SE CI SARÀ UNA GRANDE COSENZA, SERVIRÀ
ANCHE UNA PROVINCIA DELL’ARCO JONICO

Il dibattito sulla sintesi amministrativa e il prossimo referendum consultivo tra Cosenza, Rende e Castrolibero stanno catalizzando i pareri di Comitati spontanei ed esponenti delle Istituzioni sul tema. Tra favorevoli e contrari, la volontà di creare una Città demograficamente importante, che acquisisca un ruolo ancor più centrale nei processi regionali ed in generale negli assetti del Mezzogiorno d’Italia, è risultato palese sin da quando gli interessi del Consiglio regionale si sono concentrati sulla tematica.

Come Comitato, non abbiamo mai nascosto le nostre simpatie verso il progetto in questione e verso tutti quei processi volti alla necessità di avviare riforme sistemiche degli attuali assetti amministrativi regionali.

Tuttavia, dopo aver letto alcune sortite apparse sui social e poi corroborate da Rappresentanti delle Istituzioni, spiace prendere atto di alcune posizioni che esplicano uno scollamento dalla realtà in tema di nuove simbiosi amministrative.

Negli ultimi giorni è circolata in rete una locandina pubblicitaria a suffragio delle posizioni favorevoli al prossimo processo di fusione in val di Crati. Nelle tesi addotte, l’invito a votare “Si” al referendum poiché, in caso di vittoria del “No”, lo status di Capoluogo di Provincia potrebbe migrare dall’area valliva della Calabria verso lo Jonio. Alla base di tale bizzarra teoria, la maggiore dimensione demografica e territoriale di Corigliano-Rossano rispetto a Cosenza. Affermazioni singolari, infondate e del tutto fuori luogo e che, probabilmente, sarebbero anche passate inosservate se non fosse per il fatto che a rilanciarle sia stato il Senatore Occhiuto. Ma ancor più inspiegabili appaiono le dichiarazioni comunicate in un dispaccio dal Senatore Antoniozzi. Costui, infatti, si fa promotore dello stravagante concetto secondo cui il tentativo jonico di cercare una nuova dimensione territoriale rappresenti un’alzata di scudi campanilistici verso Cosenza.

Prescindendo dal fatto che i processi di natura amministrativa non andrebbero trattati come fossero pinzillacchere, riteniamo che agli uomini di Stato dovrebbe appartenere un certo aplomb istituzionale. Aizzare i cittadini bruzi allo spauracchio — su una fusione che oltretutto è già scritta — non dimostra particolare acume. Vieppiù, instilla nella mente degli indecisi una propensione al “No” data la carenza di argomentazioni coerenti — che pur non mancherebbero — a suffragio del “Si”.

Ciò che però meraviglia, ma che al contempo comprova quanto sosteniamo da anni, non sono le discutibili tesi dell’Establishment bruzio che proiettano Cosenza verso la Grande Cosenza, additando allo Jonio sentimenti separatisti. Piuttosto, l’immobilismo istituzionale della Politica jonica. Incapace, quest’ultima, di aprire una seria discussione finalizzata a costruire nuovi perimetri amministrativi, ottimali e omogenei, fatto salvo impantanarsi su sterili idee di piccolo cabotaggio e provincette dalla risibile dimensione demografica.

D’altro canto, sarebbe fuori discussione immaginare che il passaggio del Capoluogo da una Città a un’altra possa essere liquidato sulla base di mere questioni demografiche. Se così fosse, Busto Arsizio, Gela, Marsala, Sanremo, San Benedetto del Tronto, Civitanova Marche sarebbero già Capoluogo da un pezzo. Le richiamate Città, infatti, al pari di Corigliano-Rossano rispetto a Cosenza, risultano demograficamente più rappresentative dei rispettivi Capoluogo.

Parimenti, i tentativi di costruzione di una nuova dignità territoriale in riva allo Jonio, non possono essere marchiati di atteggiamenti separatisti verso Cosenza.

L’area jonica e quella valliva rappresentano contesti geografici distinti e distanti; territori che vivono di diversi tipi di economie e mai amalgamati per interessi comuni. Parlare di competizione, quindi, fra contesti diversi risulta assolutamente anacronistico e non aiuta la Calabria a crescere per diventare una Regione coerentemente europea. Alimenta, al contrario, stucchevoli dualismi finalizzati a non modificare il alcun modo lo stagnante status quo.

La Grande Cosenza come preambolo a una nuova riforma sistemica degli ambiti regionali 

La Città di Cosenza, caratterizzata da fenomeni politici che affondano radici nei principi cardine del centralismo storico, potrebbe finalmente aprirsi, almeno alle comunità contermini, a una visione inclusiva e non più schiacciata su se stessa. La Città, infatti, ha accentrato negli anni l’inverosimile, rendendo sterili i territori dirimpettai e facendo terra bruciata degli ambiti lontani dal baricentro bruzio.

Il progetto di fusione amministrativa a Cosenza, in funzione di una razionalizzazione del numero dei Comuni e nell’ambito di una prospettiva di riassetto della Calabria, può diventare volano di svolta, ma solo se accompagnata da una nuova governance del territorio regionale. I processi di tale natura, infatti, possono concorrere a realizzare un nuovo modello di sviluppo sostenibile e compatibile con le uniche risorse certe della programmazione europea e di quella emergenziale del Recovery.

La rinnovata funzione della Città bruzia modificherebbe la geografia dei luoghi. I vantaggi di tale operazione avrebbero ricadute positive non già per l’ambito strettamente cosentino, quanto per tutta l’area del Pollino-vallivo e della striscia alto-tirrenica che da Amantea lambisce la Lucania. Cambierebbero e si bilancerebbero i rapporti politici tra l’area valliva del Crati e dell’Istmo, nonché con l’ambito jonico. Si darebbe peso specifico e spessore al neonato collegio camerale che ha voluto l’area di Cosenza assemblata a quella dell’Appennino paolano. Si realizzerebbe, quindi, una situazione similare a quella avvenuta su Corigliano-Rossano che, conseguentemente il processo di fusione, ha posto il nuovo Comune in una posizione di sussidiaria interdipendenza con Crotone e punto di smistamento tra i flussi jonici, tirrenici ed adriatici.

L’idea progetto cosentina, parallelamente a proposte di unioni e fusioni tra Comuni contermini e rimodulazione dei contesti provinciali calabresi, dovrebbe favorire una riforma territoriale finalizzata a riscrivere la storia degli ambiti vasti della Calabria. Individuare contesti territoriali e demografici omogenei, inquadrati nella forbice demografica compresa tra 350/450mila ab., consentirebbe di rispettare le prescrizioni raccomandate del DL 56/14 (Delrio). Vieppiù, si preparerebbero i presupposti per il superamento dei limiti imposti da quest’ultima legge, avviando una profonda riforma sistemica che permetterebbe alla Regione di essere competitiva sul piano nazionale ed europeo svolgendo un suo ruolo nell’ambito della Macroregione mediterranea. La Calabria, quindi, si rilancerebbe quale naturale baricentro mediterraneo tra l’area del Medio Oriente, i Paesi Africani e la via Atlantica. L’auspicata riforma dovrebbe essere varata per mettere in condizione la Regione di marciare spedita sul binario del Pnrr, nonché dei Fondi comunitari della programmazione 2021-2027.

Entrambi, infatti, risultano in sintonia con la principale politica di investimento dell’Europa: la coesione territoriale. La stessa che mette al centro il territorio sostenendone la crescita economica, la creazione di posti di lavoro, la competitività delle imprese, lo sviluppo sostenibile e la protezione dell’ambiente. I suoi vantaggi, dunque, sono direttamente proporzionali alle aggregazioni territoriali.

Abbandonare i sentimenti campanilistici per aprirsi alla visione e alla prospettiva

È giunto il tempo di abbattere gli steccati e liberarsi dalle polemiche che non portano a nulla, ma che alimentano solo divisioni. Se davvero vogliamo il bene della nostra terra, dobbiamo pensare a un progetto che metta insieme tutte le forze, che superi scomposizioni e costruisca ambiti forti, capaci di rispondere alle esigenze di chi vive sia nelle valli che sulle coste.

I Senatori Occhiuto e Antoniozzi, con le loro dichiarazioni, ci pongono di fronte a una realtà che non possiamo più ignorare: i territori hanno bisogno di grandi visioni che vadano oltre le sterili polemiche. Si realizzi, pertanto, la Grande Cosenza, ma si dia vita anche a una grande Provincia dell’Arco Jonico che veda protagoniste Corigliano-Rossano e Crotone, per disegnare una Regione che guardi al futuro con orgoglio e forza. (Comitato Magna Graecia)

AUTONOMIA, DOPO SENTENZA CONSULTA
IL REFERENDUM NON È PIÙ ATTUABILE

di ERNESTO MANCINIDopo la sentenza della Corte Costituzionale del 14 novembre scorso che, pur non avendo dichiarato illegittima l’intera legge sull’autonomia differenziata ne ha censurato tutti gli elementi più significativi, c’è da chiedersi se il referendum abrogativo dell’intera legge sia ancora ammissibile e se, pertanto, si debba svolgere o meno.

Si ricorda che la legge n. 86 del 26 giugno 2024, detta anche legge Calderoli, stabilisce la possibilità di trasferimento alla competenza esclusiva delle Regioni di intere materie legislative ed amministrative previste invece come competenza in concorso tra Stato e Regione. Addirittura, la legge consente il trasferimento di tutte le ventitré materie come richiesto dalla Regione Veneto ovvero una gran parte di esse – quindici – come richiesto dalla Regione Lombardia.  Tra le materie trasferibili spiccano, per importanza strategica, istruzione, sanità, ambiente, trasporti, le quali sono già state oggetto delle preintese 2018 ed ora sono confermate dalla legge Calderoli all’art.11.

Si ricorda pure che la legge è stata impugnata per incostituzionalità ai sensi dell’art. 127 Cost. dai ricorsi di alcune regioni (Toscana, Puglia, Campania e Sardegna) ora decisi dalla Corte Costituzionale con la già menzionata sentenza del giorno 14. La legge è tuttora avversata dalla proposta di referendum abrogativo avanzata dal Comitato Promotore formato da partiti, sindacati, associazioni e comitati NO AD (no a qualunque autonomia differenziata) che ha raccolto oltre 1.300.000 forme durante la scorsa estate. La procedura per l’ammissibilità di tale referendum è in corso e dovrà definirsi entro il mese di dicembre a cura della Corte di Cassazione ed eventualmente della Corte Costituzionale.

I precetti della Corte Costituzionale

Per capire se il referendum sia ancora attuale dopo la sentenza della Corte va chiarito che tale organo (detto anche Giudice delle Leggi perché non giudica uomini ma, appunto, leggi) ha colpito e si può dire “affondato”, i punti principali della legge dettando anche princìpi vincolanti per qualsiasi attuale o futuro progetto di autonomia. 

La Corte ha sentenziato che in ogni caso si devono osservare i princìpi dell’unità della Repubblica, della solidarietà e non della competitività tra Regioni, dell’eguaglianza, della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio. Tutti princìpi esattamente opposti a quelli che caratterizzano la legge Calderoli.

Ma, a parte l’affermazione dei princìpi ora ricordati, il Giudice delle Leggi ha colpito al cuore la legge Calderoli stabilendo testualmente che una normativa sull’autonomia non può trasferire intere materie legislative ed amministrative (sanità, istruzione, ecc.) alla competenza esclusiva di singole Regioni ma solo particolari funzioni relative a tali materie. 

Peraltro, tale trasferimento di particolari funzioni non è libero ma, continua il Giudice Costituzionale, deve essere “giustificato” dalla necessità rispetto alle esigenze dello Stato e del bene comune. Deve inoltre osservarsi il principio di sussidiarietà e cioè si deve dimostrare che la singola funzione sia meglio attuata esclusivamente a livello territoriale rispetto al concorso Stato/Regione.

L’esempio su quanto stabilito dalla Corte è agevole: non può trasferirsi la “materia sanità” che, in quanto materia di rilevanza costituzionale (art.32) è affidata all’intera Repubblica (Stato-Regioni-Comuni-Città Metropolitane). Né possono trasferirsi singole funzioni in cui si articola la sanità come l’assistenza ospedaliera, l’igiene pubblica, l’assistenza farmaceutica, l’assistenza medica di base, quella specialistica, la funzione veterinaria, e molte altre, in quanto si tratta di funzioni non specifiche alla singola regione ma comuni a tutte. 

Peraltro, il principio di sussidiarietà che valorizza le autonomie territoriali non può spingersi fino al punto da escludere lo Stato abolendo di fatto il Servizio Sanitario Nazionale ex art. 32 Costituzione e leggi di riforma sanitaria 833/78 e 502/92. Tutto ciò vale anche per l’istruzione, “spina dorsale del Paese” (Asor Rosa, intervista al Corriere del 2.11.2018) ed anche per l’ambiente, oggi da proteggere efficacemente soprattutto con politiche comuni sovrastatali. Così, insomma, vale la giusta applicazione del principio di sussidiarietà per ogni altra materia di rilevanza costituzionale.

Ma il Giudice delle Leggi, nonostante questi parametri siano di per sé già sufficienti per bloccare la legge Calderoli, non si è fermato qui.

Egli ha infatti stabilito che per i Lep (livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali) spetta al Parlamento e non al Governo fissare i princìpi ed i criteri direttivi per la loro determinazione. Ha precisato che l’aggiornamento dei Lep non può farsi con atto governativo (DPCM) bensì con atto del Parlamento e ciò vale anche per le aliquote di compartecipazione al gettito tributario. I finanziamenti non vanno peraltro determinati in base alla spesa storica ma sulla base di costi e fabbisogni standard, il che rende peraltro giustizia alle regioni del sud che, sulla base della spesa storica, possono solo perpetuare la loro insufficienza nei servizi pubblici (es: servizi sociali) senza alcuna implementazione che soddisfi il vero fabbisogno come certificato dai Lep.

Inoltre, le Regioni non hanno la facoltà (come vuole Calderoli nella sua legge) bensì l’obbligo di concorrere agli obbiettivi di finanza pubblica, né il Governo è esclusivo titolare del potere di iniziativa per le intese sulle autonomie particolari.

C’è dell’altro nella massima della Corte Costituzionale ma qui non mette conto di parlarne perché quanto evidenziato basta e avanza per dire che la legge Calderoli non esiste più dovendosi, affinché sia immune da vizi di illegittimità costituzionale, apportare tutte le modifiche e le integrazioni sostanziali volute dalla Corte medesima. Cha la legge sia stata demolita dai dicta della Corte Costituzionale è peraltro opinione comune della stragrande maggioranza dei costituzionalisti che in questi giorni hanno fatto sentire la loro voce.

Dunque, il referendum?

Ed allora possiamo tirare le somme per rispondere alla domanda iniziale che ci siamo posti.

A nostro avviso il referendum non è più attuale perché interverrebbe su una legge che, seppure formalmente ancora in piedi, non è più applicabile nelle sue parti fondamentali. Sono stati introdotti dal Giudice Costituzionale tali e tante modifiche ed integrazioni sostanziali e non certo marginali che fanno venire meno proprio l’oggetto del referendum.  

In altri termini si voterebbe su una legge che in gran parte non esiste più anche perché alcuni princìpi introdotti dalla Corte devono già considerarsi del tutto simili al c.d. ius superveniens: il noto  articolo 116, terzo comma  del titolo quinto della Costituzione che prevede la possibilità di autonomie particolari (e non differenziate), dovrà interpretarsi per il futuro come se ci fosse un ulteriore comma il quale stabilisce  che le “materie” di cui all’art. 117 non sono trasferibili alla esclusiva competenza delle regioni, che le “funzioni”  devono essere specifiche e non comuni (es.: minoranze linguistiche, luoghi di confine o con esigenze particolarissime, ecc. ) ed in ogni caso anche le funzioni devo essere giustificate dalla perfetta applicazione del principio di sussidiarietà.

 

La giusta autonomia regionale

Molti firmatari della richiesta di referendum, tra cui il sottoscritto, sono favorevoli allo sviluppo dell’autonomia regionale ma non certo nella forma voluta da Calderoli giustamente definita secessionista o frantumatrice dell’unità della Repubblica.  Essi sono contrari allo statalismo di massima centralizzazione ma pure al secessionismo ed alla competitività tra Regioni. 

Essi vogliono l’autonomismo regionale come disegnato dai Padri Costituenti nel 1948 eventualmente aggiornato dal legislatore del 2001(nuovo titolo V) ma a condizione che tale aggiornamento sia interpretato ed applicato secondo le odierne ed inderogabili direttive del Giudice delle Leggi.

Ben vengano perciò i Lep (livelli essenziali delle prestazioni e relativi fabbisogni e costi standard); così si “certificherà” una volta per tutte quale sia il bisogno effettivo di ciascuna regione rispetto agli standard, quale e quanta differenza via sia tra regioni ricche e regioni povere, come debba assolutamente abbandonarsi il criterio assurdo della spesa storica che nulla aggiunge alle regioni povere ed anzi le costringe ad un permanente distacco dalle regioni ricche.  Ben venga tutto ciò, così sarà meglio misurabile anche la performance della classe dirigente territoriale politica e tecnico-burocratica.

I Lep, insomma, non servono per favorire autonomie differenziate ma sono necessari per avere chiaro quanta esigenza vi sia di riequilibrio tra i diversi territori in cui si articola la Repubblica. 

Cosa succederà ora? 

Se i supremi giudici dichiareranno inammissibile il referendum resta comunque al Parlamento l’onere di introdurre tutte le direttive costituzionali imposte dalla sentenza sapendo che ogni deroga sarà illegittima stante questo precedente tassativo; se il Parlamento non correggerà la legge nel senso indicato, la stessa resterà lettera morta (come già è successo per altre leggi) in quanto non applicabile essendo stati già espunti tutti i punti essenziali che la caratterizzavano.

Se invece i supremi giudici dichiareranno ammissibile il referendum su quel nulla che resta della legge sarà ancora più difficile raggiungere il già difficilissimo quorum (circa 25 milioni di cittadini) stante la scarsa partecipazione alle urne registratasi negli ultimi anni ora vieppiù sostenuta dal fatto che la legge Calderoli è stata già cassata dall’organo di verifica della illegittimità costituzionale e di essa non resta più nulla. Ma si può fare.

Intanto qualcuno dica a Calderoli & Co (Salvini, Zaia, Fontana e maggioranza governativa) che la partita in ogni caso l’hanno già persa e che finalmente l’autonomia regionale non sarà mai differenziata come loro avrebbero voluto con uno spirito anticostituzionale e spezzaitalia mai visto dal 1948 ad oggi. (em)

 

CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE AGIRE
SUBITO AL PRIMO SINTOMO O SOSPETTO

di ANNA COMI – Venticinque novembre, ed è ancora violenza. Sono 97 le vittime di femminicidio dallinizio dellanno ad oggi. Nel nostro paese, ogni 3 giorni una donna viene uccisa dalluomo con cui ha una relazione o da un ex partner.  La violenza maschile contro le donne non fa distinzione di classe sociale o provenienza geografica. È un fenomeno trasversale, radicato e che riguarda tutte.

Quella che stiamo vivendo è una ecatombe silenziosa e quotidiana che mette in evidenza un sistema incapace di proteggere e educare. Gli strumenti normativi esistono ma è evidente che non bastano. Le donne continuano a morire di femminicidio, e non solo. È notizia di qualche giorno fa larresto di un uomo, in provincia di Reggio Calabria, colto in flagranza del reato di violenza sessuale ai danni di una ragazza di 16 anni: la Calabria si trova ad affrontare una situazione preoccupante riguardo alla violenza di genere, con dati che riflettono un’incidenza elevata rispetto alla media nazionale.

È vero che nellanno in corso non si è verificato alcun femminicidio nella nostra regione ma, se guardiamo i dati degli ultimi anni, possiamo affermare senza ombra di dubbio che i femminicidi in Calabria si mantengono costanti. Sono 16 casi registrati nei cinque anni precedenti. Secondo lIstat la provincia di Cosenza è quella con la maggiore incidenza (7 casi), seguita da Catanzaro (4) e Reggio Calabria (3). Questo tasso, superiore alla media nazionale, evidenzia una problematica diffusa su tutto il nostro territorio regionale.

Secondo i dati nazionali, il 31,5% delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nella propria vita. Non ci stancheremo mai di sottolineare che la violenza è, nella maggior parte dei casi, perpetrata da partner o ex-partner. In Calabria, come altrove, oltre alla violenza fisica, sono comuni violenze psicologiche, economiche e atti persecutori, spesso protratti nel tempo.

I dati del servizio nazionale 1522 mostrano che molte vittime segnalano violenza psicologica (37,9%-42,9% nei trimestri del 2024), seguita da quella fisica e da minacce persistenti. La violenza psicologica, legata alla violenza economica, purtroppo è abbastanza radicata nei nostri territori e si manifesta attraverso il controllo delle risorse economiche della donna, limitandone l’indipendenza e la capacità di prendere decisioni autonome. Il non avere una indipendenza economica è un ostacolo all’emancipazione delle donne, impedendo loro di uscire da relazioni abusive e maltrattanti per la mancanza di risorse economiche.

La violenza economica e la disoccupazione femminile in Calabria sono due temi strettamente interconnessi e rappresentano una parte significativa del divario di genere e delle difficoltà socio-economiche che caratterizzano la regione.

Non dimentichiamoci che la Calabria registra tassi di disoccupazione femminile tra i più alti d’Italia e d’Europa.

La disoccupazione femminile alimenta la violenza economica perché la mancanza di indipendenza finanziaria rende difficile alle donne rompere il ciclo della violenza. In molti casi, le donne calabresi che subiscono violenza economica non possono permettersi di lasciare il partner perché hanno difficoltà a trovare un’alternativa abitativa per loro e per i propri figli. E questo accade anche per tutte quelle donne che lavorano con contratti part-time, o a tempo determinato, o con contratti atipici senza alcuna forma di assistenza.

È necessario pertanto che la politica calabrese si adoperi affinché anche le donne calabresi possano avere libero accesso al mercato del lavoro tentando così di diminuire quel tasso di disoccupazione femminile e giovanile, vera piaga della nostra terra.

Sul piano della violenza, nonostante gli sforzi, la nostra regione evidenzia criticità nei servizi di prevenzione e supporto. Le forze dellordine, delle quali è necessario evidenziare il costante impegno, risultano sottodimensionate, e vi è un bisogno urgente di potenziare i centri antiviolenza e le case rifugio nonché iniziare delle campagne di sensibilizzazione rivolte a tutti i cittadini, in particolar modo ai giovani. Leducazione al rispetto e allaffettività nelle scuole e nelle università è ritenuta fondamentale per un cambiamento culturale a lungo termine.

È da tempo che ribadiamo limportanza dei consultori familiari. I consultori sono dei presidi importanti sul territorio che, se messi nelle condizioni, sono in grado di intercettare casi di violenza domestica e giovanile.

Tutto ciò necessita di impegni finanziari importanti da parte della politica calabrese che deve adoperarsi per trovare le risorse necessarie al buon esito degli intenti.

Parliamo di cambiamento culturale perché, in passato, il ruolo delle donne è stato spesso definito da norme patriarcali, con una forte enfasi sull’onore della famiglia, un concetto che storicamente ha reso le donne custodi di un ideale di purezza e obbedienza nonché di sottomissione. In questo contesto, atti di controllo, gelosia e persino violenza sono stati talvolta giustificati come strumenti per “proteggere” o “preservare” questo onore. È necessario decostruire gli stereotipi di genere  e  superare certi retaggi culturali. Bisogna far capire quindi, alle giovani generazioni che gesti di gelosia, di controllo ossessivo, anche del cellulare, la denigrazione, la limitazione della libertà,  nulla hanno o devono avere a che fare con una relazione affettiva che piuttosto deve porre le basi sulla fiducia e il rispetto reciproco.

In questo contesto di numeri e statistiche, è “confortanteil dato Istat che ha registrato un incremento dell83% di richieste di aiuto. Confortanteperché indica che le donne stanno acquisendo una maggiore consapevolezza sulla questione e sempre una maggiore fiducia nei confronti delle istituzioni ma sopratutto fiducia in tutta quella rete di solidarietà che nasce dalle donne per le donne.

Non dobbiamo infatti dimenticare di citare e ringraziare tutte quelle associazioni, fatte da volontarie,  che operano sul territorio e sono il cuore pulsante di una intera comunità, animate da una passione instancabile che trasforma solidarietà e impegno in gesti concreti di aiuto e speranza. Per le donne. Per tutte noi. (ac)

[Anna Comi è Coordinatrice Cpo Uil Calabria]

PNRR, IL FALLIMENTO DELL’ATTUAZIONE È
DOVUTO ALL’EREDITÀ DI CONTE E DRAGHI

di ERCOLE INCALZANel mese di settembre del 2022, cioè in un periodo in cui era ancora in carica il Governo Draghi, in uno dei miei blog pubblicato su “Le stanze di Ercole”, denunciai, in modo dettagliato, lo stato di avanzamento, o meglio, lo stato di “non avanzamento” delle opere e delle scelte contenute nel Pnrr e, siccome non sono un veggente, tentai anche di analizzare attentamente ed in modo capillare lo stato di avanzamento delle varie proposte progettuali.

Questa analisi mi portò, in modo quasi automatico, ad elencare quanto sarebbe successo negli anni futuri, cioè nel 2023 e nel 2024. Riportai, cioè, le varie anticipazioni e denunciai anche, in modo formale, che lo stato davvero preoccupante ed irresponsabile era da ricercarsi nell’assenza di una governance unica e nel mancato avvio organico della intera operazione negli anni 2020 e 2021, cioè durante il Governo Conte 2 e nella prolungata sottovalutazione della stasi da parte del Governo di Mario Draghi.

Ebbene, i dati che avevo avuto modo di approfondire portavano alle seguenti conclusioni: alla fine del 2024, cioè a 18 mesi dalla scadenza dell’arco temporale imposto dalla Unione Europea avremmo potuto contare su un avvio concreto delle procedure e dei relativi affidamenti non superiore al 40% e quindi saremmo stati molto lontani dalla soglia di spesa del volano assicurato dalla Unione Europea.

Sempre in tale mia anticipazione elencai, per ogni singola area progettuale, le possibili quote di attivazione concreta e le difficoltà che non consentivano una adeguata attività della spesa. Queste mie considerazioni penso le ricordi anche Giorgio Santilli che fu uno dei pochi giornalisti a condividere questo mio allarme.

Ripeto questa mia denuncia non fu assolutamente presa in considerazione e, addirittura, se leggiamo i vari comunicati stampa pubblicati dalla Presidenza del Consiglio e da alcuni Ministri, come in modo particolare il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, scopriamo una ripetitiva elencazione di assicurazioni ottimistiche sullo stato di avanzamento dei progetti e delle scelte del Pnrr e del PNC (Piano Nazionale per gli investimenti Complementari al Pnrr.

Tra l’altro, cosa che mi preoccupa e al tempo stesso mi meraviglia, è che l’Anac sono sicuro conoscesse questa analisi tendenziale sin dal 2022 ed è strano che non l’avesse denunciata formalmente al Governo Draghi.

Quando il 22 ottobre del 2022 si insedia l’attuale Governo, infatti, il Ministro Raffaele Fitto, con la delega agli Affari europei, al Sud, alle politiche di coesione ed al Pnrr, si rende subito conto che praticamente era stato avviato concretamente appena il 7% – 8% dell’intero Piano.

Ed è il Ministro Fitto nel mese di dicembre del 2022, cioè dopo appena quaranta giorni dal suo insediamento, a dover cambiare l’intero impianto sia gestionale che programmatico; è sempre Fitto a costruire immediatamente una unica governance ed è sempre Fitto a cercare di trasferire nel Fondo di Sviluppo e Coesione (Fsc) alcune proposte ubicate nel Pnrr in modo da poter fare riferimento ad una scadenza temporale non del 2026 ma del 2027 con proroga fino al 2029 e, con questi atti, testimonia subito alla Unione Europea una chiara volontà, un chiaro tentativo di ripristinare delle condizioni difendibili sulla scadenza del giugno del 2026.

Pochi giorni fa abbiamo appreso delle anticipazioni relative allo stato di avanzamento del Pnrr da parte dell’Associazione Nazionale Anticorruzione (Anac); dati che, in modo sintetico, riporto di seguito:  «Le procedure di appalto relative a investimenti del Pnrr svolte negli anni 2023 – 2024 e non ancora assegnate sono oltre il 60% di tutte quelle avviate negli ultimi due anni, in particolare 98.033 su 162.480 mentre la quota degli importi economici degli appalti non ancora affidati è il 45% del totale avviato (35,5 miliardi di euro su 79,2 miliardi di euro.

Questo significa che una fetta molto ampia dei cantieri e dei contratti di fornitura previsti dal Pnrr non è ancora partita a diciotto mesi dalla scadenza prevista.

Sempre dai dati Anac risulta che per gli appalti avviati nel 2023 si è arrivati all’affidamento per il 74% del valore appaltato mentre per gli appalti avviati nel 2024 solo il 5%.

Infine «per le procedure avviate nel 2024 su 13.577 milioni di euro di lavori pubblici quelle non avviate, ammontano a 12.996 milioni di euro oltre il 96% del totale e se si aggiungono i 6,7 miliardi ereditati dal 2023 si evince che ci sono quasi 20 miliardi di euro di lavori pubblici del Pnrr ancora da affidare e cantierare».

Nasce spontaneo un interrogativo: perché, come detto prima, durante il Governo Conte 2 ed il Governo Draghi l’Anac, che sicuramente monitorava l’avanzamento delle opere del Pnrr e, quindi, era adeguatamente informata sulle naturali tendenze e sulle possibili previsioni di avanzamento dell’intero Piano nel 2024, non abbia detto nulla e, soprattutto, non abbia fatto presente ai vari Ministri competenti del Governo Draghi il vero fallimento dell’attuazione del Pnrr, il sicuro risultato negativo di una possibile soglia della spesa non superiore a 80 – 100 miliardi di euro su circa 230 miliardi di euro (Pnrr + Pnc)?

Come dicevo all’inizio questi dati in mio possesso non erano affatto riservati, andavano solo letti ed interpretati e, sono sicuro, l’Anac questo lavoro lo aveva effettuato.

Aggiungo solo che senza l’azione del Ministro Fitto sarebbe stato possibile raggiungere, nel giugno del 2026, solo la modesta soglia di spesa di appena 50 – 60 miliardi di euro e questo misurabile fallimento va addebitato, lo ripeto fino alla noia, alla mancata incisività gestionale e programmatica dei Governi Conte e Draghi. (ei)

SANITÀ: INGIUSTIZIA NEL PIANO DI RIENTRO
TROPPI MALATI CRONICI, POCHISSIMI FONDI

In una recente intervista, il commissario al piano di rientro sanitario calabrese, Roberto Occhiuto, tra i mali della sanità calabrese ha segnalato il fatto che i medici di famiglia hanno emolumenti doppi rispetto a quelli dei medici del pronto soccorso.

Intanto si segnala che i medici di famiglia con i loro emolumenti devono fare fronte a tutte le spese di gestione dei loro studi (personale, affitto, acqua, luce, gas, programmi di gestione delle cartelle cliniche ect. e, infine, non hanno il Tfr) e, comunque, se fare il medico di famiglia è così vantaggioso, come mai la maggiore mancanza di medici è proprio quella dei medici di famiglia, per cui ci sono milioni di italiani senza?

Poi si segnala il fatto che i medici di famiglia sono quelli sempre in prima linea di fronte alle criticità sanitarie, per come dimostrato dal covid quando (come dimostriamo in un documento già inviato alle autorità tutte nel 2020) a fronte di un dimezzamento dei ricoveri, al quasi annullamento delle visite specialistiche e al forte ridimensionamento degli esami di laboratorio gli unici a vedere aumentato il lavoro e il contatto con i propri assistiti sono stati i medici di famiglia e non è un caso che il tributo di morti pagato dai medici in quel periodo è stato principalmente quello dei medici di famiglia.

Tributo pagato anche dalla nostra Associazione Mediass, con il decesso del suo presidente, dott. Battaglia Annibale, che prima del covid era arrivato a fare in una sola giornata ben 185 accessi dei suoi assistiti tra visite ambulatoriali, domiciliari, telefoniche, per email e altro (dato questo verificabile in quanto il dott. Battaglia Annibale era medico ricercatore Health Search, i cui dati sono, quindi, validati e archiviati).

Ancora, c’è da dire che il lavoro del medico di famiglia è fortemente penalizzato da una immensa burocratizzazione e, da qui, un documento inviato già nel 2020 alle autorità sanitarie in cui i medici Mediass si sono autodenunciati per il fatto che per poter curare i propri assistiti sono costretti a “violare” le imposizioni delle Asp per poter applicare la medicina basata sulla evidenza. Un solo esempio di questo fatto è che in piena pandemia Covid, l’allora commissario Cotticelli, ha emanato il Dca n. 63, con il quale intimava ai medici di famiglia di risparmiare sulla spesa farmaceutica indicando molecola per molecola i risparmi fa fare.

L’esempio è quello degli inibitori di pompa protonica (i gastroprotettori) per i quali il decreto imponeva che, con questi farmaci, si potevano curare un massimo di 71 assistiti ogni 1000, perché questa era la media italiana. Ebbene, avviene che in Calabria un medico di famiglia tra i suoi 1000 assistiti ne aveva in media almeno 90, che avevano più di 65 anni e che assumevano la cardioaspirina ai quali per deliberazione nota 1 Aifa, era ed è obbligato a prescrivere i gastroprotettori.

Ma c’è di più: lo stesso medico, tra gli stessi 1000 assistiti, ne aveva almeno altri 90 che era obbligato a curare sempre con i gastroprotettori, per deliberazione nota 48 Aifa. Come è intuibile, se il medico di famiglia avesse applicato il decreto n. 63 (tutt’ora vigente) avrebbe dovuto negare la prescrizione dei gastroprotettori ad un grande numero dei suoi assistiti, perché le 71 dosi imposte dal decreto ne escludevano una grande parte, con buona pace della medicina basata sulla evidenza. Io violerò il decreto e li curerò tutti (così abbiamo risposto allora a Cotticelli).

Questo esempio ci porta a consigliare al commissario-governatore Occhiuto cosa dovrebbe fare per salvare i malati calabresi. Noi medici Mediass dovevamo prescrivere quei farmaci in più rispetto al resto d’Italia, per il semplice motivo che in Calabria c’erano allora – e ci sono adesso – molti più malati cronici che non nel resto d’Italia. E sia Cotticelli allora, che oggi Occhiuto, dovrebbero saperlo perché oltre a tutti gli istituti di statistica sanitaria, il fatto è stato accertato da un decreto di un altro commissario al piano di rientro sanitario calabrese, l’ing. Scura, che, con il Dca n. 103 del 30/09/2015 ha certificato che in Calabria ci sono ben 287.000 malati cronici in più rispetto ad altri due milioni di altri italiani.

E, visto che il Dca n. 103 è stato vidimato prima da Ministero dell’Economia, qui cogliamo l’occasione per segnalare l’ingiustizia del piano di rientro sanitario calabrese che prevede che ogni Dca del suo commissario deve essere vidimato prima dal Ministero dell’Economia, che deve valutare il risparmio di spesa sanitaria, ed è questo che poi lo passa al Ministero della Salute, che valuta la sua inidoneità dal punto di vista sanitario.

Della serie tutti sapevano e tutti sanno che in Calabria ci sono molti più malati cronici rispetto alle altre regioni italiane, e ciò dimostra la “cattiveria e l’ingiustizia” del piano di rientro. Come tutti sanno, compreso il commissario-governatore Occhiuto, la Calabria è la regione che, a fronte dei molti malati cronici in più da circa 20 anni a questa parte, è la regione che riceve meno fondi sanitari. Meno fondi sanitari dove ci sono più malati cronici, ed è di questo di cui il commissario Occhiuto si dovrebbe interessare, se vuole veramente salvare i malati calabresi.

Prima di tutto, dovrebbe costringere il suo partito (di cui è vicesegretario) che sta approvando una finanziaria, che dedica alla sanità la più bassa percentuale rispetto al Pil mai avvenuta e grandemente distante dalla percentuale dedicata alla sanità dagli altri stati europei. Poi, il governatore Occhiuto dovrebbe andare alla Conferenza Stato-Regioni e battere i pugni sul tavolo per cambiare il criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni, che da due decenni ha mortificato la Calabria e il Sud in genere, per basarlo su veri bisogni delle popolazioni e cioè sul numero delle malattie presenti in ogni regione.

E dovrebbe andarci e battere i pugni sul tavolo perché sono proprio le regioni attualmente avvantaggiate, perché a fronte di meno malati ricevono più fondi, e governate dal suo partito che si oppongono a questa modifica. E se non riesce a convincere i suoi compagni di partito può fare come il governatore della Campania (regione nelle stesse condizioni della Calabria) che ha fatto ricorso al Tar proprio contro l’ingiusto criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni.

Questo sì che potrebbe dargli i fondi per aumentare gli stipendi dei medici e degli operatori sanitari tutti, di riaprire i 18 ospedali chiusi in Calabria, di aumentare i posti letto e fare una migliore medicina del territorio. ( Dott.ssa Rosa Bianco, dott.ssa Antonietta Greco, dott.ssa Ester Fabiano, dott.ssa Lerose Serafina, dott. Giacinto Nanci, dott. Andrea Muscolo e dott. Rossi Carmelo)

CROTONE SITO DI(S)INTERESSE NAZIONALE
SERVE COOPERAZIONE E COESIONE SOCIALE

di EMILIO ERRIGODa quasi due anni vivo in Calabria, immerso nelle sfide quotidiane di una terra che purtroppo, storicamente, non ha mai conosciuto la serenità. La realtà delle famiglie meridionali in questa regione resta una delle più dure d’Italia.

La Calabria è un angolo di Sud,  per molti, ironicamente o con amarezza, è anche il Sud del Sud, un luogo che racchiude in sé  la sofferenza storica e sociale del Mezzogiorno. 

L’integrazione forzata del Meridione nel nuovo Regno d’Italia nel 1861, con la sua scia di  violenze, conflitti e disuguaglianze, non ha certo lasciato un ricordo positivo. La memoria di  quel periodo drammatico, segnato da leggi ingiuste (come la legge Pica del 15 agosto 1863  n. 1409) e da una repressione brutale ha plasmato l’anima di molti meridionalisti. Quella  memoria rivive oggi nei volti di molti calabresi che, senza prospettive, guardano al futuro con  rassegnazione.  

Non pochi intellettuali, infatti, temono che l’attuale disagio sociale possa sfociare in  pericolose tensioni popolari, come accadde durante i moti di Reggio Calabria negli anni ’70, un tristissimo ricordo passato che però al primo soffio di vento potrebbe riaccendere la brace  ancora ardente e viva, alimentando il dissenso la rivolta sociale.  

In questi due anni, ho avuto modo di confrontarmi con la realtà dei giovani calabresi, in  particolare a Crotone e provincia, dove l’insoddisfazione è palpabile. La città, che detiene uno  dei redditi pro capite più bassi d’Italia, è vista dai suoi abitanti – soprattutto dai giovani – come un luogo senza futuro. La solitudine, l’apatia e le promesse politiche mai mantenute  sono il pane quotidiano. La speranza sembra essersi spezzata, ma un gruppo di studenti ha  avuto il coraggio di denunciare questa realtà con un libro frutto di un’esperienza partecipata  di scrittura collettiva dal titolo provocatorio: Crotone: un sito di (dis)interesse nazionale.

Che fare allora? 

In un contesto così difficile, l’ottimismo tra i giovani dovrebbe essere la forza trainante, ma la  speranza dovrà essere sostenuta da fatti concreti; proprio da Crotone deve partire una nuova  rinascita. La bonifica ambientale, la riparazione del danno ambientale. la rigenerazione dei  territori, la decontaminazione dei suoli e delle acque – tutti interventi fondamentali per  restituire un futuro ai calabresi – sono oggi più che mai necessari.  

Il Sito di Interesse Nazionale (Sin), la vasta area inquinata da decenni di storica  industrializzazione chimica e metallurgica ora necessita di una bonifica urgente per  recuperare il terreno perso e restituire dignità a chi ci vive.

Il popolo di Crotone, martoriato da un tasso di patologie tumorali molto alto, deve essere  messo in grado di potersi curare subito, in loco e con dignità. 

Le prepotenza, la fame, la violenza, la criminalità, la malavita e l’indifferenza che storicamente hanno caratterizzato questi luoghi nei decenni passati, stanno progressivamente perdendo  peso anche grazie ad un cambio di passo delle istituzioni, che applicando con fermezza il diritto vigente, stanno finalmente riaffermando il valore della legalità e il primato della civiltà. 

La Calabria, con Crotone in primis, ha tutte carte in regola, le condizioni generali e  presupposti politico-istituzionali per risorgere e vincere la più importante scommessa della  storia, insieme si può superare ogni criticità e disagio nel segno della coesione sociale. 

Se i piani di bonifica e di risanamento ambientale riusciranno a superare l’impasse  burocratico, la Calabria avrà la possibilità di attrarre investimenti e dare vita a una nuova  economia. Con l’istituzione della Zona Economica Speciale (Zes) Unica del Mezzogiorno (avvenuta con Decreto-Legge 19 settembre 2023, n. 124, convertito in Legge n. 162 del 13  novembre 2023), la regione potrebbe finalmente vedere il suo potenziale risvegliarsi. 

I fondi per il risanamento e lo sviluppo infrastrutturale potrebbero trasformare Crotone e il  resto della Calabria in un polo di attrazione per imprese nazionali e internazionali a beneficio  del Pil pro-capite e del benessere sociale. 

Non mancano certo le risorse per una rinascita. Il mare, il sole, le risorse minerarie e  idroelettriche, e l’agricoltura di qualità sono risorse che la Calabria ha sempre avuto.  Purtroppo, queste ricchezze non sono mai state sfruttate pienamente. 

Ora, però, con il giusto impegno e una visione lungimirante, la Calabria potrebbe diventare  un hub energetico strategico per l’Italia, grazie alle sue centrali idroelettriche, agli impianti di  energia rinnovabile e alle sue risorse minerarie. 

Penso, ad esempio, a ciò che potrebbe avvenire all’indotto economico – sociale con  l’avvenuta bonifica della vasta Area Archeologica di Crotone; circa 80 ettari di storia, l’Antica  Kroton restituita a turisti ed appassionati di archeologia. 

E al conseguente sviluppo logistico – intermodale e turistico con l’ampliamento delle infrastrutture portuali e retroportuali a partire da quelle che oggi appaiono abbandonate al  loro destino e degrado ambientale e vistosamente inutilizzate (area Ex Sasol) e con il  potenziamento ed elettrificazione della rete ferroviaria Jonica tra Taranto e Reggio Calabria,  con il potenziamento del traffico aeroportuale, l’aumento della sicurezza della viabilità  primaria e secondaria sulla nuova SS 106, migliori connessioni stradali e una moderna  Logistica Intermodale Sostenibile di supporto.

Crotone è già un hub energetico di primaria importanza, fondamentale e a costi di  approvvigionamento competitivi sul mercato delle energie rinnovabili. 

Senza bisogno di ricordare che le risorse idriche del fiume Esaro, che bagnano Crotone e  parte della Provincia di Pitagora, assicurano la produzione agricola, vitivinicola e  agroalimentare di pregio nazionale e internazionale.  

Io credo fermamente negli uomini e donne calabresi, negli amministratori pubblici e nei  rappresentanti eletti dal popolo di Calabria, senza distinzione alcuna di ideologia politica e  partitica. 

In Calabria e a Crotone soprattutto, come ho avuto già modo di rappresentare, c’è un  rinnovato interesse dello Stato e queste tante attenzioni del Governo, insieme ai segnali  positivi di crescita delle infrastrutture portuali e territoriali, porteranno benefici economici e  sociali. 

Oggi ci giochiamo il futuro di Crotone, a patto che tutte le iniziative a favore della collettività  prevalgano sugli interessi individuali e personali grazie alla creatività, l’ingegno e il rispetto  della legalità proprie di quella che io amo definire “Calabresità”.

Crotone vincerà solo con la cooperazione e coesione sociale, consentendo ai giovani di  studiare e vivere con pari diritti e doveri, nel territorio dove sono nati e cresciuti da  Meridionalisti d’Italia in Calabria! (ee)

(Emilio Errigo è nato a Reggio Calabria, studioso di Diritto Internazionale dell’Ambiente;  docente universitario di “Diritto Internazionale e del Mare” e di “Management delle Attività  Portuali” presso l’Università della Tuscia ricopre attualmente il ruolo di Commissario  Straordinario delegato di Governo del SIN di Crotone-Cassano allo Ionio e Cerchiara di  Calabria)

L’EMIGRAZIONE DEI CERVELLI VERSO NORD
NON FA MALE SOLAMENTE AL MEZZOGIORNO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Partono ‘e bastimente, pe’ terre assaje luntane, cantano a buordo: sò napulitane! Cantano pe’ tramente’, o golfo già scumpare, e ‘a luna ‘a ‘mmiez’ ô mare’, nu poco ‘e Napule lle fa vedè».

Si chiama “Santa Lucia lontana” questa canzone ed è scritta da E.A. Mario nel 1919. Che insieme a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, e Libero Bovio è da annoverare tra i massimi esponenti della canzone napoletana della prima metà del Novecento. 

Siamo appena dopo la  prima guerra mondiale e comincia un’emigrazione di massa soprattutto verso le Americhe da tutto il Sud ma anche dal Nord, in particolare dal Veneto ma anche dal Piemonte. Bergoglio è figlio di emigranti piemontesi. Sono quattro fratelli nati a Buenos Aires. Il padre Mario era un funzionario delle ferrovie, la madre, Regina Sivori, una casalinga con sangue piemontese e genovese. 

Quando si partiva non si tornava più.  Ovviamente Papa Francesco rappresenta un’eccezione dovuta alla chiamata dello Spirito Santo a Roma. 

Qualcuno ancora afferma che la mobilità arricchisce ed è vero. Ma quando si tratta di fenomeni monodirezionali è falso parlare di mobilità. In questo caso si tratta di emigrazione, quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che non riescono a dare un progetto di futuro ai propri abitanti, che sono costretti a lasciare tutto per avere una possibilità di sopravvivenza. 

Ha un solo flusso verso l’esterno, difficile che vi sia un flusso contrario. Arricchisce i Paesi che ne usufruiscono, soprattutto nel caso in cui questi sono in condizione di scegliere le migliori professionalità, in termini di età e di preparazione, da far entrare nel Paese. 

Subito dopo la seconda guerra mondiale negli anni ’50-’60, il fenomeno diventa epocale e una massa di meridionali si sposta in pianura padana, per cui Torino diventa la città con più meridionali in Italia. 

Sradicamento, legami che si perdono, in un processo ben rappresentato da Luchino Visconti nel capolavoro  “Rocco e i suoi fratelli”. Manodopera che consente all’Italia di essere protagonista del miracolo economico con tassi di crescita annuali vicini al 5%, in un  percorso che, invece di portare il lavoro dove c’era il capitale umano, preferisce trasferire quest’ultimo con una serie di problematiche importanti che evidenziano le proprie conseguenze anche oggi. 

Allora si partiva con le valigie di cartone e prendendo un treno di seconda classe. Inizialmente la famiglia rimaneva nei paesi d’origine e con sacrifici incredibili si riusciva ad inviare qualcosa di quello che si guadagnava a casa. Quelli che migravano erano i più poveri, anche i meno istruiti e conseguentemente  l’immagine che si creò fu  quella del meridionale ignorante, cafone e spesso con famiglie numerose. Eh sì, perché nella seconda fase, quando riusciva a stabilizzarsi, l’emigrato faceva salire la famiglia e abitava le periferie dormitorio delle città del Nord. Da cui le scritte “non si affitta a meridionali”.

Dagli anni ’70 in poi la seconda ondata ha riguardato nella maggior parte dei casi giovani istruiti, 100.000 persone l’anno che dal Mezzogiorno si trasferiscono nelle regioni settentrionali, in particolare in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Ma la frase per coloro che erano bravi “non sembri nemmeno meridionale” fa capire quale era il sentimento nei confronti dei nuovi arrivati. 

Questa seconda ondata è formata da giovani che hanno perlomeno la scuola media superiore e il costo per le regioni di appartenenza, considerato che ognuno di loro per essere portato a tale stato costa 200.000 €, è di circa 20 miliardi l’anno. Una cifra enorme che nessuno pensa di farsi restituire. 

La differenza tra la prima emigrazione e la seconda è importante. Perché nella prima vi erano trasferimenti di risorse dal Nord  al Sud con le rimesse verso le famiglie di provenienza. Nella seconda avviene il contrario. La famiglia invia i soldi per fare vivere il ragazzo o la ragazza che inizialmente ha uno  stipendio tale da non poter sopravvivere. In un secondo momento la famiglia  compra loro la casa, magari vendendo quella di proprietà al Sud, impoverendone il mercato Immobiliare.

E spesso alla fine del percorso anche i genitori si trasferiscono al Nord per stare vicini ai figli e ai nipoti. Quindi una operazione in totale perdita per i territori. Ma spesso il trasferimento avviene già con la frequenza in un’università del Nord, in maniera tale da poter entrare più facilmente nel mercato del lavoro.

Ormai la vulgata che viene diffusa al Sud è quella che chi rimane è uno sfigato. E che chi vuole riuscire deve assolutamente emigrare. Una costruzione che prevede di non mettere a regime il 40% del territorio e il 33% della popolazione, adottando un modello di sviluppo kamikaze, che prevede l’affollamento di una parte con problemi di convivenza non facili e l’abbandono di un‘altra. 

In un percorso in cui il Nord pensa al suo Mezzogiorno come a una colonia interna, dalla quale estrarre capitale umano formato, energia, invadendo il territorio di pale eoliche e impianti solari, da cui far arrivare pazienti per le proprie cliniche e ragazzi che frequentino le proprie  università. 

E adesso il fenomeno riguarda anche i cinquantenni, ripercorrendo le strade della prima emigrazione verso le Americhe. Ma d’altra parte se non hai possibilità di un progetto di futuro nella tua terra, della dignità di un lavoro riconosciuto e remunerato, un volo low cost diventa un salvacondotto. 

Qualcuno ci potrà anche guadagnare il Paese perde sicuramente le sue chances di competere non solo con gli altri Paesi fondatori europei ma anche con il mondo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

SCUOLA: DISABILITÀ, INCLUSIONE, RISORSE
MENO RETORICA, SERVONO PIÙ INTERVENTI

di GUIDO LEONEL’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisce un punto di forza del nostro sistema educativo. La piena inclusione degli alunni con disabilità è un obiettivo che la scuola dell’autonomia in questi anni persegue attraverso una intensa e articolata progettualità, che spesso non ha trovato e non trova sul territorio riscontri in termini di disponibilità, risorse e strategie interistituzionali.

Anche perché nel nostro Paese durante gli ultimi  anni è stato operato un taglio significativo sui capitoli dell’istruzione, della sanità e del welfare. Gli effetti dei tagli e del federalismo fiscale sul diritto allo studio rischiano di fare imboccare alla scuola la via dell’”esclusione” ancor più se  l’autonomia differenziata non sarà fermata. 

I dati di ricerche e monitoraggi recentemente effettuati rivelano alcune criticità di non poco conto, dall’insufficiente assistenza in classe alla presenza di barriere architettoniche, dalla presenza di insegnanti di sostegno poco formati al servizio di trasporto non sempre garantito per cui servono cambiamenti urgenti.

Continuo aumento delle disabilità

Secondo i dati ministeriali gli alunni disabili presenti nel corrente anno scolastico negli istituti italiani di ogni ordine e grado statali sono 331.124, su una popolazione scolastica complessiva di 7.073.587 allievi, evidenziando un incremento di 19.923 unità rispetto all’anno precedente.

Anche in Calabria e nella Provincia di Reggio

Nelle classifica delle regioni italiane sui numeri della presenza degli allievi disabili  la Calabria si colloca al decimo posto con 10.755 unità ,791 allievi in più rispetto all’anno precedente; un incremento continuo come si può ben notare (erano 6.591 nel 2014/15; 6.457 nel 2013/14; 6.224 nel 2012/2013 ).

Nella nostra regione gli allievi in questione sono così distribuiti: nella scuola dell’infanzia 944, nella primaria 3.843, nella scuola media di primo grado 2.677, nelle scuole superiori 3.291.

Gli allievi portatori di handicap nelle scuole della provincia di Reggio Calabria sono in tutto 3.560  anni, così distribuiti: 245 nelle scuole dell’infanzia, 1.230 nella primaria, 854 nella media di primo grado, 1.231 nelle superiori.

Il dettaglio delle tipologie di disabilità

Il problema più frequente è la disabilità intellettiva che riguarda il 37% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado attestandosi rispettivamente al 42% e al 48%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (32% degli studenti), che aumentano nelle scuole del primo ciclo, in particolare nella scuola dell’infanzia (57%).

Frequenti anche i disturbi dell’apprendimento e quelli dell’attenzione, ciascuno dei quali riguarda quasi un quinto degli alunni con disabilità, entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 26% e il 21% degli alunni). Meno frequenti le problematiche relative alla disabilità motoria (10,5%) e alla disabilità visiva o uditiva (circa 8%), con differenze poco rilevanti tra gli ordini scolastici. 

Il 39% degli alunni con disabilità presenta più di una tipologia di disabilità, questa condizione è più frequente tra gli alunni con disabilità intellettiva che, nel 54% dei casi, vive una condizione di pluridisabilità. 

Quasi un terzo degli studenti (28%) ha inoltre un problema di autonomia con difficoltà nello spostarsi. Analoga situazione è riscontrabile nella provincia di Reggio Calabria dove prevale la minorazione psicofisica. 

Rilevanti anche i numeri relativi ai disturbi specifici dell’apprendimento Dsa-Bes

Aumentano anche nelle statistiche i dati relativi ai disturbi specifici dell’apprendimento.

In effetti, dopo il ritardo mentale nella tipologia dei problemi degli alunni con disabilità risulta al secondo posto il disturbo specifico dell’apprendimento (Dsa), una sindrome che si manifesta con la difficoltà di imparare la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento. Questa difficoltà, purtroppo, è sempre più spesso causa di diagnosi errate. In tutte le scuole elementari del Paese la dislessia viene diagnostica al 20% dei bambini che la frequentano, percentuale che non rispecchia la realtà e spesso i bambini si ritrovano dirottati su percorsi alternativi come portatori di una disabilità che non hanno.

Troppo spesso l’individuazione e il riconoscimento dei sintomi tardano: nella scuola secondaria di primo grado ,secondo i dati ministeriali,  il 4,2% dei ragazzi è affetto da Dsa, a fronte dell’1,6% nella primaria, del 2,5% nella secondaria di primo grado e del 2,1% totale nazionale. Ma a seguito del tardivo riconoscimento si complica nel frattempo il rendimento scolastico del bambino o del ragazzo affetto da Dsa, caricandolo così di ulteriori disturbi emozionali e comportamentali ma anche facendo crescere il disagio delle famiglie.

Riconoscere, perciò, precocemente i Dsa è fondamentale ma è necessaria  una formazione specifica del personale coinvolto, che offra gli strumenti adeguati per cogliere i primi segnali e d’ effettuare gli interventi opportuni. Nelle scuole italiane, però, ci sono anche studenti riconosciuti come Bes, ovvero che hanno Bisogni Educativi Speciali. Ovvero ragazzi e ragazze ai quali , si legge sul sito del Miur, «per motivi fisici , biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali , è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta». In questa categoria , ad esempio, rientrano gli studenti dislessici, disgrafici e discalculici , ma anche quelli con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD).

In Calabria nelle scuole dell’infanzia si registra una presenza di alunni Bes dello 0,5%, nella primaria del 3,4%, nella scuola media del 5,4% , nelle scuole superiori del 4,0%.

Aumenta anche il contingente degli insegnanti di sostegno

Ma, aumenta, al contempo, il contingente dei docenti di sostegno: questa figura è molto importante non solo per il processo formativo dell’alunno disabile, ma anche per promuovere il processo di inclusione scolastica. Quasi 205.253mila, più 10.772 rispetto all’anno precedente, per  331.124 studenti disabili  Si prendono cura ogni giorno di bambini e ragazzi con i disturbi più disparati e mandano avanti la scuola italiana, contribuendo a realizzare quella che in Europa definiscono una eccellenza del sistema scolastico italiano. Certo non tutti i numeri sono positivi, nel senso anche che troppo docenti, almeno il 40% del totale, sono ancora precari.

In totale in Calabria risultano 8.260 posti di sostegno, più 1.658 rispetto all’anno precedente.

Discontinuità nel rapporto alunno-insegnante

Sempre dal report Istat per l’anno scolastico 2022/2023 la quota di alunni con disabilità che ha cambiato insegnante per il sostegno rispetto all’anno precedente è stata pari al 59,6%.  Il fenomeno è piuttosto stabile su tutto il territorio e sembra consolidarsi nel tempo, non si riscontrano, infatti, differenze rispetto al passato. 

Una quota non trascurabile di alunni (9%) ha, inoltre, cambiato insegnante per il sostegno nel corso dell’anno scolastico, anche in questo caso non si riscontrano differenze significative sul territorio e tra gli ordini scolastici.

L’area della docenza di sostegno , comunque, si presenta ancora con forti problematicità: ampia presenza di personale precario, non pochi incarichi conferiti a personale privo di titolo di specializzazione, turn over “selvaggio” dovuto al meccanismo di assegnazione annuale fuori organico (deroga). Ben vengano, dunque, proposte risolutive per aumentare, stabilizzare e qualificare detto personale.

Pochi gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione

In quasi tutti i casi di disabilità non siamo in presenza solo di problemi di natura apprenditiva e cognitiva  ma anche di una “materialità” delle cure educative da rivolgere ai disabili: bisogni fisici (deambulazione, pulizia, alimentazione), tempi più abbreviati di attenzione, mancanza di autonomia, esigenze di interazione tonico-affettiva continuativa, ecc. 

Ecco perché non si può ignorare l’esigenza di una presenza supplementare di personale:educatori, personale assistenziale. Si tratta però di risorse non facilmente disponibili. C’è infatti una scarsità di strumenti e ausili adeguati.

Gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione che affiancano gli insegnanti per il sostegno sono più di 68mila, di questi il 4,5% conosce la lingua italiana dei segni (Lis). Sono operatori specializzati, finanziati dagli enti locali, la cui presenza è finalizzata a migliorare la qualità dell’azione formativa, facilitando la comunicazione e l’interazione dello studente con disabilità e stimolando lo sviluppo delle sue abilità nelle diverse dimensioni dell’autonomia. 

A livello territoriale sono ancora ampi i divari nella disponibilità di assistenti all’autonomia: a fronte di un valore medio di 4,4 alunni per assistente, nel Mezzogiorno il rapporto sale a 4,7,in Calabria è del 4,5.

E, poi, le criticità strutturali e infrastrutturali rilevate dall’Istat

Una fotografia più dettagliata sulle criticità del pianeta disabilità nel nostro sistema scolastica  la propone sempre l’Istat nel suo consueto e recente rapporto annuale, pubblicato qualche mese addietro e  relativo all’anno scorso.

Nel Mezzogiorno vi è ancora la percentuale più bassa di scuole che possiedono le scale a norma. Ed in particolare la Calabria è quella che è la più deficitaria, tra le ultime, che ha i valori in assoluto più bassi nella scuola primaria per quanto riguarda le scale, i servizi igienici, i percorsi sensoriali interni ed i percorsi esterni, le mappe a rilievo e i percorsi tattili. Lo stesso differenziale territoriale anche per la scuola secondaria di primo grado, pur penultima nella classifica delle regioni. Le scuole non accessibili per barriere fisiche sono il 48,3%, quelle senza mappe a rilievo per ciechi/ipovedenti il 79,3%,che non dispongono di segnalazioni visive per sordi il 67,6%.

Si confermano, rispetto all’anno precedente, invece i dati relativamente alle presenza di postazioni informatiche nelle scuole di ogni ordine e grado destinate alle persone con disabilità  della Calabria  l’ottava regione italiana con il 74,6%  a fronte di una media italiana del 73%

Le postazioni informatiche adattate all’inclusione scolastica sono situate prevalentemente in laboratori dedicati  per il 58,5%, meno frequente la presenza di postazioni nelle classi di alunni con disabilità il 44,0% mentre la percentuale della loro presenza in aule specifiche per il sostegno è del 33,8%.

La Calabria si conferma sotto la media nazionale (67,5%) nel totale delle scuole  di ogni ordine e grado  per l’utilizzo da parte degli insegnanti di sostegno della tecnologia per la didattica speciale pari al 52,7%.

Tuttavia, viene rilevato nel report Istat, un contributo importante alla rimozione di queste barriere potrà avvenire con la realizzazione dei progetti finanziati con fondi Pnrr per rendere innovativi, sostenibili, sicuri e inclusivi tutti gli edifici pubblici adibiti a scuole, avviati a partire dal 2024.

Le esigenze di cambiamento e innovazione

Per l’inclusione scolastica ci sono una serie di ritardi e di lacune che non facilitano il percorso cominciato nel nostro Paese mezzo secolo fa frutto di scelte culturali, politiche e legislative lontane nel tempo, che hanno fatto del modello inclusivo la linea portante del nostro sistema scolastico. Non va dimenticato che  il modello italiano di inclusione degli alunni con disabilità è un unicum nel mondo e va difeso e valorizzato.

 Molte sfide sono ancora aperte e che vanno decisamente affrontate dalla  mancanza di programmazione tempestiva dei posti di sostegno e delle supplenze, alla  formazione, alla pedagogia inclusiva rivolta ai docenti delle materie disciplinari non sufficiente, alle  norme chiare sulla continuità didattica e sull’istituzione di una apposita classe di concorso per il sostegno, alla  delega del progetto inclusivo dell’alunno con disabilità da parte dei docenti curriculari ai soli colleghi del sostegno.

La seconda grande questione che rischia di mettere a rischio un modello di inclusione efficace risiede nel fatto che un terzo degli insegnanti (67 mila) non sono specializzati. L’inclusione si fa con personale stabile e adeguatamente formato, a cui vanno certamente forniti gli ausili necessari, e, ovviamente, anche con spazi adeguati.

Con il decreto 71 del 2024 il Miur ha introdotto la possibilità, su richiesta della famiglia  dell’alunno con disabilità, di ottenere la conferma del docente precario di sostegno in servizio nel precedente anno scolastico, conferma che mira a garantire la continuità didattica che è presidio fondamentale per la didattica di tutti ma in modo particolare per gli alunni fragili.

Nel provvedimento si punta anche ad ampliare l’organico dei docenti di sostegno specializzati.

Il principio dell’inclusione scolastica ci riguarda tutti insieme: dirigenti scolastici e insegnanti curricolari, non solo di sostegno; genitori di tutti gli alunni, non solo di quelli con disabilità. Non sentirsi direttamente coinvolti nelle questioni, non è una giustificazione. Pensiamo allora a un nuovo welfare  regionale, perché si apra una fase nuova. Abbiamo sempre parlato di bisogni e servizi: è ora di parlare di diritti e responsabilità.

Insomma, l’amministrazione regionale e quelle locali devono pensare ad un nuovo welfare, certo  compromesso dal punto di vista economico, ma che, proprio per questo, nella scala di priorità dei bisogni comunitari ,deve poter raggiungere livelli di qualità accettabili nell’integrazione, coniugando diritti dei singoli e responsabilità oggettive. (gl)

[Guido Leone è già ispettore tecnico Usr Calabria]

AUTONOMIA: LA CONSULTA HA BOCCIATO
UN’IDEA SBAGLIATA DELLO STATO ITALIANO

di ERNESTO MANCINI – L’insegnamento della Corte Costituzionale in tema di autonomia regionale differenziata, così come sintetizzato nel comunicato stampa emesso dalla medesima Corte il giorno 14 u.s., è chiarissimo.

La Corte, nell’incipit della propria decisione, afferma “che l’art. 116 terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana”.

Tale forma di Stato, dice la Corte, “riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio”.

Dunque, autonomia sì, quanto possibile – e ciò va condiviso da chi, come il sottoscritto, è autonomista convinto – ma non fino al punto da stravolgere la forma di Stato introducendo un regionalismo competitivo ed egoistico in luogo di quello solidale e cooperativo nonché in violazione dei princìpi di unità della Repubblica e di uguaglianza dei diritti così come voluti dai Padri Costituenti del 1948. (artt. 2, 3 e 5 Cost.)

La Corte enuncia ben sette motivi di incostituzionalità della legge Calderoli svuotandola dei suoi contenuti essenziali; si può dire perciò che questa legge non esiste più se non solo formalmente o comunque non è più eseguibile (sul punto la valutazione dei costituzionalisti è pressoché unanime).

Tra i sette punti di incostituzionalità ci si deve soffermare sul primo sia per motivi di tempo necessario per gli ulteriori approfondimenti sia perché, ammesso che si possa fare una graduatoria di gravità incostituzionale, questo motivo primeggia e assorbe tutti gli altri.

Dice la Corte: «è incostituzionale (…) la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la Regione trasferisca materie o ambiti di materie, laddove la devoluzione deve riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà».

Ciò significa: che non possono trasferirsi dallo Stato alle Regioni intere materie (es.: istruzione, sanità, ambiente, lavoro, energia, ecc.); che possono trasferirsi solo specifiche funzioni legislative od amministrative; ma ciò, in ogni caso…; b.1) …deve avere una specifica giustificazione (“dimostrazione” –  “motivazione”) in relazione alla singola regione…; b.2)  .e, comunque, deve osservarsi il principio di sussidiarietà.

Così, per esempio, la “materia sanità” non è trasferibile in via esclusiva alla singola regione né può trasferirsi la “funzione assistenza ospedaliera rientrante in tale materia” perché non è specifica della singola regione ma comune a tutte le altre.

Può invece trasferirsi, continuando nella necessaria esemplificazione, la funzione legislativa ed amministrativa (prendiamo in prestito un esempio ricorrente nel dibattito degli scorsi mesi) relativa alle cave di Toscana (Carrara-Volterra) perché specifiche di quel territorio, sempre che se ne dimostri la convenienza per lo Stato e che vi sia pertinenza col principio di sussidiarietà (es.: specificità locale, dimostrazione che a livello locale si può svolgere meglio la funzione rispetto alla competenza concorrente tra Stato e Regione, costi-benefici, criticità, opportunità, ecc. ecc.).

Con la sentenza qui in esame, dunque, la Corte chiarisce una volta per tutte come deve intendersi l’espressione usata nella riforma del 2001 all’art. 116 della Costituzione: “ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia”.

Al riguardo il Giudice delle Leggi demolisce la possibilità che singole regioni “ricche” si approprino disinvoltamente, con la collaborazione di un Ministero compiacente, di intere, grandi e strategiche materie e di molteplici funzioni; impedisce che le Regioni entrino in competizione tra loro, che lucrino sui relativi proventi indebolendo simmetricamente il resto della finanza pubblica, che estromettano lo Stato da ogni potere, pregiudicandone  la prerogativa di stabilire i principi fondamentali della materia stessa ed impedendogli di creare un quadro normativo di base comune per tutti i territori.

Con tutto ciò creando piccole repubblichette l’una contro le altre armata e “tutte insieme appassionatamente” contro lo Stato.

Va da sé che qualsiasi correzione della legge che non ottemperi al principio affermato dalla Corte sarà costituzionalmente illegittimo. Calderoli deve ridisegnare la legge ma in modo esattamente opposto a come l’aveva concepita e non gli sarà perciò congeniale.

Le pre-intese non sono più attuali ed anzi contrarie alle regole ora imposte dalla Corte Costituzionale; lo stesso referendum può non essere più attuale votandosi su una legge che è ben lontana, direi svuotata, rispetto a quella avversata con la raccolta delle firme.

Degli altri sei motivi di incostituzionalità, come eccepiti dal Giudice delle Leggi, se ne può parlare in altro momento per non appesantire il lettore non giurista che in questa materia deve avere molta pazienza.

Per il momento il pericolo è scampato ma le vie della prepotenza, degli attacchi alla Costituzione e della involuzione sono infinite. La guardia deve perciò restare alta. (emn)

DAL MARE ALL’ASPROMONTE IN UN BALENO
È PRONTA LA STRADA GALLICO-GAMBARIE

di VINCENZO VITALE – Nonostante il consenso che in modo quasi unanime sta per accogliere l’inaugurazione, prevista per il 1° dicembre, della tanto attesa Gallico-Gambarie, ci sono alcune motivate perplessità che pongono alcuni spunti di riflessione.

Premesso che la Gallico-Gambarie, GAGA, sarebbe stato meglio chiamarla Gallico-Podargoni, GAPO, perché connette in modo veloce e sicuro la statale 18 e l’autostrada A2 con il bivio che dalla statale 184 porta a Podargoni, oltre che a Cerasi e Schindilifà; dal quale ci vogliono ancora ben 12 chilometri per arrivare a Gambarie.

Premesso ancora che in questi 12 chimolemetri si rischia di rimanere imbottigliati nello stretto, e lungo oltre un chilometro, imbuto stradale costituito dall’attraversamento di Santo Stefano in Aspromonte, o addirittura bloccati per qualche parcheggio incauto su una carreggiata stradale di larghezza ampiamente inferiore ai minimi ottimali e non allargabile

Ciò premesso, se per un verso si deve convenire essere indubbio che tale strada abbia una sua utilità sociale nell’avvicinare i citati centri abitati alla città e così contribuire a limitare il loro spopolamento; per un altro verso, qualche perplessità la si deve concedere a chi constata che, con la realizzazione di questa nuova strada, si crea un danno a molte piccole località abitate, come Laganadi, che verranno “sepolte” nel dimenticatoio, come avvenuto per Sambatello dopo l’apertura del primo tratto da Gallico al bivio per Calanna.

Comunque sia, sembrerebbe non esserci un reale e concreto vantaggio per Gambarie e il suo turismo derivante dall’aver facilitato il suo accesso.

Consolidati studi, infatti, in casi analoghi hanno messo in evidenza: aumento del turismo “mordi e fuggi”, quello che tendenzialmente sporca e lascia poco o nulla nelle tasche degli operatori turistici; nessun incremento sul totale delle giornate di soggiorno alberghiero, perchè le presenze in più riscontrate sono bilanciate da una minore durata del soggiorno; caduta verticale delle piccole attività legate al turismo nei piccoli centri abitati attraversati dalle vecchie strade di accesso (Bagnara S. Eufemia, Scilla Melia, Villa Campo Calabo, Catona San Roberto, Gallico Laganadi, Archi Ortì, Reggio Terreti, Modena Cardeto, Gallina S. Venere, Valanidi Trunca, Motta Fossato, Melito Bagaladi); saldo complessivo in pareggio o in perdita per il comprensorio turistico aspromontano esaminato nella sua interezza.

Oscar Wilde amava dire che per ogni problema esiste sempre una soluzione facile e veloce e sicura: quella sbagliata. Sembra essere il nostro caso: non è affatto detto che facilitare l’accesso a Gambarie corrisponda al vero maggiore interesse del suo comprensorio turistico. Ne traggono beneficio i residenti dei paesi vicini e certamente i reggini proprietari di seconde case, come anche gli amanti degli sport invernali, che possono più facilmente accedere agli impianti, ma contestualmente rientrare in giornata anche in Sicilia senza soggiornare a Gambarie, quindi senza usare alberghi e ristorazione, se si eccettua un panino al volo.

Come dimostrato dall’analisi di situazioni simili, il saldo finale per il comprensorio turistico di Gambarie e aspromontano alla lunga potrebbe anche non essere positivo. (ev)

[Vincenzo Vitale è presidente della Fondazione Mediterranea]