I SUICIDI IN CARCERE SONO IL FALLIMENTO
DELLE ISTITUZIONI: CHE COSA SI DEVE FARE

di VINCENZO MARRAQuando l’avvocato Pasquale Foti, Presidente della Camera Penale di Reggio Calabria mi ha chiesto di poter dire anch’io qualcosa in merito ad un tema così tanto delicato come quello dei suicidi in carcere, per un attimo, lo ammetto, ho esitato. Non perché non avessi nulla da dire in proposito, anzi. Ma perché credo che si tratti di un argomento talmente tanto complesso da non poter essere condensato in poche battute.

Tuttavia, mi sono domandato quale possa essere il contributo di un amministratore pubblico che prescinda dai soliti stereotipi e si cali, concretamente, nella realtà carceraria per provare a fornire una chiave che non sia solo di lettura, ma anche d’intervento. 

E allora non posso che partire dai dati oggettivi che mi sono stati “sbattuti” in faccia nel momento in cui sono andato a studiarli: solo nel 2024, al 19 giugno, si contano 44 suicidi in carcere. Uno ogni tre giorni. Una persona ogni tre giorni, che si trova in stato di detenzione, decide di togliersi la vita. 

Ma se questo può apparire il dato più problematico, vi assicuro che ne ho trovato un altro che mi ha davvero sconvolto: nel 2023 il tasso di suicidi delle donne detenute è sensibilmente superiore, in termini percentuali, a quello degli uomini. 

Sono quindi andato alla ricerca delle possibili cause di un fenomeno che non accenna a placarsi. Ho letto di marginalità, di patologie psichiatriche pregresse, tossicodipendenza, persone senza fissa dimora. E un particolare: la maggior parte dei suicidi interessa detenuti di nazionalità straniera.

Così, la mia mente è andata subito all’ipotesi secondo cui chi decide di togliersi la vita è probabilmente stanco di una vita carceraria che, nella sua prospettazione, appare molto lunga. Infinita. Anche qui sono stato smentito dai fatti: molte delle persone che si sono suicidate erano in attesa di giudizio. Capite? Ancora in attesa di giudizio, dunque innocenti fino a prova contraria. Altri l’hanno fatta finita dopo brevissimi periodi di detenzione, poche settimane o qualche mese. Altri solo una manciata di giorni. 

Ma c’è un dato – e qui mi soffermo – che mi ha lasciato un senso di fallimento addosso: sono tanti, troppi i suicidi di chi il carcere è in procinto di lasciarlo o per un residuo breve di pena o per una prevista misura alternativa. Si tratta di persona che dovevano rientrare nella società e farlo dopo un periodo che avrebbe dovuto rappresentare per loro una opportunità. E invece, suicidandosi a poche miglia dal traguardo ci hanno fatto comprendere come non sentissero dentro di loro nemmeno il germe della speranza. 

Non mi addentro su questioni come il sovraffollamento, la costruzione di nuove strutture o il miglioramento di quelle esistenti. Lascio che siano i tecnici e i politici di rango nazionale a farlo. Mi domando, piuttosto, cosa la politica locale, un’amministrazione comunale o regionale possano fare per mitigare, per quanto possibile, un simile trend che non accenna a placarsi.

Ritorno alla speranza: ecco, credo che noi dobbiamo essere in grado di fornire a coloro che entrano in una cella il dono della speranza. Che non può e non deve declinarsi solo nell’idea di una uscita quanto più possibile anticipata, ma che deve concretizzarsi nel poter garantire a chi finisce in cella tutta l’assistenza morale e materiale possibile. 

Non dimentichiamo che gran parte di coloro che affollano le carceri sono persone in attesa di giudizio. Dunque presunti innocenti che, per gravi fatti, sono in uno stato di custodia cautelare in carcere. Qui bisogna già intervenire con percorsi che possano aiutare quelle persone a sostenere il peso dell’attesa del giudizio che, lo sappiamo, a volte può essere estenuante, nonostante gli sforzi profusi dalla magistratura. Ma nel loro caso un’amministrazione locale può, ad esempio, approntare una serie di percorsi e progetti che consentano di alleviare quel senso di disorientamento che vive colui o colei che varca per la prima volta la porta del carcere. Così come può essere per chi ci sta finendo non per la prima volta.

La carcerazione, non va dimenticato, rappresenta un fallimento in primis per chi la subisce. Nessuno sceglie di essere carcerato, ma ne accetta il rischio. A volte perché sente – sbagliando – di non avere altre opportunità. Ecco cosa può fare un’amministrazione locale: aiutare concretamente chi lo desidera a poter avere un’alternativa. Una opportunità. Così come coloro che scontano pene definitive. 

Non possiamo più lasciare che il tema della “rieducazione” del condannato possa essere delegata alla sola politica nazionale e agli istituti penitenziari. Io ritengo che occorra una politica diffusa di rieducazione, che coinvolga i territori e faccia sentire protagonista la cittadinanza. 

Di certo si può e si deve tendere al miglioramento delle condizioni carcerarie. Tuttavia questo richiede tempi lunghi che mal si conciliano con l’esigenza di celerità che richiede invece un’emergenza come quella dei suicidi. Allora, in attesa che le istituzioni nazionali affrontino di petto la questione, a livello locale non possiamo rimanere fermi, come già stiamo facendo a Reggio Calabria.

Occorre incrementare e migliorare tali percorsi. Se una politica diffusa e delocalizzata di accoglienza, di opportunità, di alternative, inizierà a diffondersi, migliorerà anche la capacità di ascolto e assistenza dei detenuti. A volte basta poco per salvare una vita e dare una seconda opportunità. Io sono a disposizione e pronto a fornire il mio contributo concreto, poiché sono convinto che, con azioni come quelle poc’anzi enunciate, il numero dei suicidi in carcere potrebbe iniziare a contrarsi già nel breve periodo. (vm)

[Vincenzo Marra è presidente del Consiglio comunale di Reggio]

INTERDIPENDENZA ECONOMICA: CRESCE IL
PAESE SENZA IL BISOGNO DELL’AUTONOMIA

di MASSIMO MASTRUZZOAlla base della interdipendenza economica, ci sono: il riconoscimento di diritti reciproci; il riconoscimento reciproco della legittimità degli obiettivi; la ricerca ed azione di politiche coordinate e concordate tra i territori e le Regioni.

Da qui la convinzione che serva lavorare ad una nuova visione di paese che guardi all’interdipendenza economica come ad una opportunità dalla quale trarre reciproci benefici. 

Ad avvalorare questa tesi v’è uno studio, curato da Srm (Intesa San Paolo) in collaborazione con Prometeia su “L’interdipendenza economica e produttiva tra il Mezzogiorno e il Nord d’Italia – Un Paese più unito di quanto sembri – che mostra come le principali filiere produttive nazionali siano tra loro territorialmente interrelate e come il Mezzogiorno generi spesso spillover di attività per il resto del Paese oltre a contribuire in valore alla forza competitiva dei nostri prodotti all’estero

Ad esempio il “ribaltamento” per ogni 100 euro di investimenti è diverso nelle due direzioni:  se investiti nel Mezzogiorno produco un ritorno (ribaltamento) verso il centro nord del 40,9% (40,9 euro); se l’investimento avviene nel Centro-Nord il ritorno verso mezzogiorno vale il 4,7% (4,7 euro). 

Chi crede e si ispira al criterio di equità: “dare a tutti le stesse opportunità”, dovrebbe lavorare affinché questa nuova visione di Paese sia il pilastro della democrazia, la molla che ne favorisca la diffusione e la base per una crescita morale ed economicamente equilibrata.

 Attualmente invece assistiamo ad un sistema Italia con divisioni e contraddizioni che, in barba a quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, spende di più dove c’è già di più, e meno dove in realtà servirebbe. 

Questo “Sistema Italia ” oltre ad essere moralmente inaccettabile, tantomeno costituzionalmente, non è più economicamente sostenibile. 

Purtroppo non solo si insiste sul mantenimento dello status quo, ma addirittura su un percorso che con l’autonomia differenziata, e in barba alle indicazioni di maggiore coesione sociale dell’Ue, aggraverebbe inevitabilmente la disomogeneità territoriale e segnerebbe definitivamente la fine del Mezzogiorno, mettendo i cittadini del Sud nella condizione di non credere più all’unità stessa del Paese.

L’autonomia differenziata un male anche per le ricche regioni del Nord

L’eccessivo consumo del suolo nel territorio del Nord Italia, è solo uno dei sintomi dell’accentramento di ricchezza in una sola area della Penisola.

Nella sola Lombardia, infatti, viaggia al ritmo di 2 metri al secondo. Con circa 750 nuovi ettari cementificati, pari a 1.100 campi da calcio, la Lombardia è la prima regione d’Italia per consumo di suolo. Il Record nel Bresciano: la provincia di Brescia, con 214,5 ettari consumati in un anno (seconda in Italia dopo Roma), pari al 27% del totale regionale. 

Confermando, quando ve ne fosse ancora bisogno, il nesso tra l’accumulo e la concentrazione di ricchezza con l’inevitabile conseguente danno ambientale. 

È noto infatti che la Pianura Padana è la zona con l’aria più inquinata d’Europa.

Gli alti livelli di inquinamento atmosferico sono causati principalmente dalla forte industrializzazione, dalla concentrazione di allevamenti intensivi di animali, dall’alta densità di popolazione, con la conseguenza che quest’ultima si porta in dote: più automobili, più case che significano più impianti di riscaldamento, e così via. Ovvero altissime concentrazioni delle famigerate polveri sottili PM 2.5.

Senza contare che una delle voci più «pesanti» dell’inquinamento da particolato Pm 2,5, è data dagli allevamenti intensivi di animali. Basti ricordare che uno studio portato avanti da Greenpeace in collaborazione con l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha portato alla luce un risultato molto preoccupante: tra il 2007 e il 2018 gli allevamenti intensivi hanno inquinato come quasi otto milioni e mezzo di automobili.

La Lombardia è la prima regione per numero di suini allevati di tutta Italia. Qui vivono quasi 4,4 milioni di maiali — ovvero il 50% della produzione nazionale. La provincia di Brescia conta più maiali che abitanti. La Lombardia è anche la regione con il maggior numero di capi bovini allevati in Italia: quasi 1,5 milioni, il 27% del totale, concentrati, anche questi, soprattutto tra Bergamo e Brescia. Subito dopo si attesta il Piemonte, con 815 mila capi e il Veneto con 753 mila. L’Emilia Romagna è al quarto posto con 572 mila capi.

Per questi motivi, ma non solo, andrebbe sostenuta la corretta redistribuzione nazionale dell’economia, che grazie all’interdipendenza economica, non toglierebbe nulla ai territori già ricchi, che anzi ne avrebbero un giovamento dal punto di vista dell’ecosostenibilità e della salubrità, rendendo peraltro tutta la nazione economicamente più stabile. (mm)

[Massimo Mastruzzo è del Direttivo nazionale Movimento Equità Territoriale]

AUTONOMIA ED EMERGENZA EDUCATIVA
A RISCHIO LE SCUOLE CALABRESI E DEL SUD

di GUIDO LEONEMentre l‘attenzione delle componenti scolastiche è giustamente concentrata su questa fase conclusiva dell’anno scolastico, non è assolutamente presto cominciare a pensare alla ripartenza del nuovo anno scolastico. Quindi è giusto chiedersi che anno sarà per la scuola italiana, per gli studenti e le studentesse, per tutti coloro che nella scuola lavorano: docenti, personale Ata, dirigenti. Lo facciamo con la consapevolezza che stiamo parlando della infrastruttura sociale fondamentale per il Paese, per il suo sviluppo democratico ed economico, presente ovunque, dalla grande città ai piccoli centri. Lo facciamo perché ci interessa, perché è un patrimonio che ci appartiene e che vogliamo preservare e difendere: la scuola pubblica e perché ,a fronte di due grandi emergenze, poiché ritengo che siano tali, gli effetti dell’autonomia differenziata, se approvata, e l’emergenza educativa, se non adeguatamente affrontata, la porteranno allo sbando.

E la scuola, come si sa , misura lo stato di salute sociale e democratico di un Paese.

La sua missione fondamentale è concorrere all’uguaglianza sostanziale concretizzata dall’articolo 3 della Costituzione, fondamento del principio di solidarietà. Significa cioè che le è affidato il compito di assicurare l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di fare cioè in modo che tutti e tutte partano sulla stessa linea. È lo strumento più potente per combattere le disuguaglianze e nello stesso tempo per assicurare, attraverso gli strumenti della conoscenza, la libertà. È il luogo dell’inclusione perché è aperta a tutti e tutte. Perché è bene ricordare il senso e gli obiettivi della scuola pubblica? La risposta è che questo senso e questi obiettivi si sono persi o fortemente attutiti nelle scelte del decisore pubblico negli ultimi venti anni e nella stessa narrazione pubblica che si fa sulla scuola.

Se passiamo in rassegna le scelte politiche che abbiamo alle spalle, il sistema di istruzione è stato troppo spesso oggetto di tagli e non di investimenti e gli interventi di riforma sempre subiti e non condivisi con coloro che devono farsene carico tutti i giorni: gli insegnanti e il personale della scuola tutto. Infine mi riferisco all’autonomia differenziata che sancirà  gli squilibri che già esistono e li renderà definitivi e insuperabili. Il gap di servizi  nella scuola, e non solo nella sanità, negli asili, in tanti servizi del welfare, nelle risorse di sostegno all’apparato produttivo, etc., diventerà “legittimo”, un privilegio etnico- territoriale immodificabile. Insomma, chi, all’interno della stessa nazione, abita in territori particolari e benestanti ha più diritti di chi invece ha avuto la ventura di abitare in territori disgraziati. La nazione diventa così matrigna per alcuni cittadini e per alcune aree che hanno la colpa di essere cresciute meno di altre. 

È fondata, perciò, la preoccupazione che una deriva regionalistica del sistema di istruzione possa accentuare gli squilibri già oggi esistenti fra le diverse aree territoriali del Paese, con esiti ancor più penalizzanti per quelle economicamente e socialmente più in sofferenza come la Calabria nei suoi vari servizi alla persona. 

La scuola, poi, nell’ultimo decennio è stata investita da una vera e propria sovraesposizione mediatica, e, a seguito dell’imperversare della pandemia negli ultimi due anni, lo è stata ancor di più.

Quindi la società, come del resto la scuola e i professionisti che vi lavorano quotidianamente, è stata costretta in un breve lasso di tempo a fare i conti con una serie di “repentini mutamenti ideologici e valoriali” e di conseguenza a “reinventarsi” per restare al passo.

La scuola è un’interessante cartina di tornasole di tutte le distonie del sistema socioculturale contemporaneo, proprio perché frequentata da migliaia di ragazzi e bambini immersi sempre più nella “liquidità sociale”, che contempla in aggiunta una certa deriva valoriale e il quotidiano bombardamento di messaggi audio/video, diretti e subliminali, che li portano sempre più spesso a scollegarsi dalla realtà, per vivere più comodamente nel confort zone del virtuale tra le quattro mura delle proprie abitazioni.

Allora tra i banchi di scuola, più che altrove, si avverte un senso di “crisi profonda, una crisi che trae origine da lontano, innanzitutto nei valori trasmessi dalle famiglie di appartenenza, (non dimentichiamolo che il primo nucleo educativo della società è proprio la famiglia); pertanto, la scuola si ritrova spesso a supplire a quelle “mancanze” o “manchevolezze” educative essenziali e a dover creare ex novo un canale comunicativo capace di istaurare relazioni tra pari e con gli adulti di riferimento.

C’è una percentuale del 25% di ragazzi che ogni giorno mandano altrettanti messaggi relativi a disagio e alle proprie sofferenze.

Sono gli allievi invisibili, allievi la cui condizione di difficoltà e di malessere non è percepita o è percepita in modo  inadeguato o distorto dagli insegnanti; di minori oggetto di violenze, trascuratezze, strumentalizzazioni.

I minori invisibili non sono quelli che gli insegnanti non possono in alcun modo vedere, ma quelli che in genere non sono visti.

Ciò che risulta invisibile in questi allievi è dunque la radice del loro disagio che sta nelle relazioni familiari o nelle relazioni interpersonali in ambito sociale o scolastico – basta ricordare gli ultimi episodi di violenza nelle scuole tra ragazzi e tra allievi e docenti –  che li condizionano, ostacolando l’apprendimento, alterando la socializzazione, bloccando la crescita.

Gli allievi invisibili diventano spesso dei bambini desaparecidos, ragazzi scomparsi prima dalla mente degli insegnanti, poi dal mondo della scuola e dalle istituzioni educative.

Vogliamo togliere il terreno di coltura? Puntiamo su una “Città educativa, un contesto urbano severamente controllato e testimonianza del lecito e  del consentito praticato.Una città è educativa se è viva, vissuta e vivibile. Il problema allora è politico nel senso etimologico del termine: polis, politikòs che ha nel suo seme il “tutto ciò che appartiene al cittadino nell’alveo dei suoi diritti e dei suoi doveri”.

Se un quartiere è degradato, genera degrado e il degrado genera disagio e il disagio genera inappartenenza. E ciò che non è di nessuno fa sì che qualcuno se ne appropri come spazio della violenza, dove tutto è permesso ai violenti contro i deboli.

Ecco, allora, il ruolo della scuola e il compito della famiglia, il ruolo della Chiesa e delle altre istituzioni obbligate a fornire servizi per il mondo dei fanciulli  degli adolescenti e dei giovani, e di noi tutti adulti: parlare intanto un unico linguaggio, quello pedagogico, dare ai giovani il coraggio e la consapevolezza della loro dignità di persona, il saper inculcare il coraggio dell’altruismo e la voglia del positivo, il creare il convincimento che nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso. 

L’attuale condizione giovanile sollecita, dunque, l’urgenza di dedicarsi alla formazione delle nuove generazioni.

Ecco, ricominciamo da qui. (gl)

 

MELONI E LA QUESTIONE SETTENTRIONALE
L’AUTONOMIA CONTRO L’UNITÀ DEL PAESE

di MIMMO NUNNARI“L’Autonomia differenziata”, sempre che vada in porto, ma non è così tanto sicuro, farà comunque passare il Governo Meloni alla storia per aver risolto la “Questione settentrionale”, cara al Bossi della prima ora, che la lanciò sul prato di Pontida, cancellando con odio e disprezzo  quella storica “meridionale”.  In sostanza il primo governo guidato da una donna dichiaratamente di destra, con nel cuore l’antiregionalismo e la Patria (nel 2014 la leader di Fdi diceva: «C’è un’altra battaglia che ci vogliamo intestare, che è la battaglia per l’abolizione delle regioni»), è come se ora avesse sbagliato questione: confondendo Salvini, l’erede di Bossi, con Salvemini, il padre della questione meridionale. Mutando rotta rispetto alle esigenze di riequilibrio della storia il Governo Meloni  ha imboccato definitivamente la via che porta più risorse al Nord anziché al Sud.

L’ultima cosa da fare in questa oscura faccenda, era – fatto lo strappo – cercare di metterci una pezza per rammendare, come tenta tardivamente di fare il tentennante vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani. Per calcoli personali o politici, o ragioni che ci sfuggono, il leader di Forza Italia ha aderito al patto di spaccare l’Italia, accettando di accelerare all’indomani di aver incassato per il suo partito un ottimo risultato elettorale al Sud, alle elezioni europee, particolarmente in Calabria. Poi, visto il vento impetuoso che si è levato, Tajani ha cominciato a balbettare su improbabili “osservatori”, per  vigilare; cose che lasciano il tempo che trovano. Come chiudere la stalla, dopo che i buoi sono scappati. La pezza che mette il vicepresidente del Consiglio è peggiore del buco. Sarà quel che sarà la realtà è che il Paese è spaccato, socialmente e culturalmente prima di tutto. Interrogarsi, oggi, su cosa accadrà è come guardare dentro la sfera di cristallo, roba da maghi.

Non sappiamo adesso quanto sarà efficace l’azione delle opposizioni, dal Pd ai 5 Stelle, passando per il gruppo di parlamentari di Forza Italia del Sud che hanno mostrato di avere schiena dritta disubbidendo alle direttive della maggioranza. L’unica cosa certa è che il Sud è stato tradito e non servono ipocrisie, promesse di elemosine o finti dispiaceri alla Bonaccini, neo eurodeputato del Pd, storico presidente dell’Emilia Romagna: uno che all’Autonomia, insieme a altri leader del Pd, come Fassino, è sempre stato favorevole. Stando così le cose restano le due Italie: una del Nord, una del Sud, che un Paese lungimirante con mani alla coscienza avrebbe dovuto unire, ma non l’ha mai fatto.

Se passerà definitivamente l’Autonomia le due Italie le avremo per legge e per sempre, tradendo anche lo spirito del Risorgimento durante il quale i padri della patria avevano immaginato un’Italia fondata sui principi di libertà, indipendenza ed unità, un po’ come la desiderava Dante Alighieri, che gli italiani chiamano con affettuoso rispetto, “Padre Dante”: Padre “della lingua italiana”  che nell’evocare il nome d’Italia, il “bel Paese dove il sì sona”, esprimeva una visione nuova dell’Italia, nell’aspettativa di una Patria morale. È vero che con l’Unità siamo diventati italiani tutti assieme, ma non tutti alla stessa maniera, e con la medesima idea di nazione; che è qualcosa da edificare con sentimenti, passioni, scelte e ideali condivisi, sommando diversità e differenze territoriali, tradizioni e culture, per poi armonizzarle fino a farle diventare ricchezza per tutti.

Tutto ciò, dopo più di un secolo e mezzo, non è accaduto e abbiamo continuato a vivere questa malcerta unità che ha generato l’anomalia – unica nell’Occidente – di due patrie diseguali: il Nord e il Sud, accettata da tutti: Governi, politica, media, intellettuali, sindacati, impresa. Bisognava prima sanare questa strana anomalia italiana che ci distingue in Europa e poi pensare all’Autonomia: il punto che non si capisce è questo. Inutile arzigogolare, sulla legittimità del provvedimento. C’è una questione morale e di giustizia, irrisolta da più di centocinquant’anni.

Aspettavamo un Governo che lo capisse e l’affrontasse: ma non è questo. (mnu)

LO SCENARIO INEDITO DELLE CITTÀ ROSSE
IN UNA REGIONE GUIDATA DA FORZA ITALIA

DI SERGIO DRAGONE – La Calabria come la Francia di Mitterrand e Catanzaro come Parigi. Se il presidente socialista francese dovette subire la coabitazione con il primo ministro neogollista Chirac, più modestamente il presidente di centrodestra della Regione Calabria Roberto Occhiuto è da oggi costretto a coabitare con i cinque sindaci progressisti dei Capoluoghi di Provincia (a cui aggiungerei anche quello della popolosa Corigliano-Rossano). Uno scenario totalmente inedito, anche se non sorprendente, visto che anche a livello nazionale il “campo largo” progressista ha conquistato quasi tutte le grandi Città, a dispetto del risultato rassicurante per il centrodestra alle Europee.

La “coabitazione” in salsa calabrese si presta a più di una riflessione.

La prima. Come è possibile che un consenso elettorale molto largo a livello regionale non si trasferisca automaticamente nelle Città? Un interrogativo che diventa ancora più intrigante se si pensa che tre candidati sconfitti, rispettivamente a Cosenza, Corigliano-Rossano e Vibo Valentia, sono ascrivibili alla categoria del cerchio magico del presidente della Regione. Eppure, Occhiuto resta più o meno saldamente nelle prime posizioni come gradimento nelle varie rilevazioni sui Governatori delle Regioni italiane. Si pone dunque un problema di classe dirigente sul territorio del centrodestra e in particolare di Forza Italia?

Una seconda riflessione riguarda la futura “contendibilità” della Regione Calabria alle elezioni del 2026. Se ci fermassimo ai risultati delle Europee, dove comunque il centrodestra fa registrare una flessione rispetto alle regionali, non ci sarebbe partita, anche per via della legge elettorale calabrese che non ammette il voto disgiunto ed è ovviamente a turno unico. Vince chi prende un voto in più. Oggi il vantaggio del centrodestra è abbastanza consolidato e rassicurante.

Ma siamo sicuri che lo scenario tra due anni sarà identico a quello attuale? Siamo sicuri che non ci saranno scomposizioni negli schieramenti e, soprattutto, siamo sicuri che questa volta il fronte progressista non indovini il candidato giusto, dopo i flop di due personalità sicuramente eccellenti, ma digiune di politica, come Pippo Callipo e Amalia Bruni? Dal bouquet dei cinque (sei) sindaci potrebbe scaturire un temibile competitor per Occhiuto se deciderà di ricandidarsi. Li cito in rigoroso ordine alfabetico: Franz Caruso, Giuseppe Falcomatà, Nicola Fiorita, Enzo Romeo, Flavio Stasi e Vincenzo Voce. In realtà, il bouquet si restringe ai soli Falcomatà, Fiorita e Caruso, ognuno con le sue caratteristiche e i suoi stadi di gradimento all’interno delle forze politiche di centrosinistra. Iscritto al PD ma in continuo attrito con il suo partito Falcomatà, rigorosamente socialista Franz Caruso, movimentista con buoni rapporti con PD e Cinquestelle Fiorita. Stasi difficilmente abbandonerebbe Corigliano-Rossano dopo appena due anni, mentre il sindaco Voce sembra più concentrato sulla sua Città.

L’idea che il “partito dei Sindaci” voglia dire la sua, è confermata dall’iniziativa, sollecitata da Fiorita, ma sottoscritta da tutti i sindaci delle grandi città,  di incalzare il presidente Occhiuto sull’Autonomia differenziata con un appello a impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge Calderoli, scavalcando a sinistra PD e Cinquestelle (ma anche Adv) e a destra la fin troppo moderata presidente dell’Anci Rosaria Succurro.

La terza riflessione riguarda l’atteggiamento che il presidente Occhiuto e i cinque (sei) Sindaci avranno vicendevolmente nei rapporti tra la Regione e le loro Amministrazioni. Troveranno una coabitazione tranquilla, nell’interesse della popolazione calabrese, oppure inizieranno una sorta di Vietnam istituzionale, fatto di sgambetti e rancori? È del tutto evidente che la prima opzione è quella che ci aspettiamo perché gli interessi personali e di bottega non possono venire prima di quelli delle comunità che si governano.

In ogni caso, lo scenario calabrese è assolutamente inedito e non è difficile prevedere sviluppi anche inattesi nello scacchiere politico della regione più periferica e inquieta d’Italia. (sd)

AUTONOMIA, MATTARELLA FIRMA LA LEGGE
MA RICORDARSI CHE È UNA SCATOLA VUOTA

di ERNESTO MANCINIE così il Presidente Sergio Mattarella ha firmato il disegno di legge Calderoli (approvato in via definitiva dalla Camera il 16 giugno scorso) che stabilisce le procedure per arrivare alle intese con le Regioni ai fini dell’autonomia regionale differenziata. Pertanto, il disegno di legge sarà promulgato, pubblicato e diventerà legge dello Stato nei prossimi giorni.

È facile prevedere i trionfalismi di Lega & Co che si vanteranno di questo “nulla osta” del Quirinale: “se Mattarella, uomo saggio ed esperto di legittimità costituzionale, ha firmato vuol dire che ha condiviso il contenuto della legge sicché è tutto legittimo nonché perfettamente costituzionale”. 

Non è così.

Bisogna dire a chi millanterà questa firma come implicita certificazione di legittimità costituzionale, che la firma del Presidente su una legge è un “atto dovuto” ed è rifiutabile solo in caso di provvedimenti che si configurano come “attentato alla Costituzione” o che appaiano ictu oculi “palesemente incostituzionali” (per esempio: nuova legge ordinaria che preveda la pena di morte per la quale la Costituzione all’art. 27 pone invece espresso divieto).

Non trattandosi di tali fattispecie estreme, il Presidente ha l’obbligo di firmare senza che ciò in alcun momento significhi condivisione o approvazione della proposta legislativa che gli è stata sottoposta.

Al riguardo va ricordato quanto lo stesso Mattarella ha già avuto modo di insegnare. Nel Corriere della Sera del 4 gennaio 2019 (pag.3), Marzio Breda, tra i più stimati quirinalisti, riportava l’episodio in cui il Presidente, incontrandosi con un gruppo di studenti affrontava il tema del ruolo Capo dello Stato nella firma degli atti del Governo o del Parlamento. Un ragazzo gli chiede: «Quando le capita di firmare atti che non le piacciono come si comporta?». Risposta: «Quando mi arriva qualche provvedimento, una legge del Parlamento o un decreto del governo, io, anche se non lo condivido appieno, ho il dovere di firmarlo. Anche se la penso diversamente, devo accantonare le mie convinzioni perché devo rispettare quello che dice la Costituzione: che la scelta delle leggi spetta al Parlamento e la scelta dei decreti che guidano l’amministrazione dello Stato spetta al governo. E se non firmassi andrei contro la Costituzione. C’è un caso in cui posso, anzi devo non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente con la Costituzione. Ma in tutti gli altri casi non contano le mie idee, perché non è a me che la Costituzione affida quel compito, ma ad altri, al Parlamento e al Governo. E io ho l’obbligo di firmare, perché guai se ognuno pensasse che le proprie idee prevalgono sulle regole dettate dalla Costituzione. La Repubblica non funzionerebbe più».

Ineccepibile e chiarissimo, che più chiaro non si può.

D’altra parte, cosa pensi Mattarella dell’Autonomia Differenziata è già noto dai testi ufficiali dei suoi più recenti discorsi.  

In occasione della sua visita in Calabria del 30 aprile scorso, il Presidente ha avuto modo di affermare che “la separazione delle strade tra le Regioni del Nord e quelle del Sud comporta gravi danni alle une ed alle altre”.

Il 9 maggio successivo identica affermazione nella manifestazione Civil Week di Milano «Una separazione delle strade tra territori del Nord e territori del Meridione recherebbe gravi danni agli uni e agli altri».

Dunque, il Presidente ha firmato la legge Calderoli non avendo poteri interdittivi sulla stessa e non volendo doverosamente fare prevalere le sue idee su quelle del Parlamento. Un grande Presidente, come al solito, perfettamente ligio ai limiti dei suoi poteri costituzionali.

Ed ora cosa succede?

 Va detto che la legge Calderoli è solo una legge “procedimentale” e cioè una legge che segna il percorso per giungere alle intese Stato/Regioni ma che in alcun momento stabilisce le dimensioni di tali intese, la quantità o la tipologia delle materie da assegnare concretamente ed in modo differenziato alle Regioni.

Insomma, una “scatola vuota” (vedi i primi commenti su Repubblica del 26.06.24) che va riempita (o non riempita) di contenuti. Ed è proprio qui che si accenderà lo scontro fra chi vuole il massimo (Veneto – Lombardia, 23 materie con Calderoli tutt’altro che ministro dello Stato ma grand commis o procuratore del velleitarismo regionale) e chi, avendo a cuore l’unità della Repubblica non è disposto a concedere nulla di più di quanto le regioni non abbiano già, ed anche abbondantemente, in base all’assetto costituzionale attuale.

Ed è qui che si vedrà lo scontro tra chi vuole un regionalismo competitivo ed egoistico, foriero di sostanziale separatismo tra regioni del nord e resto d’Italia (non solo sud) e chi vuole, come i nostri Padri Costituenti del 1948, un regionalismo cooperativo e solidale che rechi utilità e progresso per tutto il Paese, nord compreso (artt. 2, 3 e 5 Costituzione). 

È qui che si vedrà come il nuovo titolo V del 2001 non potrà mai essere interpretato ed applicato fino al punto da trasferire le materie concorrenti e strategiche per lo Stato alla competenza esclusiva delle Regioni (istruzione, sanità, trasporti, energia, ecc. ecc.). Verrebbero infatti snaturate le disposizioni del titolo V ed il loro collegamento con gli art. 2,3 e 5 della Costituzione che impongono l’uguaglianza dei cittadini, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica.  

È qui che si vedrà come la questione dei Livelli essenziali di prestazione è solo uno specchietto per le allodole in quanto si tratta di livelli che saranno “determinati” ma tutt’altro che “finanziati” per ridurre il gap tra i vari territori del Paese.

Ha fatto benissimo il Comitato nazionale per il ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti – Tavolo No Ad, a diffidare formalmente il Governo a “non muovere foglia” se prima non vi sarà un quadro chiaro, complessivo, ragionato sotto ogni profilo (sociale, economico, istituzionale) delle concessioni che lo Stato intende fare, per quale motivo e con quali effetti sull’unità della Repubblica e dello stesso interesse strategico dello Stato. Da quel quadro emergerà tutta la irragionevolezza delle pretese regionali ed il caos istituzionale che ne deriverà in caso di cessione, peraltro dichiaratamente asimmetrica.

Non serve impugnare (e l’esito positivo sarebbe molto dubbio) una legge solo procedimentale ma bisogna prevenire e contestare le modalità con le quali questa legge verrà applicata.  Ed il cuore di questa applicazione sono le pre-intese Stato/Regione nelle quali si vedrà quanto i sedicenti patrioti siano disposti a svendere l’unità e l’indivisibilità della Repubblica ai noti secessionisti.

Altra cosa sarà il referendum abrogativo su questa legge Calderoli del 19 giugno u.s e la precedente normativa inserita furbescamente (ma il gioco è già scoperto) nella legge finanziaria n. 197/2022 art. 1 commi da 791 a 891) per impedirne la remissione alla volontà abrogativa della maggioranza dei cittadini. In quel caso non vi è questione di legittimità o meno ma di semplice volontà dei cittadini di mantenere o meno la legge ed ogni eventuale sua applicazione.

Si prospetta, insomma, una lotta dura nella quale l’associazionismo, la dottrina giuridica ed economica preponderante, il parere di tutti gli enti specialisti e le manifestazioni civiche non basteranno. Ci vuole lotta civile, lotta giurisdizionale, lotta politica e referendaria dalle quali nessuno può chiamarsi fuori, come invece è già avvenuto con media e partiti intervenuti solo a misfatto compiuto.

Infine, va detto che Il Presidente Mattarella è Presidente della Repubblica e cioè di un’entità superiore che, a mente dell’art.  114   della Costituzione si compone di Comuni, Città Metropolitane, Province, Regioni e Stato. Ma egli è anche, per espressa denominazione dell’art. 87 della Costituzione, Capo dello Stato, cioè uno dei soggetti di cui si compone la Repubblica. Egli sarà pertanto chiamato a difendere gli interessi dello Stato qualora, come potrebbe accadere in fase di applicazione della legge Calderoli, il regionalismo egoistico sarà favorito da un Governo cedevole, a danno dello Stato, per mera tattica di mantenimento del potere. Ed in quel caso ci troveremmo di fronte alla “manifesta incostituzionalità” oggi non eccepibile. (em)

DROGA, IN CALABRIA È ORA DI RIFLETTERE
SERVE PIÙ PREVENZIONE ED EDUCAZIONE

di GUIDO LEONE – Ieri si è celebrata è la  “Giornata Mondiale contro il consumo ed il traffico illecito di droga” indetta, sin dal 1987, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite  per ricordare l’obiettivo comune a tutti gli Stati membri di creare una comunità internazionale libera dalla droga. Ogni anno è  l’occasione per uno spazio di riflessione e per  chiedere e chiederci, da subito, perché oggi sul tema delle dipendenze grava un deficit d’informazione e di prevenzione.

Questo avviene perché l’uso delle sostanze è entrato in parte nelle maglie della compatibilità del sistema e perché non c’è un vero interesse nei confronti dei consumatori e dei tossicodipendenti, che vengono considerati principalmente come un problema. Tutti coloro che, a vario titolo, vi si ritrovano con le “mani in pasta” sanno bene che il fenomeno continua ad esserci e a manifestarsi in forma sempre più grave. E come riprova, forse, dovremmo avere il coraggio di aprire di più gli occhi iniziando a guardare la nostra città, ascoltando con maggiore compartecipazione gli operatori pubblici e privati del settore dipendenze e, ancor di più, i tanti genitori e giovani che il problema lo vivono in prima persona.

Alla diffusione delle droghe “da prestazione” si affiancano forme di dipendenza più sottili ma non meno dannose. Sono le dipendenze di chi non riesce a trovare un senso alla propria vita, di chi si sente isolato, fragile nel rapporto con se stesso e con gli altri, e cerca di sfuggire come può al proprio malessere.

Ecco allora il triplicarsi in questi ultimi anni dell’uso degli psicofarmaci e degli antidepressivi, l’approccio sempre più precoce all’alcool come veicolo di stordimento, il diffondersi della bulimia e dell’anoressia, disturbi alimentari che nascondono problemi di relazione col proprio corpo e con una immagine di sé che i modelli consumistici vorrebbero ingabbiare in una esteriorità superficiale e anonima. Ecco il sempre maggiore ricorso ai giochi d’azzardo, alle scommesse, alle lotterie. Una sorta di tassa sulla povertà con una ampiezza di offerta tale da favorire gli abusi, la perdita del controllo, la dipendenza. Parlare di dipendenze oggi significa parlare della solitudine e della fragilità di tante persone, della debolezza dei legami sociali e del contatto umano che la crescita del mondo virtuale non può sostituire.

Significa porre l’attenzione sul deficit educativo e culturale. Ma significa anche denunciare la riduzione e in certi casi l’azzeramento delle politiche sociali e la ricaduta sulle persone in difficoltà come su chi opera nei servizi. Così come, di pari passo, la conversione del “sociale” nel “penale”.

Significa evidenziare, ancora, l’immobilismo del Parlamento rispetto a proposte presenti per una riforma organica della legislazione antidroga, oramai superata dalla evoluzione delle forme di dipendenza; l’investimento concreto della politica sanitaria regionale, in ambito dipendenze patologiche, assolutamente insufficiente; l’abbandono delle politiche territoriali di prevenzione ed inserimento lavorativo; una riduzione generale del volume massimo di prestazioni erogabili previsti negli accordi contrattuali con il privato accreditato, tale per le Comunità Terapeutiche che già da tempo lavorarono sotto soglia minima; una notevole difformità fra le varie regioni italiane, nel settore dei servizi privati per le dipendenze, non solo nei budget destinati alla cura e riabilitazione, ma anche nell’individuazione dei criteri di riferimento del sistema e della retta giornaliera.

Se, dunque, i fondi sociali continuano a restare quel che sono è chiaro che il tema della cura e del reinserimento, parti sostanziali della filiera del circuito della tossicodipendenza, resteranno pesantemente condizionati.

Senza dimenticare che un contributo sostanziale alla stessa prevenzione in Calabria e nella nostra provincia deriva anche dall’azione delle comunità terapeutiche impegnate con il loro coordinamento regionale, Calabria Crea. Ma lavorare solo sul recupero non basta.

Ed, infine, fa il resto la mancanza, ormai cronica, di un organo collegiale di coordinamento di un insieme anche eterogeneo di interventi che sappia farne “sistema”, in cui pubblico e privato sociale possano esercitare entrambi il loro ruolo nello svolgimento di una funzione pubblica che mette a disposizione a favore dell’utenza una varietà di opzioni terapeutiche e riabilitative.

Ci vuole la consapevolezza di un rinnovato impegno da parte  delle istituzioni per una prevenzione efficace superando la disorganicità con cui il problema della tossicodipendenza viene affrontato a livello territoriale, mentre sarebbe necessaria una regia a livello di osservatorio provinciale del fenomeno, magari  operante presso la Prefettura di Reggio Calabria, all’interno di una tavolo più ampio riservato alle politiche giovanili sul nostro territorio. Sarebbe interessante conoscere il pensiero del signor Prefetto in merito.

In questo scenario certamente la scuola ha un suo preciso ruolo da svolgere. La prevenzione è soprattutto educazione. Ma anche nel mondo scolastico è percepibile una situazione di estrema causalità e precarietà. La scuola deve agire nella consapevolezza che la sua è una azione educante, anche se alcuni insegnanti preferiscono semplicemente istruire. Educare è un’attività difficile, coinvolgente, che mette in gioco le persone. Gli insegnanti hanno, perciò, bisogno di una formazione strutturata, che deve essere di contenuti sì, ma anche didattico – pedagogica – occorre saper trasmettere – e poi relazionale:che significa una cura della persona.

Non si lascia un segno se non mediante la relazione personale, così come non passa nessuna educazione se non attraverso il dialogo e la relazione. Si dice che gli insegnanti, per poter insegnare bene, debbano appassionare gli allievi e la passione si trasmette soltanto attraverso se stessi:è chiaro allora che devono essere i primi a star bene “con se stessi, con gli altri, con le istituzioni” (come recita uno slogan progettuale degli anni ’90 promosso dal Ministero della P.I.) per poter agire di conseguenza in positivo.

Ecco allora la necessità di una cura degli insegnanti come operatori che si trovano in prima linea tra le richieste degli studenti e le politiche che vengono calate dall’alto e che spesso li schiacciano. Senza dimenticare che la stessa formazione va rivolta a tutto il personale della scuola, compreso i non docenti, che hanno un ruolo estremamente strategico sul piano della prevenzione nel rapporto con i ragazzi. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

ABOLIRE I BALLOTTAGGI NON ABBATTERÀ
L’ASTENSIONISMO CHE È IL PRIMO PARTITO

di SANTO STRATI – C’è indubbiamente – e amaramente – un solo vincitore del secondo turno delle elezioni amministrative: l’astensionismo. La gente non va a votare (e già i dati delle europee indicavano un trend altamente negativo) e farebbero bene i partiti a domandarsi seriamente quali siano le ragioni. L’unica idea balzana che è venuta fuori mentre si ultimava lo spoglio quella di abolire i ballottaggi: ma non è mica così che si sconfigge l’astensionismo che, in massima parte, riflette la grande sfiducia dell’elettorato. Il voto mancato è la ratifica del distacco crescente tra la gente e la politica, in un momento particolare dove la stessa contrapposizione destra-sinistra diventa persino antistorica e inefficace. È la triste conferma del disagio dell’elettorato che è stato prima privato della facoltà di scegliere direttamente i propri rappresentanti, poi beffato dalla presentazione di candidature di maniera, lontane da qualsiasi idea di benessere e attenzione verso il territorio.

La mancanza della rappresentatività è decisamente il vero ostacolo al ritorno “convinto” alle urne. E se la disaffezione ai seggi si accentua anche nelle amministrative, dove il rapporto elettori-candidati è spesso molto più ravvicinato (perché generalmente si vota la persona, non il partito), questo significa che la nostra democrazia non riesce più a nascondere tutta la sua vulnerabilità. Pronta a subire attacchi (insensati) di pseudo-autoritarismo e rigurgiti autarchici che, in un mondo globalizzato, fanno solo ridere. Con una classe dirigente di “nominati” , con molto frequenti casi di incompetenza e l’evidente mancanza di una qualsiasi “cultura” politica. Fatte le dovute eccezioni, il Paese soffre la carenza di rappresentanti istituzionali di rilievo: in buona sostanza, dove sono i leader di una volta?

Ma torniamo all’astensionismo. Non è la difficoltà di spostarsi a votare (anche se, per esempio, in Calabria circa 400mila persone che figurano residenti in realtà vivono fuori), ma è proprio la totale sfiducia nella politica a consigliare (maldestramente) di disertare le urne. Per il problema dei residenti “apparenti” ma lontani  il collettivo Valarioti ha spinto in tutti i modi una legge che consentisse il voto a distanza a tutti. S’è avuta una tiepida prova con gli studenti fuori sede, ma il giorno in cui si decidesse – finalmente – a rimettere mano a una legge elettorale bizzarra e insidiosa sarebbe opportuno prevedere il voto dei “fuori sede” (studenti, lavoratori, etc) con l’attuazione di norme specifiche e rigorosi controlli, ovviamente, e allora qualche punto in percentuale dell’astensionismo si potrebbe recuperare.

Per il resto diventa difficile immaginare un serio esame di coscienza della nostra attuale classe politica che non riesce a esprimere profili di capacità e competenza in grado di stimolare il confronto dialettico (prima) e spingere (poi) gli elettori a recarsi alle urne per scegliere i rappresentanti adeguati. Scordatevelo: lo status quo fa comodo sia a destra che a sinistra, le segreterie dei partiti difficilmente rinuncerebbero a selezionare (e imporre) i fedelissimi, con cui spesso sono state sottoscritte le solite cambialette elettorali. Nulla di penalmente rilevante, per carità, ma qualche compensazione della mancata elezione è d’obbligo a fronte di un certo vagone di voti che hanno contribuito al successo dell’una o dell’altra coalizione. Quindi, c’è poco da brindare e esultare (come fa la Schlein a fronte di un’evidente disaffezione al voto), ma semmai occorrerebbe cominciare pensare a far rinascere le “scuole” di politica, i circoli, le associazioni, in grado di coinvolgere prima di tutti i giovani (le università sono purtroppo un serbatoio straordinario di non-votanti, sfiduciati e disillusi), ma tutta la popolazione. E non importa il colore politico: si deve ri-accendere la passione politica perché, alla fine, c’è una forte domanda in questo ambito, anche se può sembrare un controsenso. Perché, se c’è questa voglia di partecipazione, i giovani poi non vanno a votare. Permetteteci una risposta scontata: perché manca il coinvolgimento o è ancora troppo modesto. Ma se non si pone rimedio, organizzando convegni e incontro “politici” di confronto e di scambio dialettico, il futuro – politicamente parlando – appare pieno di nuvole.

Quello sui cui bisogna interrogarsi è perché anche alle amministrative, dove abitualmente i candidati vanno cercare personalmente voto dopo voto e a farsi conoscere dagli elettori, l’astensionismo continua a essere così forte: il Presidente Roberto Occhiuto aveva facilmente pronosticato  un calo di consensi per il centro-destra dopo il pasticciaccio dell’autonomia votata “a tutti i costi” per far contenti i leghisti e tenere unita la coalizione. I fatti gli hanno dato ragione, fatta salva la vittoria a Gioia Tauro di Forza Italia della quale bisogna ascrivere il merito al coordinatore regionale di Forza Italia Francesco Cannizzaro, ma come spiegare i tonfi di Corigliano-Rossano e di Vibo Valentia? La rappresentatività dei candidati (con tutto il rispetto) non si è rivelata vincente e, soprattutto, a Vibo, si è preferito “sacrificare” la sindaca uscente Maria Limardo – che aveva amministrato abbastanza bene e aveva un largo consenso – per un candidato che non ha convinto gli elettori. Cioè, la regola “squadra che vince non si cambia” troppo spesso viene disattesa con alto rischio di sconfitta. Il candidato ideale deve avere il polso del territorio e – se uscente – può solo (se ha amministrato bene) accrescere i consensi. Ma con candidature di sconosciuti calati dall’alto è facile prevedere la débacle, sia a destra che a sinistra. E la domanda insistente che l’elettorato continua a porsi è: ma chi sono gli aspiranti amministratori?

Non ci sono in vista nuove elezioni, salvo poco probabili chiusure anticipate di consiliatura. Il caso Reggio è illuminante: hanno cominciato la campagna elettorale con due anni di anticipo il medico Eduardo Lamberti Castronuovo (già assessore alla Legalità alla ex Provincia reggina) e l’attuale presidente della Camera di Commercio di Reggio e di UnionCamere Calabria Ninni Tramontana. Due posizioni “a-partitiche”  che qualcuno insiste a chiamare civiche che, però, anche unendosi, non trovano i numeri necessari per determinare il successo elettorale. Al contrario, l’area forzista che a Reggio ha registrato lo straordinario successo della vicepresidente regionale Giusi Princi alle elezioni europee, può contare su una messe di voti incredibile e inattaccabile. Sempre che sappia scegliere un/una candidata in grado di alimentare, mantenere e accrescere il consenso in città. Una città, purtroppo, sempre più abbandonata con problemi che appaiono irrisolvibili. E il rischio – nonostante le smentite della prefettura – di un accesso agli atti della Commissione antimafia, preludio all’inevitabile scioglimento d’ufficio del Consiglio comunale e una nuova “condanna” di 18+6 mesi di commissariamento del Comune che darebbe il colpo di grazia a una città dolente. Una città troppo trascurata, ben rappresentata dallo stato di abbandono in cui versa la bella scultura di Rabarama Co-stell-azione) di fronte a Villa Zerbi: ma nessuno dell’Amministrazione comunale passa mai per via Marina?

Certo, dopo le imbarazzanti intercettazioni del sindaco Falcomatà pubblicate con esagerata evidenza dai media, la Città gradirebbe un passo indietro, anche se decisamente improbabile. Il sindaco Giuseppe Falcomatà non ha capito che in politica fermarsi un giro può portare straordinari risultati. Al contrario stare arroccati al potere, quando mezza città non ti vuole più, c’è il rischio serio di uscire dai giochi, in via definitiva. Dovrebbe pensare, Falcomatà,che si sta giocando il suo futuro politico in cambio di due anni e mezzo di lauti (e giusti) compensi: ne vale la pena?

Le dimissioni del sindaco le chiedono ovviamente le opposizioni perché la minoranza cerca ogni pretesto per farsi notare, ma di fronte al rischio di un commissariamento (per molto meno, col sindaco Demi Arena sciolsero il Comune per mafia e poi si scoprì che erano solo “mere suggestioni”), un passo indietro dimostrerebbe una grande maturità politica del Sindaco.

Di fronte a nuove elezioni comunali (anticipate) a Reggio, la partita degli astensionisti sarebbe comunque aperta. Chi sarebbero i candidati, oltre a Lamberti e company? Domanda impertinente, cui nessuno, crediamo, darà risposta. (s)

 

AUTONOMIA, NON È ANCORA TUTTO PERSO
QUALE VIA PER IL MERIDIONE PER REAGIRE?

di PIETRO MASSIMO BUSETTACome quando presero Gesù nell’orto  degli ulivi del Getsemani, anche l’approvazione del disegno di legge sull’Autonomia Differenziata è avvenuta con il favore della notte, in realtà nella prima mattina, dopo una seduta fiume, con una forzatura nei tempi.   In questo caso quella  che viene portata al patibolo è l’unità del Paese, viene crocifissa la volontà di rendere i meridionali   uguali nei diritti di cittadinanza. 

In molti chiedono di conoscere i nomi dei rappresentanti meridionali della maggioranza in Parlamento che hanno votato a favore, per decretare nei loro confronti una forma di ostracismo, come fossero i traditori del Sud. 

A parte che conoscere tali nomi è estremamente semplice perché, tranne tre deputati della Calabria, vicini a Occhiuto, nessuno si è sottratto, si rischia in tal modo, invece che guardare ai processi nella loro parte iniziale, di guardare solo agli effetti. 

Nel senso che con la legge elettorale esistente, che non prevede le preferenze, e che fa dipendere l’elezione dal posto in lista che il Partito di appartenenza  assegna, andare contro le indicazioni di voto indicate avrebbe significato, con molta probabilità, non essere più candidati in una posizione utile ad essere eletti alle elezioni successive. 

Quindi si poneva ai Parlamentari della maggioranza meridionali la scelta tra continuare l’attività politica o interromperla e, ovviamente,  si sono ritrovati solo pochi eroi disposti a rischiare. I loro nomi Francesco Cannizzaro, Giuseppe Mangialavori e Giovanni Arruzzolo. Onore al merito di chi ha voluto dimostrare  la propria opposizione alla legge. 

«Questa norma andava maggiormente approfondita e la discussione doveva svolgersi in modo sereno. Comprendo le ragioni dei deputati calabresi di Forza Italia che hanno deciso di non votare questa legge». Sono le parole nette di Roberto Occhiuto, governatore della Calabria e vicesegretario nazionale di Forza Italia, dopo l’approvazione definitiva alla Camera  del provvedimento. 

«Temo che il Centrodestra nazionale abbia commesso un errore, del quale presto si renderà conto», dice Occhiuto, che aggiunge di avere dei dubbi «che i minimi vantaggi elettorali che avrà al Nord compenseranno la contrarietà e le preoccupazioni che gli elettori di Centro Destra hanno al Sud». 

Giudizio tombale sia sul contenuto della legge che sul metodo con cui si è arrivata all’approvazione. 

Posizione alla quale, nella stessa Forza Italia, fa il controcanto Renato Schifani che invece applaude. Lui che è Presidente di una Regione che l’Autonomia in teoria l’ha sempre avuta e che l’ha utilizzata talmente male che continua ad essere una di quelle Regioni in cui il rapporto tra popolazione e occupati é tra i più bassi del Mezzogiorno: su 5 milioni di abitanti lavorano poco più di un milione e trecentomila compresi i sommersi, una persona su quattro; che ha avuto  circa 500.000 richieste per il reddito di cittadinanza, quando era in vigore; che ha un incidenza della povertà tra le più elevate in Italia, e che grazie alla cattiva gestione consolidata nel tempo oggi soffre dei problemi della siccità che stanno mettendo in ginocchio l’agricoltura, mentre ogni anno 25.000 persone formate vanno via con un costo per le casse regionali di oltre 5 miliardi,  applaude al provvedimento. 

«Il Sud deve smettere di continuare a piangere». Pino Aprile risponde in genere a questa contestazione che «se smetti di picchiarmi forse smetto di piangere». Lo dice il Ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, ex Presidente della Regione Siciliana, «noi abbiamo bisogno di competere con il Nord, sapendo che i nostri obiettivi sono diversi da quelli delle Regioni settentrionali. Ma per fare questo dobbiamo liberarci dalla teoria della questione meridionale», ha insistito Musumeci con parole belle e incomprensibili. 

Mentre Stefano Bonaccini non fa alcun passo indietro rispetto alle sue richieste precedenti, che lo avevano accumulato a Luca Zaia e Attilio Fontana in un Partito Unico del Nord, pronto a mettersi insieme quando c’è da mantenere i privilegi della spesa storica, dopo che il PD aveva avuto la responsabilità della modifica del titolo V, cavallo di Troia per soddisfare le esigenze della Lega di una secessione morbida senza i contraccolpi  che essa poteva creare.

Un Sud battuto, suonato e messo all’angolo cerca di capire quali possano essere le vie percorribili di una reazione ad una legge che potrebbe essere definita “prendi il malloppo e scappa“. 

Una via è quella di ricorrere al referendum abrogativo, che però in molti ritengono non sia percorribile. La  raccolta delle firme non sarà estremamente  complicata. L’indignazione parolaia del Sud è al suo massimo storico. Che possa raggiungere poi l’obiettivo non è così scontato.  Come voteranno gli emiliano- romagnoli di sinistra  che in questo modo salvaguardano la loro spesa storica e i loro privilegi non é scontato sapere. 

Una seconda strada prevede che i Presidenti di Regione possano fare ricorso alla Consulta. Il capofila dell’operazione potrebbe essere  il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. L’idea è quella di un ricorso a più mani. Michele Emiliano, presidente della Puglia è d’accordo. Meno scontato il sì delle regioni non meridionali a guida centrosinistra. Ma sarà della partita Eugenio Giani (Toscana), che ha detto: «Zero dialogo e testo sbagliato».

Una terza via é quella che vede in una macroregione del Sud la risposta a quella che presto si costituirà al Nord, che potrebbe essere prodromica alla divisione in due Paesi.

Ma vi é una quarta altrettanto pericolosa. Un cinguettio su X di un certo Franco Graziano dice «non voglio far parte di uno Stato che mi considera cittadino di serie B, ed essere considerato un questuante se reclama i propri diritti o peggio ancora che è colpa mia se la situazione è questa». 

La sensazione di frustrazione del popolo meridionale comincia a montare pericolosamente. C’è chi non vuole andare più in cordata con chi  ti vuole tagliare la corda.  Il pensiero dominante sarebbe che l’unità é un grande valore se è vera, altrimenti è un totem che si può anche abbattere. (pmb)

[Courtesy il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

NEL 2023 CRESCE IL PIL DELLA CALABRIA:
È +1,2% GRAZIE ANCHE ALLE COSTRUZIONI

di ANTONOIETTA MARIA STRATI – Il Pil della Calabria è cresciuto dello 1,2% nel 2023. È quanto ha rilevato la Svimez nel suo Rapporto Comunica, evidenziando come nella nostra regione «l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%)».

Un’ottima notizia, in linea con il recente rapporto di Bankitalia sull’economia della Calabria, che aveva già rilevato una crescita della Calabria, anche se non in linea col resto del Paese. Ma in questo caso, il dato più sorprendente è che il Pil del Mezzogiorno è cresciuto oltre la media nazionale, registrando un +1,3% contro +1% del Nord-Ovest, +0.9% del Nord-Est e +0,4% del Centro. Il Sud non cresceva più del resto del Paese dal 2015 (+1,4% contro il +0,6% del Centro-Nord).

Altrettanto favorevole al Sud si è mostrata la dinamica occupazionale. Gli occupati nel Mezzogiorno sono aumentati del +2,6% su base annua, più che nelle altre macro-aree e a fronte di una media nazionale del +1,8%.

La crescita più accentuata del Pil meridionale è stata sostenuta soprattutto dalle costruzioni (+4,5%, quasi un punto percentuale in più della media del Centro-Nord), a fronte di una più contenuta contrazione del comparto industriale (-0,5%) e di una crescita dei servizi dell’1,8%.

La dinamica del PIL è stata debole nelle regioni del Centro (+0,4%), meno della metà della media nazionale. A determinare questo risultato hanno contribuito un calo del valore aggiunto industriale più che doppio rispetto alla media nazionale (-2,6%; -1,1% il dato Italia) e una crescita dei servizi che si è fermata al +1,1% (+1,6% la media nazionale), che hanno sterilizzato la buona dinamica delle costruzioni (+6,2%).

Nel Nord-Ovest la crescita del Pil, pari all’1%, è stata condizionata dal calo del valore aggiunto industriale (-1,4%) e dalla crescita molto più contenuta della media nazionale delle costruzioni (+2,5%). Nel Nord-Est, è stata soprattutto la dinamica piatta del valore aggiunto industriale a contenere la crescita del Pil al +0,9%.

I fattori climatici avversi che hanno caratterizzato gran parte dell’anno hanno penalizzato l’agricoltura. Il valore aggiunto del comparto è diminuito in tutte le ripartizioni del Paese, con l’eccezione del Nord-Ovest (+6,4% dopo la forte flessione del 2022): -6,1% nel Centro, -5,1% nel Nord-Est, -3,2% nel Mezzogiorno.

Il risultato delle due macroaree è anche dovuto al diverso contributo della domanda estera. Al Centro-Nord, lo stallo dell’export (-0,1% sul 2022) ha privato le economie locali di un tradizionale traino nelle fasi di ripesa ciclica. Al Sud, viceversa, l’incremento delle esportazioni di merci, al netto della componente energetica, si è portato al +14,2% (+16,7% i beni strumentali; +26,1% i beni non durevoli).

La congiuntura del 2023 si colloca nella fase di ripresa post-Covid iniziata nel 2021 che ha visto il Mezzogiorno partecipare attivamente alla crescita nazionale, collocandosi stabilmente al di sopra della crescita media dell’Ue (+0,4 nel 2023). Il dato di crescita cumulata del PIL 2019-2023 del +3,7% nel Mezzogiorno ha superato l’analogo dato del Nord-Ovest (+3,4%) e, soprattutto, quello delle regioni centrali (+1,7%). Ha contributo a scongiurare l’apertura del divario di crescita Nord-Sud osservato in precedenti fasi di ripresa ciclica l’inedita intonazione di segno marcatamente espansivo della politica di bilancio.

Sulla crescita del Pil del Mezzogiorno ha inciso in maniera rilevante l’avanzamento degli investimenti pubblici cresciuti, nel 2023, del 16,8% al Sud, contro il +7,2% del Centro-Nord. Nel complesso delle regioni meridionali gli investimenti in opere pubbliche sono cresciuti da 8,7 a 13 miliardi tra il 2022 e il 2023 (+50,1% contro il +37,6% nel Centro-Nord). Una dinamica sulla quale dovrebbe aver inciso significativamente il progressivo avanzamento degli investimenti del Pnrr e l’accelerazione della spesa dei fondi europei della coesione in fase di chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020.

Intervenendo in un contesto nel quale le costruzioni contribuiscono in maniera significativamente più rilevante alla formazione del valore aggiunto, gli investimenti in opere pubbliche hanno generato effetti espansivi più intensi al Sud. La Svimez ha stimato, in particolare, un contributo della maggiore spesa in investimenti pubbliche (Pnrr e altri investimenti) alla crescita del Pil del Mezzogiorno del 2023 pari a circa mezzo punto percentuale (il 40% circa della crescita complessiva).
Viceversa, la spesa pubblica per incentivi alle imprese è cresciuta del 16% al Sud, dieci punti percentuali in meno rispetto al Centro-Nord (+26,4%).

Un differenziale che riflette la minore capacità del tessuto produttivo meridionale, caratterizzato da minore presenza di imprese di maggiore dimensione, di assorbire le misure “a domanda” di incentivo di ammodernamento tecnologico e digitale finanziate dal Pnrr.

Anche il terziario ha contribuito in maniera significativa alla crescita del Pil meridionale: +1,8% di incremento del valore aggiunto. Sul dato del Sud hanno inciso due fattori. In primo luogo, la crescita relativamente più sostenuta di alcune attività strettamente connesse all’espansione del ciclo economico quali trasporto e comunicazioni. Inoltre, nel 2023 la crescita delle presenze turistiche è risultata di circa un punto percentuale più accentuata nell’area centro-settentrionale (+8,5% nel Sud, + 9,7% nel Centro-Nord), ma nel Mezzogiorno si è mostrata più accentuata la crescita degli arrivi dell’estero, ai quali sono associati livelli di spesa turistica significativamente più elevati.

I dati delle regioni

Nelle regioni del Centro-Nord, si segnala la crescita diPiemonte (+1,2%) e Veneto (+1,6%). In Piemonte la crescita è stata trainata dall’andamento relativamente favorevole dell’industria in senso stretto (+1,7%) e dei servizi (+1,3%); buona in Veneto la crescita delle costruzioni (+4,7%) e dei servizi (+2,3%), trainati dal buon andamento del turismo (la regione ospita quasi il 16% delle presente turistiche nazionali).

Il dato della Lombardia (+0,9%) è stato influenzato dal calo registrato nel comparto industriale (-2,5%), uno dei più forti tra le regioni centro-settentrionali, sul quale ha inciso il dato deludente dell’export (+1,2%), una componente della domanda che in altre fasi di ripresa aveva sostenuto l’economia regionale. Anche un’altra “export-economy” del Paese, l’Emilia-Romagna, ha subìto la frenata del commercio estero e più in generale il rallentamento dell’economia tedesca, in stagnazione nel 2023; il Pil della regione è cresciuto nel 2023 del +0,6% per effetto della dinamica piatta dell’industria che ha scontato in negativo la forte integrazione con la manifattura tedesca. Da segnalare anche, in Emilia-Romagna, il  calo di oltre il 10% del valore aggiunto agricolo.

Tre regioni italiane registrano nel 2023 un dato negativo di andamento del Pil: Toscana (-0,4%), Marche e Friuli-Venezia Giulia (-0,2%). In Toscana è stato forte il calo dell’industria (-3,2%) e stagnante la dinamica delle costruzioni, in controtendenza rispetto al resto del Paese; nelle altre due regioni va segnalato l’andamento negativo dell’attività industriale (-1,5% nelle Marche e -1,9% in Friuli) non compensato dalla crescita del terziario. Da segnalare anche il calo a doppia cifra dell’export nelle Marche (-12,3%) e in Friuli-Venezia Giulia (-13,6%).

Positiva la dinamica del Pil in tutte le regioni meridionali, anche se in presenza di marcati differenziali di crescita. Emerge in particolare la variazione positiva del Pil siciliano (+2,2%). Hanno influito dinamiche ancor più favorevoli che nel resto del Mezzogiorno delle opere pubbliche (+60,4%) e più in generale degli investimenti pubblici (+26%); anche l’industria è cresciuta significativamente (+3,4%), arrestando una tendenza di medio periodo alla deindustrializzazione.

Piuttosto omogenea e sostenuta è stata la crescita del Pil in Abruzzo, Molise (+1,4%), Campania (1,3%) e Calabria (1,2%), con alcune differenze di carattere settoriale. In Abruzzo la crescita ha riguardato anche il settore industriale (+2%) che invece ha registrato una riduzione in Campania (-0,7%). Va segnalato, però, che la Campania risulta la regione italiana con la maggiore crescita delle esportazioni nel 2023 (+29%). In Calabria l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%).

Più bassa la crescita in Basilicata (+0,9%) e Puglia (+0,7%). La Basilicata ha risentito di un calo dell’industria (-2,7%) più intenso di quello osservato per la media delle regioni del Mezzogiorno, compensato dalla buona performance del settore delle costruzioni (+8,4%, la crescita più intensa tra le regioni meridionali). La congiuntura dell’economia pugliese è stata segnata dalla forte caduta del valore aggiunto agricolo (-8,7%), che ha sottratto oltre tre decimi di punto percentuale alla crescita del Pil nel 2023, e dalla flessione del valore aggiunto industriale (-1,2%). Va tuttavia segnalato che la regione Puglia nel complesso del periodo 2019-2023 con una crescita del 6,1% è risultata la regione italiana più dinamica.

La crescita della Sardegna (+1,0%), infine, è stata stimolata dal settore delle costruzioni e soprattutto, data la sua diffusione e il maggior contenuto di valore aggiunto rispetto ad altre realtà meridionali, dai servizi (+1,9%). Molto negativo è risultato il dato dell’industria: -6,2% nel 2023. (ams)