IL COMPARTO AGROALIMENTARE È IL CUORE
PULSANTE DELLA CALABRIA: PORTA 29 MLD

di ELIA FIORENZA – La Calabria contribuisce con un valore aggiunto annuo di circa 29 miliardi di euro, sostenendo un’economia prevalentemente orientata al settore terziario, seguito dall’industria e dall’agricoltura. Il comparto agroalimentare si distingue per la qualità delle sue produzioni locali e rappresenta un pilastro fondamentale dell’economia regionale. Le principali colture includono fichi, agrumi, drupacee e uva, oltre a cereali come frumento e segale.

L’olivicoltura e la produzione di agrumi caratterizzano il paesaggio agricolo, con un’abbondante raccolta di arance, clementine, fichi e cedri. Tra i prodotti più rappresentativi della regione spiccano il bergamotto, il rosmarino, il gelsomino e la liquirizia. Quest’ultima, in particolare, vanta una lunga tradizione e un riconoscimento ufficiale: la Liquirizia di Calabria Dop. Dal 2011, questo prodotto ha ottenuto la denominazione di origine protetta dall’Unione Europea, garantendo qualità e autenticità.

Negli ultimi anni, la produzione di liquirizia è stata incentivata, portando alla coltivazione e raccolta di circa 1.000 ettari di liquirizieti, sia spontanei che coltivati, con una produzione media annua di 2.500 tonnellate di radici. Numerosi prodotti calabresi vantano marchi di qualità IGP, tra cui la Cipolla Rossa di Tropea, le Clementine di Calabria, il Limone di Rocca Imperiale, la Patata della Sila, il Finocchio di Isola di Capo Rizzuto, l’Olio di Calabria e il Torrone di Bagnara. Anche il settore apistico ricopre un ruolo significativo, favorito da un ambiente incontaminato. Con circa 100.000 alveari censiti nel 2019, la Calabria è tra le principali regioni italiane per la produzione di miele. La pratica del nomadismo, diffusa tra gli apicoltori, sfrutta la varietà di pascoli disponibili nelle aree agrumicole della Piana di Sibari e nelle zone ricche di Eucalipto del Crotonese. La coltivazione del riso assume un ruolo strategico, grazie alla presenza della Società Agricola Terzeria e della riseria Magisa.

Ogni anno vengono prodotti tra gli 8.000 e i 10.000 quintali di risone, trasformati in varietà pregiate come arborio, carnaroli e riso nero. L’olivicoltura affonda le sue radici in una tradizione secolare. Le varietà autoctone, tra cui Dolce di Rossano, Grossa di Gerace, Carolea, Cassanese, Ottobratica e Sinopolese, coprono una superficie pari al 17,3% della produzione nazionale di olive da olio. La Calabria ospita 718 frantoi attivi, a conferma della rilevanza del settore. La Cipolla Rossa di Tropea Calabria IGP si distingue per le sue qualità nutrizionali e organolettiche. La filiera, che coinvolge oltre 1.600 operatori, genera un valore di consumo pari a 60 milioni di euro. Ricca di antiossidanti e minerali essenziali, questa varietà viene definita “oro rosso di Calabria”. Il settore vitivinicolo si estende su circa 10.000 ettari, distribuiti in territori collinari e montani.

La produzione annua si attesta sui 368.000 ettolitri di vino, di cui il 43% è rappresentato da vini Dop e il 34,6% da vini Igp. Tra le denominazioni più rinomate figurano Cirò Doc, Savuto Doc e Greco di Bianco Doc La viticoltura calabrese ha radici antiche, arricchite nel X secolo dall’arrivo dei monaci orientali, che introdussero nuove tecniche di coltivazione. L’agroalimentare calabrese si distingue per l’eccellenza dei suoi prodotti certificati. La regione conta 12 marchi Dop e Igp, tra cui tre oli extravergine d’oliva Dop e l’olio essenziale di Bergamotto di Reggio Calabria Dop. Tra i salumi spicca la Soppressata di Calabria Dop.

La Bivongi Doc, situata nella valle bizantina dello Stilaro, in provincia di Reggio Calabria, rappresenta una delle denominazioni vinicole più antiche, testimonianza di un patrimonio enologico tramandato nei secoli.

L’insieme di queste produzioni conferma il ruolo centrale dell’agroalimentare nell’economia calabrese, esaltando un connubio tra tradizione e innovazione che valorizza il territorio e le sue risorse. (ef)

 

FINE VITA, IL RICORSO A LEGGI REGIONALI
IN ASSENZA DI LEGISLAZIONE NAZIONALE

di ERNESTO MANCINI – Nei giorni scorsi il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato, primo in Italia, la legge sul suicidio medicalmente assistito. Si tratta di una legge che prevede tempi e modalità per consentire ad una persona affetta da gravissima malattia di esercitare, a certe condizioni, il diritto di cessare la propria vita caratterizzata da sofferenze insopportabili. Gli esponenti della maggioranza regionale di centro sinistra che hanno approvato la legge, hanno chiarito che essa ha contenuto esclusivamente procedurale ed organizzativo e che non hanno avuto alcuna necessità di introdurre ex novo tale diritto sia perché la Regione non ha potere legislativo al riguardo sia perché esso è già vigente nel nostro ordinamento a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 25.9.2019.

1) La sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 25.9.2019

Tale sentenza, richiamando altre conformi pronunce, fissa i presupposti per dare luogo alla volontà del cittadino di cessare la propria vita divenuta insopportabile a causa di una patologia grave ed irreversibile. È una sentenza “additiva” perché aggiunge princìpi normativi nell’ordinamento sulla base dell’interpretazione della Costituzione e per evitare, come dice la Corte, un “vulnus” alla stessa.

I presupposti fissati dal Giudice delle Leggi sono molto rigorosi:

  1. a) che la persona sia affetta da una patologia irreversibile;
  2. b) tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona trova assolutamente intollerabili;
  3. c) sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
  4. d) sia comunque capace di prendere decisioni libere e consapevoli;

Tali presupposti, come si vede, sono chiari ed indefettibili nel senso che se ne manca anche uno solo, scatta il reato di omicidio del consenziente previsto e punito dall’art. 579 del codice penale.

2) Il monito della Consulta a legiferare.

Invero la Corte Costituzionale aveva ammonito più volte il Parlamento a provvedere con legge nazionale per rendere esercitabile il diritto al fine vita ma tale massimo organo legislativo è rimasto per anni sordo (e lo è tuttora) a tale sollecitazione sia nei momenti in cui governava il centro-sinistra, per colpevole inerzia o per timore di non raggiungere il quorum, sia nell’attuale maggioranza di destra i cui partiti, almeno nei vertici, sono decisamente contrari a questa disciplina. Invero anche eminenti personalità della destra sono favorevoli al diritto di che trattasi ma non hanno poteri decisionali o rappresentanza di vertice.

Nonostante il riconoscimento del diritto più volte sancito dai Tribunali ordinari e poi, definitivamente, dalla Corte Costituzionale, il Parlamento è rimasto gravemente omissivo e si sono perciò continuati a verificare casi di persone costrette a ricorrere a cliniche svizzere (es.: Dj Fabo) ovvero, restando al proprio domicilio, costrette a ricorrere clandestinamente ad un medico anestesista disposto ad assumersi  il rischio di essere imputato per il reato di omicidio del consenziente (caso Welby).

Da tale accusa gli imputati venivano poi prosciolti con sentenza del Giudice Penale competente. In alcuni casi l’assoluzione veniva richiesta congiuntamente – e ciò è significativo – sia dall’accusa che dalla difesa. Ci si riferisce, per esempio, al caso Welby in cui il medico anestesista, dr. Riccio, è stato prosciolto dal Giudice per le indagini preliminari perché aveva agito, ex art. 51 codice penale, “nell’adempimento di un dovere”.

Anche i sostenitori radicali del suicidio assistito, come Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, hanno affrontato l’accusa di concorso in omicidio del consenziente e i conseguenti lunghi processi, salvo poi essere assolti.

Ma il peggio toccava sempre agli ammalati costretti a vivere per anni “prigionieri del proprio corpo” perché lo Stato non tutelava il loro diritto a cessare una vita obbiettivamente insopportabile nonostante la presenza delle condizioni tassative di cui si è detto.

 

3) E le altre Regioni?

 

In altre regioni si sta cercando di colmare il vuoto normativo causato dall’assenza dello Stato che nulla ha disciplinato al riguardo. La regione Sardegna ha in corso un progetto di legge analogo a quello della Toscana; ugualmente la Liguria (su iniziativa popolare attraverso la raccolta di firme). L’Emilia-Romagna ha emanato direttive alle aziende sanitarie sul presupposto che la sentenza della Corte Costituzionale oltre che additiva è anche autoapplicativa, non ha bisogno cioè di alcun intervento legislativo di fonte regionale perché basta una regolamentazione amministrativa.  Il Consiglio Regionale del Veneto, a maggioranza di destra, ha fallito l’approvazione della legge per un solo voto (inopinatamente di una consigliera P.D.). In Lombardia, in assenza di una legge è dovuto intervenire per un caso singolo l’assessore regionale alla sanità Bertolaso facendo applicare direttamente i princìpi stabiliti dalla Corte e, ciò nonostante, è stato contestato da esponenti della maggioranza. In Calabria, nel 2022, è stata presentata una proposta di legge regionale peraltro mai giunta all’esame del Consiglio Regionale.

 

Tutte le normative, come quella approvata dalla Regione Toscana, hanno in comune di essere meramente organizzative e procedurali perché, come si è detto, il diritto al fine vita nel nostro ordinamento è già presente. Si tratta di renderlo operativo e perciò organizzare le procedure e le garanzie di legalità affinché sia esercitato con le adeguate cautele soprattutto per ciò che riguarda i presupposti tassativi indicati dal Giudice delle Leggi.

3.1.) Le procedure organizzative di cautela e di garanzia

In tutti i progetti regionali si prevede la costituzione di apposite Consulte Sanitarie multidisciplinari (medico palliativista; medico neurologo, medico psichiatra, medico anestesista, infermiere, psicologo) che verificano la presenza dei presupposti fissati dalla Corte Costituzionale affinché in alcun caso si proceda in mancanza di essi. Viene anche previsto l’intervento del Comitato Bioetico presente nelle Asp ai quali è affidato il compito di valutare le fattispecie anche da un punto di vista non esclusivamente medico. È sempre ammessa l’obiezione di coscienza dei sanitari. Non meno importante è la previsione di una corretta procedura che garantisca tempi certi ma anche congrui dalla presentazione dell’istanza alla decisione di accoglierla o meno. La procedura e i trattamenti sanitari sono sempre assolutamente gratuiti.

Tutto ciò evita che il singolo caso si svolga clandestinamente o sia sottoposto al vaglio della Procura di riferimento che altrimenti dovrà accertare, ma con la inappropriatezza dell’indagine penale e solo a fatto avvenuto, che non si tratti di una fattispecie penalmente rilevante di omicidio del consenziente.

4) E lo Stato?

Lo Stato, e per esso il Parlamento o l’iniziativa legislativa del Governo, sono assenti. La maggioranza non ne vuole sapere, la minoranza si batte senza risultati i quali, peraltro, non ci sono stati neppure quando era maggioranza. Una legge nazionale avrebbe comunque una certa probabilità di larga approvazione non solo perché i princìpi sono già scritti dalla Corte Costituzionale – basta copiarli ed incollarli – ma anche perché sembra prevalente nel Parlamento e nel paese un orientamento favorevole alla disciplina del fine vita alla presenza di condizioni certe.

La mancanza di una legge nazionale porta alle seguenti disfunzioni.

  1. A) frammentazione dell’ordinamento: alcune Regioni regolano la materia, altre no e ciò crea grave frammentazione dell’ordinamento che si traduce in diseguaglianza dei cittadini in violazione dell’art. 3 della Costituzione.
  2. b) vi possono essere regioni (es.: Toscana) che stabiliscono tra i requisiti del richiedente la residenza nel loro territorio, altre regioni (progetto di legge Sardegna come risulta nel suo testo attuale) che non prevedono tale requisito. Come è noto la residenza si può richiedere se la persona ha la dimora abituale in una città della regione ma ciò crea ostacoli a chi, per esercitare il diritto, sarebbe costretto a migrare altrove in una situazione personale assolutamente inconciliabile con il trasferimento. D’altra parte, va detto che il diritto a qualsiasi trattamento sanitario è universale su tutto il territorio nazionale ed è perciò “portabile” dal cittadino in qualsiasi suo spostamento al di là della residenza.
  3. c) i comitati regionali per la valutazione dello stato patologico dell’interessato non possono certo agire per l’esame delle situazioni personali degli ammalati che si trovano lontani dal territorio della Regione; si deve tener conto, infatti, che una corretta valutazione non può prescindere dall’esame diretto del paziente, dai necessari colloqui (in alcuni casi solo per cenni assentivi); vanno sentiti i familiari e le persone comunque vicine al paziente.

È dunque evidente la necessità di una legge nazionale che disciplini diffusamente l’esercizio del diritto e la sua applicazione in ogni regione secondo garanzie e procedure uniformi.

5) Il fine vita e l’autonomia regionale differenziata

Va chiarito, a scanso di equivoci, che quello della Toscana non è un caso di autonomia regionale differenziata alla maniera della legge Calderoli. Non vi è infatti alcun trasferimento di funzione dallo Stato alla Regione né alcuna intesa al riguardo ai sensi dell’art. 116, terzo comma della Costituzione. La Toscana, inoltre, si è mossa nell’esercizio pieno delle sue competenze di organizzazione e gestione dei servizi sanitari come da decenni previste dalle leggi fondamentali di riforma sanitaria (legge 833/78 – Decreto legislativo 502/92 e successive modificazioni).

Tutte le regioni, inoltre, si trovano in posizione paritaria rispetto alla Costituzione ed alla legislazione vigente sicché la differenziazione esiste solo perché la Toscana ha inteso disciplinare ed organizzare il diritto già esistente mentre le altre regioni no, o non ancora, pur potendolo fare. Si tratta perciò di una espressione di autonomia virtuosa e non di una graziosa e discriminante concessione di poteri e privilegi da parte dello Stato a singole regioni secondo la legge Calderoli, già largamente incostituzionale di suo.

6) Il contenzioso ostruzionistico

Dalla stampa di questi giorni si apprende che la minoranza di destra del Consiglio Regionale della Toscana ha chiesto al Collegio di Garanzia regionale la sospensione della legge per verificare se essa sia conforme allo Statuto regionale. Trattasi di evidente tentativo dilatorio ed ostruzionistico che non credo abbia successo.

Si è anche appreso che il Governo avrebbe intenzione di impugnare la legge Toscana. Sarà interessante vedere come l’avvocatura dello Stato formulerà i motivi del ricorso atteso che ogni lagnanza deve fare i conti col fatto che è proprio l’omissione dello Stato a rendere necessarie le normative organizzative regionali.

Insomma, lo Stato, e per esso il Parlamento od il Governo, anziché pensare a ricorsi si affrettino a dare uniformità su tutto il territorio nazionale alla disciplina costituzionale assumendo la giusta iniziativa legislativa.

6) In conclusione

La materia del suicidio medicalmente assistito è materia delicatissima per la quale vanno rispettate tutte le posizioni favorevoli o contrarie sorrette da convincimenti laici o religiosi e senza affermazioni apodittiche o demagogiche.  Qui si è inteso affrontare il punto di vista giuridico alla luce della normativa esistente e dei pronunciamenti del Giudice delle Leggi.

Non è comunque indifferente che sulla base della nostra Costituzione il diritto al fine vita sia già presente nel nostro ordinamento sia pure con le doverose limitazioni di cui si è detto. Né è tollerabile che nell’ordinamento giuridico ci sia un diritto che lo Stato impedisce ai cittadini di esercitare e siano le Regioni, e solo alcune di esse, a dovervi provvedere.

Questa è materia urgente per evitare frammentazione tra i diversi territori e soprattutto disuguaglianza fra cittadini che già sono in condizioni di estrema sofferenza. (em)

CAPITALE DELLA CULTURA 2027: REGGIO
SOGNA UN TITOLO DA “BELLA E GENTILE”

di SANTO STRATI – La candidatura di Reggio a Capitale italiana della Cultura 2027, al di là dell’aggiudicazione o meno del titolo, una vittoria l’ha già portata a casa. Ed è una vittoria importante che potrebbe dare il via a un vero senso comune di appartenenza di tutti i calabresi: davanti alla commissione che valuterà le dieci città finaliste, mercoledì prossimo 26 febbraio, non ci sarà il Comune di Reggio o la Città Metropolitana, bensì l’intera Calabria.

La candidatura è riuscita, infatti, a coinvolgere in maniera sorprendentemente univoca l’intera regione: per una volta (e speriamo sia solo l’inizio) sono stati accantonati campanilismi e manie di localismo che hanno caratterizzato da sempre la nostra terra.

Non a caso di parlava di Calabrie e, fino all’andata in finale di questo suggestivo quanto futile concorso, non passava giorno che il localismo prevalesse, tra dispetti, invidie e gelosie: proprio quello che ha, da sempre, costituito il vero freno dello sviluppo e della crescita del territorio. Sappiamo bene il precedente del Capoluogo conteso e i risentimenti per le “spoliazioni” a sfavore quasi sempre di Reggio, la più grande ma perennemente ultima  città calabrese, per avvantaggiare cosentini e catanzaresi. In una stupida guerra tra fratelli che apparivano inevitabilmente figli di padri diversi. La madre, una, la Calabria, ma i figli destinati al ruolo di fratellastri litigiosi e senza avvenire. Inguaribilmente attivi a lasciarsi andare a gelosie e invidie prive di fondamento, disperdendo un’eredità morale frutto di secoli di civiltà mediterranea di quella parte del Paese che avrebbe poi dato il nome all’Italia.

L’adesione corale e il sostegno unitario di tutta la Regione, senza alcuna riserva, è la grande vittoria di questa, se vogliamo, nobile candidatura che proietta tutta la Calabria in un agone di cultura dove, per tutta la regione, sarebbe facilissimo primeggiare.

Quando a Roma si pascolavano le pecore, nella Magna Grecia, a Reggio e in tutto il territorio, si faceva il teatro e il popolo si nutriva di pane e cultura, nel segno della democrazia e della fratellanza.

Adesso c’è l’occasione per rimuovere intollerabili conflittualità tra città e paesi, tra Nord e sud (della Calabria) e ragionare in termini di “nazione”, permetteteci il termine, in grado di mostrare quanto conta la calabresità dei suoi abitanti, protagonisti, troppo spesso involontari, di una diaspora che non è mai finita.

Un tempo partivano le braccia, là dove si cercavano manovali e operai, oggi lasciano questa terra giovani brillanti laureati e ricercatori che non trovano nessun segnale di un futuro possibile. E non è un fenomeno che riguarda Vibo, Reggio o Catanzaro, bensì tutta la regione: c’è uno spopolamento costante e spaventosamente inarrestabile costituito in gran parte di giovani in cerca di futuro (quello che abbiamo rubato loro) seguiti da una moltitudine di genitori, nonni parenti. Questi ultimi chiudono le case e raggiungono figli e nipoti cui offrire l’assistenza necessaria per far crescere i bambini, per contribuire, anche finanziariamente, alla vita quotidiana, in metropoli o città dove vivere diventa un lusso. Epperò, in cambio del disagio, c’è il lavoro, la certezza di un’occupazione, quasi sempre rispettosa delle competenze acquisite, la sicurezza della crescita professionale e formativa. Cosa ci fa un laureato in materie non tecniche in Calabria? Se gli va bene trova posto in un precarissimo call center  o dietro il bancone di un supermercato a scaricare pacchi in magazzino o a gestire una cassa. E non è detto che un informatico o un ingegnere o un medico trovi l’occupazione adeguata (anche in termini economici) nella sua terra. Manca la cultura d’impresa e manca soprattutto ai nostri governanti la visione di futuro. Uno sguardo non fuggente a cosa succederà domani e cosa potrebbe dare il suo capitale umano alla Calabria se solo venisse utilizzato nella maniera giusta.

E qui torniamo al discorso della Cultura, quella con l’iniziale maiuscola: c’è – grazie al cielo – una nuova sensibilità del territorio nei confronti dei beni culturali e delle risorse umane ad essi collegati: ci sarebbero – ci sono – grandissime opportunità per valorizzare il capitale umano e offrire occasioni di crescita, anche formativa, facendo restando nel luogo che li ha visti nascere e crescere migliaia di giovani.

Dev’essere questo l’obiettivo – unitario – a una sola voce della Calabria e il titolo di Capitale della Cultura 2027, su cui ci asteniamo da qualsiasi pronostico, sarebbe in realtà lo stimolo aggiuntivo per mettere insieme cervelli e teste pensanti per il conseguimento del bene comune.

Le rivalità interregionali si sono magicamente dissolte in occasione di questa candidatura che poteva sembrare un capriccio di Falcomatà, il canto del cigno dell’amministratore che tra un anno dovrà lasciare, e invece si è rivelata il coagulante di un ritrovato impegno comune, finalizzato a dare sostanza a un patrimonio inestimabile e, ahimè, tristemente sottovalutato.

Si tratta – e sappiamo che non è opera semplice – di ragionare in termini identitari comuni e condivisi, per offrire un segnale evidente di coesione territoriale i cui vantaggi sono oltremodo evidenti. La ricchezza della Calabria  non sono solo i Bronzi, i musei, il Codex, i Parchi naturali, i tanti siti archeologici preistorici, bensì sono i suoi abitanti, ciascuno con il suo ruolo che va valutato per meriti e capacità, non per clientela e amichettismi di vomitevoli effetti in termini di risultato.

La traccia che lascia la candidatura di Reggio è profonda e indica un percorso che va ben oltre i confini della Metrocity e coinvolge tutto il territorio regionale. Uniti si vince: non è un motto da propaganda elettorale, bensì un imperativo categorico che deve costituire l’obiettivo principe della nuova Calabria. Quella che farà tornare i suoi figli lontani, che non farà più partire i cervelli, che offrirà un modello di welfare e benessere che non sono irraggiungibili. L’aria pulita, il clima, il naturale e straordinario senso di accoglienza di chi ci vive sono un richiamo irresistibile per chiunque.

Auguri a Reggio, ma auguri a tutta la Calabria: quella che il 26 tiferà perché la Cultura incoroni la Città dello Stretto e allo stesso tempo l’intera regione.

EXPORT E INNOVAZIONE, IL FUTURO È QUI
LA CALABRIA NON PERDA QUEST’OCCASIONE

di FABRIZIA ARCURI – L’internazionalizzazione è una delle sfide più significative per il sistema produttivo italiano, in particolare per le piccole e medie imprese che intendono affacciarsi ai mercati esteri. Per rispondere a questa esigenza nasce il Mediterranean Export Innovation Hub (Meih), un’Associazione che si propone come punto di riferimento per le aziende desiderose di espandere la propria presenza a livello internazionale.

Attraverso strategie mirate, formazione specialistica e un network di contatti consolidato, il Meih offre strumenti concreti per accompagnare le imprese nel loro percorso di crescita oltre i confini nazionali.

L’iniziativa è guidata da Alessandro Crocco, imprenditore italo-americano con una solida esperienza nell’export e nei processi di internazionalizzazione. Attivo tra New York e l’Italia, ha sviluppato una profonda conoscenza dei mercati esteri e delle strategie per la crescita delle Pmi, con l’obiettivo di creare connessioni efficaci tra le eccellenze italiane e il contesto globale.

Il Meih nasce proprio da questa visione, configurandosi come un catalizzatore di crescita per le imprese, trasformando le ricchezze produttive del territorio in una leva di sviluppo concreto. Un progetto che assume un valore strategico soprattutto per il Sud Italia e per la Calabria, una terra dal grande patrimonio culturale e produttivo, che necessita di strumenti adeguati per affermarsi sui mercati internazionali. L’Associazione si pone come risposta a questa esigenza, promuovendo la competitività delle imprese locali e favorendone l’integrazione nel commercio globale.

A sancire l’avvio ufficiale delle attività, il Meih sigla il suo primo Protocollo d’Intesa con Confapi Calabria, una collaborazione strategica che consolida il legame tra il mondo imprenditoriale e le strategie di internazionalizzazione. L’accordo rappresenta il primo passo concreto di un percorso che punta a rafforzare la competitività delle imprese locali, favorendo sinergie tra innovazione, formazione e accesso ai mercati esteri.

L’evento di presentazione, in programma lunedì 24 febbraio alle 10.30 presso Villa Rendano a Cosenza, si aprirà con i saluti istituzionali di coloro che, sin dall’inizio, hanno sostenuto la filosofia e la mission del Meih. Importanti appuntamenti istituzionali, dal Senato della Repubblica al Consiglio Regionale della Calabria, fino agli incontri sui territori, hanno contribuito a dare impulso all’iniziativa, consolidandone la visione e il percorso di crescita. A portare i saluti istituzionali saranno la senatrice Tilde Minasi, la Presidente di Brutium, Gemma Gesualdi, Walter Pellegrini, Presidente della Fondazione Giuliani e Antonello Grosso La Valle, il Presidente di Unpli Cosenza e Consigliere Nazionale.

A presentare il progetto e il Protocollo d’Intesa saranno Alessandro Crocco, Presidente del Meih, Francesco Napoli, Presidente di Confapi Calabria, la sottoscritta, vicepresidente Meih, e Rossana Battaglia, presidente Accademia degli Imprenditori. A moderare l’incontro sarà Francesca Preite, Responsabile comunicazione e Vicepresidente Filiera UNIGEC – Confapi Calabria.

«Il progetto Mediterranean Export Innovation Hub incarna la visione di un’Italia che sa guardare oltre i propri confini, forte della sua cultura, della sua qualità e della sua capacità di innovare – afferma Alessandro Crocco –. Ma, soprattutto, vuole dare risposte concrete alla Calabria e al Sud Italia, territori che, troppo spesso, restano esclusi dalle grandi opportunità dell’export e dell’innovazione».

«Con questa iniziativa – continua – vogliamo creare un ecosistema in cui le imprese locali possano apprendere, collaborare e crescere, facendo della qualità e dell’identità territoriale il loro punto di forza per conquistare i mercati internazionali».

«La firma – sottolinea – di questo Protocollo d’Intesa con Confapi Calabria è solo l’inizio di un percorso che metterà a disposizione delle Pmi strumenti concreti per affermarsi e competere su scala globale, con un’attenzione particolare per le realtà produttive calabresi, che meritano di essere valorizzate a livello internazionale».

Entusiasta della collaborazione, Francesco Napoli, Presidente di Confapi Calabria, sottolinea il valore strategico dell’accordo: «Siamo orgogliosi di presentare l’Export Innovation Hub e il Mediterranean Export Innovation Hub, iniziative che rappresentano un’opportunità concreta per il futuro dell’export, non solo per la Calabria, ma per l’intero Sud Italia».

«Questi progetti – enfatizza – segnano un passaggio fondamentale verso la modernizzazione e il rafforzamento del nostro tessuto produttivo, grazie alla sinergia tra innovazione, competenze e mercato internazionale. È un’occasione imperdibile per le aziende calabresi, che hanno sempre dimostrato un potenziale straordinario ma che spesso incontrano ostacoli nell’accedere ai mercati globali».

«Con il Meih – conclude – vogliamo colmare questo divario e creare un ponte tra le imprese locali e le opportunità internazionali. Un ringraziamento particolare va ad Alessandro Crocco per il suo impegno e la sua visione, che hanno reso possibile questo importante progetto».

Mi preme sottolineare l’importanza della comunicazione e del marketing nell’internazionalizzazione, in quanto non basta un prodotto eccellente per conquistare i mercati esteri, è necessario saperlo raccontare, creare un’identità forte, trasmettere la storia e i valori che lo rendono unico.

Questo è ancora più vero per la Calabria, una terra che vanta eccellenze straordinarie, dall’agroalimentare all’artigianato, dal turismo alla tecnologia, ma che fatica ancora a imporsi sul panorama internazionale.

La nostra missione è accompagnare le imprese in questo percorso, fornendo strumenti di promozione, formazione mirata e strategie di branding efficaci. Dobbiamo fare in modo che il Made in Calabria non sia solo riconosciuto, ma desiderato, perché porta con sé autenticità, qualità e una storia che merita di essere raccontata al mondo intero.

«L’unione fa la forza. Solo lavorando – ribadisce nella chiusa il presidente Crocco – in sinergia possiamo raggiungere obiettivi ambiziosi e rendere l’Italia e quindi la nostra terra di Calabria, protagonista nello scenario globale. Il Mediterranean Export Innovation Hub è aperto a tutti coloro che condividono questa visione e vogliono contribuire a renderla realtà». (fa)

[Fabrizia Arcuri è vicepresidente Meih]

DA BRUXELLES È PARTITA LA SFIDA PER IL
RILANCIO DELLE AREE RURALI CALABRESI

di DENIS NESCI – Nella Commissione per lo Sviluppo Regionale (REGI) del Parlamento Europeo, ho avuto l’onore di presentare la mia proposta sul futuro delle zone rurali dell’Unione Europea, con un focus particolare sulla Calabria.

Queste aree rappresentano l’83% del nostro territorio e ospitano un quarto della nostra popolazione, sono il cuore pulsante della nostra identità culturale e della nostra economia. Tuttavia, affrontano sfide senza precedenti che richiedono un’azione immediata e concreta.

In qualità di relatore sul rafforzamento delle zone rurali nell’Ue attraverso la politica di coesione, è fondamentale evidenziare che il Pil pro capite nelle zone rurali calabresi è inferiore alla media europea. Questo gap, unito all’invecchiamento della popolazione e alla carenza di servizi essenziali, mette a rischio il futuro delle nostre comunità. È giunto il momento di agire!

La politica di coesione deve diventare il nostro strumento principale per ridurre queste disuguaglianze e garantire un futuro sostenibile per tutti.

La nostra terra ha un potenziale straordinario. È essenziale che l’Unione Europea investa in politiche mirate che favoriscano lo sviluppo delle infrastrutture e la digitalizzazione, affinché le comunità rurali possano prosperare. Solo così possiamo garantire che i nostri giovani, i veri custodi del futuro, abbiano accesso a opportunità educative e professionali che li incoraggino a rimanere e contribuire alla crescita della nostra terra.

È di fondamentale importanza adottare misure preventive per aumentare la resilienza delle aree rurali di fronte a catastrofi naturali, suggerendo un approccio integrato nella gestione delle risorse idriche, con particolare attenzione alla costruzione e al completamento di dighe un particolare riferimento alla diga del Metramo, che per la Calabria deve rappresentare una priorità tra le infrastrutture da completare.

Sostenere le donne, che affrontano sfide specifiche in queste aree, è altrettanto cruciale. Dobbiamo fornire loro gli strumenti necessari per diventare agenti di cambiamento e leader nelle loro comunità.

Il lavoro che svolgiamo nelle commissioni è fondamentale per portare risultati tangibili sul territorio. È così che si costruisce un futuro migliore per la Calabria, lavorando instancabilmente a Bruxelles per garantire che le risorse e le politiche siano indirizzate dove sono più necessarie. 

Con determinazione e impegno possiamo trasformare le sfide in opportunità e costruire insieme un futuro luminoso per la Calabria e le sue zone rurali, per questo motivo, presenterò il file durante un incontro pubblico in Calabria, il prossimo 26 febbraio, presso le Terme di Galatro, in una zona tipicamente rurale. L’incontro sarà l’occasione per discutere insieme con amministratori locali e cittadini, affrontando temi importanti per la comunità. (dn)

[Denis Nesci è europarlamentare di Fdi-Ecr]

I GIOVANI, LA PRECARIETÀ E IL RIFIUTO DEL
POSTO FISSO: UNA SFIDA PER LA CALABRIA

di FRANCESCO RAONegli ultimi decenni, il concetto di “posto fisso” – da sempre simbolo di sicurezza economica e stabilità sociale – ha subito una radicale trasformazione. In una società in continuo mutamento, anche i Millennials del Meridione, hanno posto un approccio differente al paradigma tradizionale riconducibile all’impiego stabile, adottando una visione del lavoro più fluida e dinamica.

Il modello del posto fisso, radicato nell’Italia del dopoguerra, era strettamente legato a una concezione di società caratterizzata da una forte divisione del lavoro, da una gerarchia ben definita e da norme sociali che garantivano l’inclusione e la solidarietà. Le riforme come lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e le norme contrattuali consolidavano il legame tra individuo e istituzione, promuovendo un modello di fedeltà aziendale e sicurezza previdenziale. Con l’avvento della globalizzazione, della digitalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, autori come Ulrich Beck hanno descritto la nascita della “società del rischio”, in cui le tradizionali garanzie diventano sempre più fragili. In tale contesto, la progressiva erosione del modello industriale ha fatto emergere una realtà caratterizzata da contratti precari e forme di lavoro atipiche, in cui il rischio diventa una componente intrinseca della vita professionale e al contempo tale instabilità, si è diffusa nel tessuto sociale generando precarietà e marginalità sociale. Anche per buona parte dei Millennials calabresi, l’approccio al lavoro assume una identità diversa rispetto al passato.

La nuova etica del lavoro non è più solo una questione economica, ma rappresenta anche un percorso di autodefinizione e realizzazione personale. Da un punto di vista sociologico, grazie al pensiero di Anthony Giddens sulla “riflessività della modernità”, comprendiamo perché i giovani contemporanei sono chiamati a rinegoziare il significato del lavoro in un contesto in cui la tradizionale identità professionale si dissolve a favore di una molteplicità di esperienze e ruoli. In Calabria, il tessuto economico è stato storicamente segnato da instabilità e disuguaglianze e l’adozione di modelli flessibili – come il lavoro freelance, lo smart working e l’autoimprenditorialità – risponde a un doppio imperativo: cercare autonomia e superare le limitazioni di un mercato del lavoro che, come evidenziato da dati Istat (2023), registra un aumento del 40% dei contratti a termine negli ultimi dieci anni.

La carenza di tutele sociali, la difficoltà di accesso al credito per l’autoimprenditorialità e le infrastrutture digitali insufficienti in Calabria rappresentano sfide significative e prioritarie. La lettura sociologica del fenomeno evidenzia come il processo di individualizzazione – caratteristico della modernità tardiva – possa generare un aumento del senso di precarietà e isolamento, se non accompagnato da politiche pubbliche in grado di garantire una rete di sicurezza adeguata. Come già anticipato, il contesto socioeconomico del Sud Italia presenta peculiarità che incidono profondamente sulle scelte dei giovani.

Secondo il recente rapporto Svimez, il tasso di occupazione nel Meridione è inferiore di circa 20 punti percentuali rispetto al Centro-Nord, mentre in Calabria la prevalenza di contratti precari e il lavoro informale sono ormai all’ordine del giorno. Queste condizioni hanno contribuito a creare una “cultura della fuga”.

Il Censis nel 2022 prevedeva che tra il 2000 e il 2020 oltre 500.000 giovani lasceranno il Sud in cerca di opportunità, ponendo lo sguardo all’indietro, quello studio era veritiero e oggi, in mancanza di riforme strutturali e concretezza, si rischia di compiere il secondo atto alimentando ulteriormente la “fuga di cervelli”.

Queste dinamiche orientano la profonda trasformazione culturale in atto nella quale il lavoro diventa uno strumento per esprimere la propria identità e non pià un mezzo per garantire la sussistenza e la progettualità del futuro. Tale dinamica, attraverso le scienze sociali, può essere letta come un processo di disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione, in cui la mancanza di investimenti in infrastrutture digitali e la debolezza del tessuto imprenditoriale locale spingono i giovani a cercare identità e opportunità altrove.

La teoria della “società liquida” di Zygmunt Bauman, oltre a descrivere un mondo in cui le strutture sociali sono in costante divenire e l’incertezza è una normalità, trova una perfetta applicazione in questo contesto ma trascura l’evidente segno di malessere delle generazioni anziane, sempre più sole e soprattutto esposte ad un sistema di istituzioni digitali con le quali, il digital divide, non consente il dialogo.

L’evoluzione del mondo del lavoro e il rifiuto del posto fisso da parte dei giovani del Meridione costituiscono una sfida complessa che richiede una riflessione multidimensionale. Se da un lato il modello tradizionale si dimostra ormai inadatto a una società in rapido cambiamento, dall’altro l’assenza di un adeguato supporto strutturale rischia di tradurre la flessibilità in ulteriore precarietà.

Le teorie sociologiche contemporanee ci invitano a considerare il lavoro non solo come una dimensione economica, ma anche come uno spazio di identità, appartenenza e trasformazione sociale. La sfida per il futuro sarà quella di coniugare innovazione e stabilità, promuovendo politiche che incentivino l’autoimprenditorialità e investimenti nelle infrastrutture digitali, senza dimenticare l’importanza di una tutela sociale che risponda alle nuove dinamiche del mercato.

In definitiva, il fenomeno osservato nel Meridione non rappresenta un semplice capovolgimento delle logiche occupazionali, ma una profonda trasformazione del modo in cui le nuove generazioni concepiscono il proprio futuro e il loro ruolo nella società. Solo attraverso una comprensione integrata di queste dinamiche sarà possibile costruire un modello di sviluppo che valorizzi la flessibilità senza sacrificare la sicurezza e l’inclusione sociale. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]

IN CALABRIA SI VA IN PENSIONE SEMPRE PIÙ
TARDI E SEMPRE PIÙ POVERI: È ALLARME

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria si va in pensione sempre più tardi e sempre più poveri. È l’allarme lanciato dallo Spi Cgil Calabria, evidenziando come «la prospettiva è una regione di anziani, con difficoltà a potersi occupare della propria salute, molti dei quali senza riferimenti familiari, vista la sempre più gravosa emigrazione giovanile».

Un quadro non confortante, ma già ben chiaro quando, a novembre, era stato presentato il Rendiconto sociale 2023 dell’Inps a Catanzaro: «il quadro demografico conferma un progressivo invecchiamento: gli over 65 rappresentano il 23,9% della popolazione regionale, pari a quasi un abitante su quattro. Il saldo naturale, tra nascite e decessi, continua a essere negativo, in linea con le tendenze nazionali, ma aggravato da un’emigrazione significativa, soprattutto giovanile».

A questo invecchiamento, si accompagnano dei dati sul lavoro preoccupanti: Nel 2023, il tasso di disoccupazione generale è salito al 16,2% (rispetto al 15% del 2022) e quello giovanile ha raggiunto il 35,2% per gli uomini e il 35% per le donne nella fascia d’età 15-29 anni. Dei 150mila nuovi contratti stipulati, quasi l’82% sono a termine, stagionali o di somministrazione, configurando un mercato del lavoro precario che penalizza i giovani, costringendoli a cercare stabilità altrove.

Anche per le pensioni il quadro non è roseo: in Calabria sono significativamente più basse rispetto alla media nazionale, con importi medi mensili inferiori per le donne, segno di una maggiore discontinuità lavorativa e di una parità retributiva ancora lontana. Sul fronte del welfare, nel 2023 sono state erogate 178.767 prestazioni di invalidità civile, con un incremento del numero di nuove prestazioni rispetto al 2022. Anche le misure di sostegno al reddito, come reddito e pensione di cittadinanza, hanno registrato oltre 46.000 richieste, di cui il 63% accolte.

«Al contrario di quanto annunciato con slogan e proclami – ha illustrato il sindacato – la legge Fornero non è stata affatto superata. L’età pensionabile è stata posticipata ai 70 anni. La flessibilità in uscita azzerata nel 2024 (meno 15,7% delle pensioni anticipate rispetto al 2023), così come l’opzione donna (con un taglio del 70,92% delle domande del 2024 confrontate con quelle del 2023 – 3.489 nel 2024 confrontate con 11.996 del 2023 – e nel 2025 il taglio sarà ancora più alto».

«C’è, poi – si legge – il nodo della quota 103 (62 + 41 anni di contributi) che è stata prorogata con il ricalcolo contributivo, con un importante taglio sul calcolo della pensione. Per chi è già in pensione non va meglio: i tagli alla perequazione per il 2023 e il 2024 non saranno più recuperabili».

Tutti questi dati indicano solo una cosa, per il sindacato: «Nessuna risposta per giovani, donne, per coloro che svolgono lavori gravosi e usuranti e nessuna valorizzazione per il lavoro di cura».

«È ancora una volta deludente la riforma pensionistica del Governo – per la Cgil –. Si andrà in pensione sempre più tardi e sempre più poveri senza la previsione di alcuna strategia per il futuro, in un Paese che guarda ai pensionati come bancomat da spremere, senza costruire le basi perché si vada in quiescenza dal lavoro a un’età consona e con un adeguato trattamento pensionistico».

«Se caliamo il tutto in un contesto fragile e povero di servizi, con una sanità annaspante che non garantisce né il diritto alla cura né quello alla prevenzione, quello che si prospetta – scrive il sindacato pensionati della Cgil – è una regione di anziani, con difficoltà a potersi occupare della propria salute, molti dei quali senza riferimenti familiari, vista la sempre più gravosa emigrazione giovanile, e costretti a lavorare fino ad età avanzata».

E, se l’Istituto, a novembre riteneva necessari interventi politici ed economici «massivi e strutturali» per invertire la tendenza e dare risposte concrete a una regione che lotta per trattenere i suoi giovani e garantire un futuro sostenibile ai suoi cittadini», lo Spi Cgil, invece, invita tutti a sostenere il referendum «per il lavoro proposti dalla Cgil che sono lo strumento per cambiare, in meglio, il Paese».

Un invito che è anche è un appello a prendere coscienza della situazione in Italia: Siamo l’unico Paese dove i lavoratori subiscono un doppio svantaggio: età pensionabile sempre più alta e assegni sempre più bassi.

«Un vero e proprio paradosso – ha detto la Cgil – visto l’inverno demografico che ci attende e viste le scarse politiche messe in campo dal governo per arginare il lavoro precario. Lavoro più stabile e più sicuro significa anche pensioni migliori».

METROCITY RC ANCORA SENZA DELEGHE:
SONO PASSATI DIECI ANNI E TUTTO TACE

di VINCENZO VITALE – Che la città metropolitana di Reggio Calabria sia un monstrum geografico è un dato di fatto: basti pensare che la sua superficie è dieci volte maggiore di quella della città metropolitana di Napoli, pur avendo un decimo dei suoi abitanti.

Poco e male infrastrutturata, sì che per recarsi da un suo estremo all’altro, come da Reggio a Caulonia per esempio, occorre più tempo che per andare da Milano a Lugano, la nostra Metrocity è tanto smisuratamente grande da contenere al suo interno l’intero perimetro del Parco d’Aspromonte, caso unico al mondo di una città che abbia un “suo” parco nazionale. Eppure questo handicap, questo vizio di nascita, se ben gestito potrebbe essere un vantaggio, sia dal punto di vista turistico e logistico che da quello agricolo e industriale, per non parlare della esuberante disponibilità ad accogliere braccia produttive che non disdegnino attività lavorative oggi poco gradite ai residenti.

Però la Città Metropolitana reggina langue e non solo per colpa dei suoi amministratori. Pur abbastanza grande da poter essere una piccola Regione autonoma, si pensi al Molise che ha più o meno la metà degli abitanti della già Provincia reggina e una superficie di poco superiore, non ha ancora ricevuto deleghe e funzioni dalla Regione Calabria, mai come in questo caso lontana e ostile. La Legge Del Rio lo impone ma la Regione Calabria, pur avendo deliberato nel 2014 che entro il 31 dicembre del 2015 avrebbe operato i trasferimenti, non lo ha ancora fatto.
Sono passati dieci anni e tutto tace, nonostante formali interventi cui nemmeno si risponde (ultimo quello del 23 gennaio di quest’anno). Tutte le altre città metropolitane continentali (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari), chi prima chi dopo, hanno tutte avute già nel 2015 deleghe e funzioni dalle rispettive Regioni. Manca solo la decima città, la nostra, che subisce così l’anomalia di essere un Ente monco.
Bene ha fatto, quindi, il sindaco Giuseppe Falcomatà a portare il caso a livello nazionale con una formale denuncia di questa assurdità sul tavolo del Coordinamento della Città Metropolitane dell’Anci, che ha deliberato un suo intervento. Staremo a vedere. Nel frattempo non si può non notare che un simile argomento non ha un posto di rilievo nell’agenda dei nostri rappresentanti al parlamentino regionale di via C. Portanova né dei membri reggini nelle stanze decisionali di Germaneto.
Sembra di rivedere le dinamiche già subite dalla città di Reggio sul finire degli anni Sessanta, che diedero la stura ai Fatti dei primi anni Settanta: i nostri parlamentari regionali irretiti dalle logiche partitiche che perdevano di vista i veri interessi dalla loro città. Allora ci fu il sindaco Battaglia che denunciò le trame e aprì le ostilità. Dobbiamo oggi assegnare a Falcomatà il ruolo che comincia a rivendicare?
Negli anni Settanta, sulla questione dello scippo del Capoluogo effettato da Catanzaro ai danni di Reggio, una sinistra miope e politicamente succube parlò di battaglie per un inutile “pennacchio spagnolesco”. Oggi la destra di governo a Catanzaro offre alla sinistra di governo cittadino la possibilità di insorgere a difesa dei diritti negati della città sullo Stretto. Nel mentre i consiglieri comunali e metropolitani reggini, di destra e sinistra, tacciono sulla questione come se non fossero affari loro, a Catanzaro studiano come non perdere potere col trasferimento delle funzioni alla Città Metropolitana reggina. Falcomatà come Battaglia? Se lo si lasca fare da solo, perché non dovrebbe intestarsi questa querelle e trarne i relativi vantaggi elettorali? Prescindendo dalle primogeniture e dai vessilliferi, questa è una guerra cittadina e, come tale, tutti devono partecipare. (vv)
[Vincenzo Vitale è presidente della Fondazione Mediterranea]

OSPEDALE DI PALMI, MA QUALE URGENZA?
LA PIANA LO STA ASPETTANDO DA 17 ANNI

di ERNESTO MANCINI – Quello del nuovo Ospedale della Piana di Gioia Tauro è un triste argomento di malapolitica e malaburocrazia, su cui bisogna andare subito al dunque, perché c’è molto da dire. Vado per ordine e per sintesi.

1) Gli incredibili ritardi del procedimento

Sono passati oltre 17 anni dall’Accordo di Programma tra lo Stato e la Regione Calabria del 13 dicembre 2007 nel quale si prevedeva la realizzazione di quattro nuovi ospedali per la nostra Regione (Sibaritide, Vibonese, Piana di Gioia Tauro e Catanzaro) all’esito di unevidente insufficienza delle strutture esistenti. L’accordo derivava da clamorosi e diffusi casi di malasanità per carenza di adeguati presìdi ospedalieri. Infatti, già allora la realizzazione di tali ospedali veniva dichiarata di “somma urgenza” con Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri Prodi nella settimana successiva (21 dicembre 2007).

Per la provincia di Reggio Calabria il nuovo ospedale veniva ubicato nella città di Palmi a poche decine di metri dall’autostrada. Da allora ad oggi si sono verificati ritardi inaccettabili per tutti gli ospedali programmati. Nessuno di questi è stato realizzato. Per Palmi i ritardi sono ancora più gravi e si possono così riassumere: dall’accordo di programma Stato/Regione al bando di gara per la costruzione: 3 anni,7 mesi e 19 giorni (13.12.2007- 1.8.2011); dal bando di gara al contratto: 3 anni, 9 mesi e 7 giorni (1.8.2011– 8.5.2015); dal contratto alla presentazione del progetto definitivo ai soli fini della conferenza dei servizi: 3 anni e 6  mesi(8.5.2015- 8.11.2018); dall’indizione della conferenza dei servizi per il progetto definitivo alla chiusura positiva di tale conferenza con prescrizioni 2 anni, 3 mesi, 3 giorni (8.11.2018 – 11.2.21).

Ad oggi, febbraio 2025, il progetto definitivo è stato presentato ma deve essere ancora approvato e, di conseguenza, manca il progetto esecutivo sicché l’apertura del cantiere non è neppure alle viste (!!).  

Qualsiasi cittadino, che pure non conosca i meccanismi degli appalti per opere pubbliche, si rende perfettamente conto che si tratta di tempi assolutamente inaccettabili e, pertanto, contro legge. Sono stati infatti violati l’art. 97 della Costituzione che impone il buon andamento della pubblica amministrazione (rapidità, efficacia, efficienza), tutte le norme di cui al capo primo della legge 241/90 che non ammette ritardi sulla tempistica e impone la responsabilità dei procedimenti amministrativi;infine è stato violato l’intero impianto delle norme sugli appalti (D.Lgs.50/2016) che impongono di fare bene ma anche in tempi congrui.

2) Sgombrare il campo da false giustificazioni

Nel corso degli anni per questi ritardi sono state prospettate da parte Regionale varie difficoltà relative al terreno o alla procedura. Invero tutte le giustificazioni sono prive di fondamento: per rimuovere poche decine di metri di tuboli di irrigazione di asserito valore archeologico si sono impiegati due anni; per la rimozione di un elettrodotto che interferiva sul terreno, oltre sette anni. Si è pure asserito che il terreno presentava problemi di radioattività poi smentite da ulteriori indagini specifiche. Sono stati fatti più scavi in più anni per eventuali altri impedimenti archeologicisenza alcun esisto ostativo.

Nessuna influenza aveva avuto anche la crisi finanziaria della ditta Tecnis (due-tre anni per la sua sostituzione) perché si verificava in un periodo in cui si doveva elaborare il progetto definitivo e perciò ancora nessun impiego di capitali per il cantiere che impegnassero la capacità finanziaria della ditta. Ed infatti il progetto definitivo fu commissionato e presentato per la conferenza dei servizi nel 2018. Ancora oggi, dopo sette anni dal 2018 (!!) il progetto definitivo deve essere approvato ai fini del successivo progetto esecutivo e l’apertura del cantiere.

Tutti i riferiti ostacoli sono assolutamente ordinari per un progetto di opera pubblica ospedaliera, tanto che qualsiasi responsabile del procedimento non potrebbe che rallegrarsi per tale ordinarietà rispetto ad ostacoli ben più complessi od insormontabili che possono presentarsi per le opere pubbliche. In nessun caso valgono 17 anni di ritardi più gli altri che si prospettano, quattro –cinque per la costruzione e l’attivazione, che portano già di sicuro a ben oltre il ventennio (sostantivo già triste di suo).

3) I danni sociali ed economici

Contro tali ritardi l’associazionismo civico, ed in particolare l’Associazione Prosalus di Palmi, si batte con continuità per la tutela della salute nella Piana e rivendica senza soste il diritto dei cittadini della Piana a questa struttura. L’associazione nonsi è mai limitata a proteste velleitarie, generiche od episodiche né a visite di cortesia presso la regione ed ha puntualmente documentato ogni ritardo ed ogni danno che una siffatta inconcludenza ha cagionato e tuttora cagiona alla comunità della Piana (bacino di utenza di oltre 150mila abitanti).
Tutto ciò, a parte le numerose manifestazioni di protesta, gli accessi al procedimento per informare la comunità, gli innumerevoli viaggi in Regione a Catanzaro e Reggio (Presidenza, Assessorato, Consiglio Regionale) per riunioni e tavoli tecnici dai quali non è sortito granché se non prospettazioni generiche promesse vaghe e comunque puntualmente disattese. Per l’accesso agli atti ed alle informazioni, per ben due volte si è dovuto fare ricorso (con successo) al difensore civico oppure si sono sempre dovuti aspettare da 30 a 60 giorni per avere poi solo risposte elusive ed in burocratese.

In apposito atto di controllo sociale e di denuncia civica denominato “Contatempo/danno” che a cadenza mensile viene aggiornato ed inviato per memoria e mònito alle Autorità competenti, Prosalus ha determinato e dimostrato tali danni.

A decorrere dal 2015, anno in cui, a tutto concedere, l’ospedale avrebbe dovuto essere realizzato essendo già previsto con somma urgenza già dal 2007, i danni a causa della mancata realizzazione della struttura nel territorio sono i seguenti: non sono stati effettuati 165.780 ricoveri; non sono state erogate 1.193.655 giornate di degenza né 48.480 day hospital. Non sono state effettuate 6.127.620prestazioni ambulatoriali né 569.220 prestazioni di pronto soccorso. Inoltre, si sono persi 1.325 rapporti di lavoro (senza contare il turn over) e 48.495.000 ore di lavoro per assistenza ospedaliera.

Ancora: non sono stati introitati € 1.740.704.490 da prestazioni di ricovero e ambulatoriali remunerate da finanziamenti pubblici e privati e non sono stati spesi € 1.682.878.380 che avrebbero generato reddito per le persone e le famiglie delle maestranze, redditi di impresa e altri ricavi diretti o per l’indotto dell’intera Piana di Gioia Tauro e di altre zone. Vi è molto altro che qui per brevità non si menziona.

Si badi bene che tutti i descritti valori di danno sono approssimativi perdifetto ed al netto delle prestazioni erogate dall’Ospedale di Polistenaunico presidio della zona rimasto dopo la chiusura degli altri. Tali valori sono dimostrati in dettaglio nel citato documento contatempo/danno accessibile in qualsiasi momento sul sito www.prosaluspalmi.it. Nessuna autorità, locale o centrale può dire di non sapere il dettaglio anche se la disfunzione è evidente.

Ancora peggio: la mancanza della struttura ha comportato migrazione sanitaria infra ed extra regionale con i relativi disagi soprattutto per le famiglie meno abbienti e prive di adeguato reddito per costosi soggiorni altrove. L’ospedale metropolitano di Reggio Calabria è stato appesantito per l’inadeguatezza dell’assistenza ospedaliera della Piana.L’implementazione delle liste d’attesa per degenze e servizi vari, con conseguenze favorevoli solo per il privato, sono state peraltro logica conseguenza di tutto ciò.

Insomma, danno su danno e danno che genera altro danno.

4) Le responsabilità

Le responsabilità di quanto sopra sono ascrivibili per intero alla classe politica e tecnico-burocratica della Regione senza alcuna eccezione.

Per quanto riguarda la classe politica dal 2007 ad oggi, ogni diversa compagine si è succeduta alla guida della Regione: Loiero (centro-sinistra) dicembre 2007 – aprile 2010; Scopelliti (centro-destra) aprile 2010 – aprile 2014; Stasi (centro-destra) aprile – dicembre 2014; Oliverio (centro-sinistra) dicembre 2014 – febbraio 2020; Santelli (centro-destra) febbraio – ottobre 2020; Spirlì (centro-destra Lega) ottobre 2020 – ottobre 2021; Occhiuto (centro-destra) da ottobre 2021 ad oggi e con mandato in scadenza al 2026.

Per quanto riguarda la dirigenza tecnico-burocratica dal 2013 a tuttora il R.u.p. (responsabile unico del procedimento) è sempre stato lo stesso dirigente. Ugualmente dicasi per l’ufficio regionale di edilizia ed investimenti sanitari salvo il recente rinnovo del vertice (agosto 2024).

4) Le promesse e gli impegni d’onore

Le promesse per la realizzazione dell’ospedale e di soluzioni per superare i problemi burocratici si sono dimostrate pure illusioni. La comunità è stata ripetutamente disillusa e le aspettative di vedere finalmente realizzata una struttura sanitaria adeguata sono state continuamente disattese.

Tra le tante promesse si citano quella del Presidente Oliverio (centro-sinistra) che, appositamente invitato insieme al R.U.P. in un Consiglio Comunale aperto all’intervento del pubblico in data 10 maggio 2018, si impegnava ad aprire il cantiere non appena fosse stata sbloccata la crisi della ditta Tecnis (sblocco che avvenne il 30.10.2019 con l’assegnazione dell’appalto alla subentrante ditta D’Agostino). Nulla invece si è realizzato(Oliverio cessava il suo mandato nel febbraio 2020).

Si è fatto e si fa tuttora molto affidamento sul Presidente subentrante Occhiuto (2022) il quale, poco dopo il suo insediamento, si impegnava alla realizzazione del Nuovo Ospedale, come degli altri previsti nell’accordo di programma Stato/Regione, entro la fine del suo mandato 2026 (riunione a Catanzaro del22.11.2022 come riportata anche dalla stampa).

Il cronogramma regionale del Nop, disatteso in ogni sua parte

Con proprio decreto(programmazione 2022-24) egli programmava per il dicembre 2024 lavori per il 5% dell’importo del contratto ed entro il dicembre 2024 del 40%. Ciò confermava la prospettiva di chiudere con la costruzione dell’ospedale entro il mandato (2026) o comunque subito dopo. Anche tali prospettive sono cadute nel nulla.

Va sottolineato che, quando gli amministratori pubblici fanno affermazioni pubbliche sui media o in riunioni operative, gli impegni politici diventano, a mio avviso, anche impegni d’onore. Questi impegni creano grandi aspettative per le popolazioni interessate ma altrettante grandi delusioni ove non siano rispettati. Poi, dopo 17 anni, alla delusione seguono lo sconcerto e la totale sfiducia.

5) Le nuove pessime notizie  

Più di recente è accaduto che avendo la ditta appaltatrice presentato alla Regione il progetto definitivo col nuovo piano economico finanziario (2023 P.E.F.) le somme necessarie per la realizzazione dell’ospedale sono passate da 152 milioni a 293 milioni con un incremento di 141 milioni (+ 93% cioè il doppio (!!!!) rispetto a quanto previsto in sede di bando di gara e successivo contratto di appalto (anni 2011 e 2015).

Ciò era prevedibile stante l’assurdo tempo trascorso a causa dell’inconcludenza della componente politica e tecnico-burocratica della Regione in tutti gli anni precedenti. Analoghi aumenti hanno riguardato anche gli Ospedali di Vibo e della Sibaritide previsti a seguito dell’accordo di programma del 13 dicembre 2007 (Sibaritide, ospedale fotocopia del Nop, 292 milioni come da decreto n 80 del 28 marzo 2024). Tutti i danni sopra indicati vanno pertanto moltiplicati per tre.

Con decreto n. 84 del 5.4.24 è stato approvato un atto di indirizzo per il reperimento dei maggiori oneri per l’Ospedale della Piana, giustificato, si legge nel provvedimento, da “varianti progettuali” (varianti normative, aree esterne, modifiche strutturali, varianti distributive dell’edificio), e che “i costi di produzione hanno subìto anomali incrementi per effetto del contesto macroeconomico dovuto all’ emergenza Covid 19, aggravato dal conflitto russo-ucraino”. Ciò ha determinato, si precisa ancora nel provvedimentodifficoltà di reperimento delle materie prime, aumento di prezzi dell’energia, aumento significativo dei prezzi di materiale di costruzione”.

Va da sé che i nuovi maggiori costi non ci sarebbero stati se l’Ospedale fosse stato realizzato in tempi accettabili ovvero, cinque, sei o a tutto concedere, sette, otto, ma anche nove anni dal 2007 e non invece i diciassette anni fin qui trascorsi ed almeno altri cinque da preventivare posto che il cantiere non è stato ancora aperto. Il tempo, fatto colpevolmente trascorrere, è invero la principale causa di ogni sciagura di questo appalto.

Il danno da ritardo eccessivo non si limita alle maggiori somme ora richieste. Queste somme sono ben poca cosa rispetto agli ulteriori e rilevanti danni economici e sociali che derivano dal ritardo documentato al precedente punto n. 1. Il nuovo Ospedale si sarebbe ripagato per decine di volte se fosse stato attivato per tempo.

6) La situazione attuale. Le ginocchia di Giove.

In una dichiarazione pubblica di questi giorni il Presidente Occhiuto ha precisato quanto segue: […] «ho chiesto al governo di darmi una mano per concludere i tre grandi ospedali. Sibari procede e sarà completato prima della fine della legislatura, a Vibo c’è stato un incontro con il concessionario e aggiorneremo il piano finanziario per accelerare i lavori. Sulla Piana il concessionario ha chiesto 190 milioni in più, noi siamo disponibili ad un aggiornamento del Pef (piano economico finanziario – n.d.r..)  Mi sto assumendo tantissime responsabilità e rischio di essere rincorso dalla Corte dei Conti per i prossimi decenni. Però l’ho fatto perché altrimenti non l’avremmo finito (…) ho fiducia»).

Dopo avere sbloccato nel 2024 l’ospedale della Sibaritide che presentava identica necessità di nuovi fondi a quella del Nop (i due ospedali sono fotocopia l’uno dell’altro per progettazione, dimensione, ditta appaltatrice, ecc. ecc.) ora il Presidente tenta di sbloccare il resto. Gli si può dare fiducia nonostante i gravi inciampi in cui è incorso nella già disattesa programmazione dei lavori al 40% per il dicembre 2024 o nella prospettazione sui social di problemi risibili rispetto a quello che è sempre stato il vero ed unico problema del Nop: il tempo trascorso per inconcludenza politica e tecnica burocratica di chi lo ha preceduto a cominciare dal governo di centrodestra di Scopelliti & co. che inopinatamente smantellava la Piana degli ospedali esistenti nonostante fosse fermo sulla procedura del Nop.

Ora però, rispetto a tutto ciò che è successo nei diciassette anni trascorsi, siamo al momento decisivo. Il Presidente Occhiuto potrà avere merito per avere sbloccato il Nop con l’aiuto del Governo oppure demerito per averlo affossato definitivamente; poco importa che nessuna parte politica sia esente da responsabilità o che il Presidente risponda solo degli ultimi tre anni (che comunque sono già tanti).

E i cittadini della Piana di Gioia Tauro? Essi sono, come gli antichi, sulle ginocchia di Giove, quella divinità che secondo i poemi omerici decideva sugli uomini in attesa del loro destino incerto. Giove poteva essere buono o cattivo, generoso od impulsivo, protettore o vendicatore.

Ed è così che la Calabria tira avanti cacciandosi nei guai per poi chiedere a Giove cioè al Governo, di risolvere i problemi che essa stessa ha cagionato. (em)

[Ernesto Mancini è già Direttore Amministrativo Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona e Capo dipartimento legale ed appalti Asp Verona]

SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.