, l’efficienza nella riscossione delle entrate e la quota di investimenti sul totale del bilancio. Insieme, questi tre pilastri restituiscono una fotografia articolata della qualità istituzionale dei comuni italiani, utile per confronti territoriali e analisi nel tempo. (fa)
[Courtesy Il Quotidiano del Sud]