L’OPINIONE / Antonio Errigo: l’astensionismo è la peggiore sconfitta per i calabresi

di ANTONIO ERRIGO –L’Italia è in fermento per le prossime elezioni. E la Calabria, chiamata a scegliere la nuova classe dirigente regionale, è alla vigilia di un nuovo appuntamento con se stessa (l’ennesimo!) e con la prospettiva di una rigenerazione, di un cambio di passo.
Sappiamo tutti che non vi è elezione politica durante la quale questo o quel candidato non prometta un serio impegno per contrastare l’assenza di reddito e lavoro. Impegni il più delle volte seri, tante altre, invece, figli di una propaganda elettorale che mira a solleticare e lusingare le masse.
Da questo punto di vista si prefigura un periodo importante per i calabresi che auspico numerosi in cabina elettorale. Questo auspicio è dettato dal fatto che nessuno di noi ricorda mai che il voto è un diritto-dovere, che il voto è la nostra arma per tenere saldamente tra le mani quella sovranità che la nostra Costituzione ci ha voluto consegnare, che non entrare in modo coscienzioso dentro quella cabina elettorale significa rinunziare a questa piccola ma potentissima frazione di sovranità che spetta a tutti i cittadini.

Partecipare alle elezioni, farlo in modo attivo, informarsi con la giusta dose di cinismo e diffidenza, significa dimostrare interesse al destino della propria terra. E noi calabresi, troppo spesso, alla nostra terra ci teniamo fintanto che non ci sia qualcosa di realmente concreto che dobbiamo fare (per esempio, votare!)…

C’è chi ai doveri civici, all’impegno attivo in favore del bene delle nostre terre, predilige parole violente, insulti e invettive di ogni tipo sui social network (i famosi “leoni da tastiera”) pronunciate verso partiti, liste e singoli candidati e, con grande probabilità, neanche si avvicina ai seggi.

Per carità, anche astenersi ha un valore e molte volte l’astensione dal voto è un vero e proprio desiderio di palesare la propria volontà politica. Mi chiedo però quanto sia utile.

Spero con convinzione che questa tornata – per molti versi più importante di altre – non sia sporcata da un’astensione molto elevata perché agli evidenti segni di insofferenza del popolo calabrese si aggiungerebbe solo un ulteriore sconfitta: quella di pensare o far pensare che la Calabria è in mano a pochi quando invece la Calabria è di tutti. Tutti coloro i quali si impegneranno per offrire la propria opinione come e quando serve.
Il 3 ed il 4 ottobre serve la vostra opinione. Buon voto a tutti. (ae)

SCOPPIATA L’EPIDEMIA DI MERIDIONALITE
E I LEADER FANNO GARA DI “CALABRESITÀ”

di PINO APRILE – È scoppiata una epidemia di meridionalite. Ora, dando per scontato che siano tutte conversioni vere, folgorazioni sulla via di Matera (in treno, magari), qualche furbacchiotto che si terronizza al volo per convenienza ci sarà, per pura osservazione statistica (nel nostro universo, quantisticamente, tutto è più o meno probabile, niente certo). Quindi, cosa sta succedendo, e perché?

Eugenio Bennato, come al solito, per quel che riguarda il sentire del Sud, aveva capito e predetto tutto già nella sua Grande Sud, Sanremo 2008: «E sarà quel racconto/ E sarà quella canzone/ Che ha a che fare coi briganti/ E coi santi in processione/ Che ha a che fare coi perdenti/ Della civiltà globale/ Vincitori della gara/ A chi è più meridionale».

E se oggi la gara dei perdenti a chi è più meridionale vede prevalere folle di disperati dall’Africa e profughi dalle guerre dell’Est, fra i terroni propriamente detti c’è la gara fra chi è “veramente meridionalista”, o “più meridionalista”. Se lo fanno, vuol dire che la cosa conviene, rende. Per comprenderlo, non si deve far caso allo spessore (‘nzomma…) umano e politico di tanti volenterosi comprimari in cerca di sistemazione, perché è proprio la migrazione a orologeria degli opportunisti che segnala se un fenomeno politico, sociale, culturale è in crescita o in calo.

Ci sono veri e propri professionisti del salto della quaglia; in politica la cosa è più evidente: lo vedi dai cambi in corsa e dalle strategie; a volte, vince chi per primo lascia il gruppo che appare ancora forte, ma sta per franare (hanno antenne sensibilissime gli opportunisti…), mentre chi migra quando la crisi è ormai palese, vale meno sul mercato, perché la concorrenza è tanta e gli approdi possibili sempre più scarsi. Altre volte (vedi il governo che si regge con pochi voti di maggioranza), vince chi cambia per ultimo e all’ultimo minuto, quando quel voto in più diviene il più prezioso.

E se oggi la gara dei perdenti a chi è più meridionale vede prevalere folle di disperati dall’Africa e profughi dalle guerre dell’Est, fra i terroni propriamente detti c’è la gara fra chi è “veramente meridionalista”, o “più meridionalista”. Se lo fanno, vuol dire che la cosa conviene, rende. Per comprenderlo, non si deve far caso allo spessore (‘nzomma…) umano e politico di tanti volenterosi comprimari in cerca di sistemazione, perché è proprio la migrazione a orologeria degli opportunisti che segnala se un fenomeno politico, sociale, culturale è in crescita o in calo.

Ci sono veri e propri professionisti del salto della quaglia; in politica la cosa è più evidente: lo vedi dai cambi in corsa e dalle strategie; a volte, vince chi per primo lascia il gruppo che appare ancora forte, ma sta per franare (hanno antenne sensibilissime gli opportunisti…), mentre chi migra quando la crisi è ormai palese, vale meno sul mercato, perché la concorrenza è tanta e gli approdi possibili sempre più scarsi. Altre volte (vedi il governo che si regge con pochi voti di maggioranza), vince chi cambia per ultimo e all’ultimo minuto, quando quel voto in più diviene il più prezioso.

Insomma, il salto della quaglia è una vera e propria arte, una professione. In fondo, si tratta di imitatori e parassiti di idee altrui; cosa che riesce molto più facile quando non si rischia di essere confusi dalla presenza di opinioni proprie, se non quella di essere comunque e sempre sulla cresta dell’onda, di qualunque genere sia l’onda. Le loro peregrinazioni vanno osservate e studiate, perché fanno surf fra le correnti del potere via via dominante, anticipandole. Si impara.

A volte, ci si limita a far proprie idee altrui, frasi, proposte; quindi, non cambiando campo, ma portando nel proprio quello che funziona altrove. Una sorta di appropriazione indebita di pensiero, che viene aggiunto senza radici a quanto, magari, è addirittura all’opposto: la Lega paladina dei diritti dei terroni, per dire; o un esempio che che mi tocca da vicino: il concetto di equità territoriale è alla base e nel nome di un Movimento politico sorto due anni fa, sulla scorta di miei scritti e riflessioni, e della volontà, dell’iniziativa e della condivisione di centinaia di persone (divenute presto migliaia).

In fondo, non è che una richiesta e una azione per ottenere quanto già stabilito dalla Costituzione e mai applicato: a tutti i cittadini le stesse opportunità, gli stessi diritti, la stessa considerazione. La più vasta area del continente europeo in cui questo principio di civiltà è violato è il Mezzogiorno d’Italia. Quindi, l’equità territoriale contiene il meridionalismo (inteso come il movimento storico, culturale e politico per eliminare la Questione meridionale, ovvero la discriminazione ultrasecolare a danno del Mezzogiorno, privato di strade, ferrovie, investimenti pubblici, diritti), ma non si riduce al meridionalismo, perché ovunque la qualità umana di un nostro simile viene diminuita, tutti siamo in pericolo: si comincia sempre con qualcuno (gli ebrei, gli zingari, i terroni, gli extracomunitari…, poi tocca a mano a mano agli altri).

L’equità territoriale, quindi, è principio universale, e pertanto è meridionalista; ma non può pretendere per nessuno più di quello che è riconosciuto uguale per tutti, dalla Costituzione o dalla Carta dei diritti umani; è il contrario del razzismo leghista dichiarato e di quello non dichiarato del Pun (il partito unico del Nord di fatto, che va dalla Lega al Pd), secondo cui la politica dev’essere “territoriale”, nel senso che i rappresentanti locali devono portare sempre più risorse pubbliche a beneficio delle zone di provenienza, anche se questo impoverisce il resto del Paese e, alla lunga, lo spacca: andiamo da “Prima il Nord”, “Prima il Veneto”, “Prima Milano” a “tutto alla ‘locomotiva’, anche quello che spetta al Sud”.

Negli ultimi mesi, abbiamo sentito citare l’equità territoriale (attribuendosela) esponenti del Pd, del M5S, del governo, che però si fermano all’espressione (suona bene), senza tradurla in pratica: dirlo non costa niente. Tanto da parlare di equità territoriale, ma dimezzando le risorse del Recovery Fund che, secondo i criteri di Bruxelles, sono dovute al Sud. O addirittura, come Giuseppe Conte in cerca di consensi al Nord da capo del M5S, parlando di equità territoriale per risolvere la inesistente Questione settentrionale, inventando 200mila bambini poveri a Milano (non arrivano a quel numero manco tutti insieme, poveri e no). Insomma, siamo alla parodia con il “meridionalismo padano”.

Quindi cos’è questa epidemia di meridionalite? I partiti storici sono più o meno alla frutta: non si schiodano da percentuali che rendono tutti troppo deboli per essere egemonici e ancora troppo forti per poter impedire ad altri di esserlo. Insomma: troppo deboli per guarire, troppo forti per morire.
Tutti, tranne uno: il Movimento 5 stelle, che meno di tre anni fa divenne il primo partito italiano, facendo man bassa di voti a Sud. Dove ora è in caduta libera. Quindi, la corsa degli altri è trovare il modo di ereditare i consensi meridionali in uscita dal M5S.

Pareva che “la quadra” (orribile espressione divenuta popolare per bavosa divulgazione di Bossi) l’avesse trovata Matteo Salvini, con la sua campagna di conquista del consenso dei terroni immemori di trent’anni di insulti e della sua condanna definitiva per razzismo contro i meridionali. Aveva fatto scalpore la sua elezione a senatore a Reggio Calabria (come dire: Dracula eletto a capo della banca del sangue dagli emofiliaci), ma si scoprì che lo era diventato con i voti di altri attribuiti a lui e la sua nomina decadde.

Ma la valanga di voti sempre annunciata non si è vista (di fatto, la Lega ha preso, al Sud, voto più, voto meno, i consensi che ha quasi sempre preso il partito di estrema destra, quale che fosse, dal Movimento sociale in poi). E questo ha messo in crisi, nella Lega, il teorema di Salvini (ora in difficoltà, anche per la vicenda di droga che coinvolge il suo braccio destro, Luca Morisi), facendo riemergere il vetero-padanismo incarnato da Giancarlo Giorgetti, oltretutto pure ministro: «Noi ci chiamiamo Lega e in qualche modo ci rifacciamo alla Lega Lombarda delle origini». E se non fosse abbastanza chiaro: la Lega è «un gruppo di persone che amano la propria terra e si mettono insieme per fare il bene della propria gente». Ed è andato a dirlo a Varese, il sancta santorum della Lega.

Il che farebbe presagire, vero o no che sia, un ritiro salviniano dal Mezzogiorno, visto che le Regioni ricche e predatorie, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, intendono approfittare del governo Draghi per far passare l’Autonomia differenziata, l’ennesima, clamorosa rapina di risorse pubbliche, a danno del resto del Paese, tale che, secondo l’appello ai presidenti della Repubblica e delle Camere parlamentari di decine di docenti universitari, scrittori, professionisti e firmato da 60mila persone, si tratterebbe della “Secessione dei ricchi”.

Il Mezzogiorno, così, per sentimenti meridionalisti sempre più diffusi, delusione dei cinquestelle, minor impegno della Lega, diventa la più vasta prateria di voti in libertà: è a Sud che si faranno i giochi. E parlamentari, dirigenti politici regionali, per tardiva ma convinta scoperta, o perché ormai senza riferimenti (specie se espulsi o usciti dai partiti con cui furono eletti) e in cerca di una base, raccattano qualunque gruppuscolo “sappia di Sud”, per intestarsene le bandierine. Una operazione di reciproco interesse, perché il mal comune dei gruppuscoli meridionalisti è sempre stato l’essere discriminati, dipinti come retrivi, nostalgici, secessionisti (specie quelli siciliani), mai presi davvero sul serio, ascoltati. E ora hanno l’occasione di contare, di avere voce in campagne elettorali, forse in Parlamento. Si tratta di un mondo complesso, molto diviso al suo interno, nella “gara/ A chi è più meridionale”; il che dovrebbe, al solito, favorire gli opportunisti disposti a utili accomodamenti (per loro) e a rendere ancor più isolati gli irriducibili che non accettano una Sicilia non indipendente, o un Sud non indipendente, vedendolo nei confini dell’ex Regno delle Due Sicilie (cosa, per dire, che non è sostenuta dal Movimento dei neoborbonici, più interessati al ristabilimento della verità storica e dei diritti uguali per tutti).

Ma questo è uno scendere nel dettaglio. L’epidemia di meridionalite è profonda ma minoritaria fra persone davvero consapevoli, informate e motivate, ma molto superficiale nella sua più vasta diffusione, solo perché è arrivato un tempo in cui “Sud conviene”. E la politica ha un problema: è arrivato il vento terrone e in troppi non hanno niente di meridionale da mettersi. Così, pur se al mercato degli scampoli… Turandosi il naso: è un buon segno. (pap)

[Pino Aprile, giornalista e scrittore, è il direttore di LaCNews24]

[Courtesy LaCNews24]

Elezioni: l’uso dei social dei candidati presidente e le cadute di stile

È decisamente una scelta di comunicazione di cattivo gusto quella della candidata Amalia Bruni (che probabilmente – vogliamo sperare – non guarda o controlla l’operato del suo ufficio comunicazione & social). Definire nemici gli avversari politici e abbinare l’ex presidente Oliverio con Salvini, Spirlì e Occhiuto ha provocato dure reazioni di gran parte della sinistra, inclusa quella che non “ama” l’ex governatore. Una strategia di comunicazione totalmente sbagliata e che mette dalla parte del torto chi si propone come alternativa al passato e faro per il futuro. La probabile bocciatura (se pesante), a nostro avviso, risentirà non poco di tutta l’insulsa campagna di comunicazione che Amalia Bruni e il suo staff hanno condotto. (s)

dalla REDAZIONE ROMANA – Nei giorni in cui infuria la polemica su Luca Morisi, l’inventore della “Bestia” di Matteo Salvini e quindi precursore del marketing politico attraverso i social, è forse possibile fare un’analisi dell’uso che in Calabria i quattro candidati alla presidenza stanno facendo sui loro profili facebook e instagram.

È un altro elemento di valutazione a pochi giorni dal voto per capire l’andamento di questa strana e silenziosa campagna elettorale, caratterizzata più dai “botta e risposta” al veleno che non dai programmi e dalle proposte sul futuro della Regione.

Anche in questo caso, analizziamo i quattro candidati in rigoroso ordine alfabetico.

AMALIA BRUNI  5000  follower su FB, 700 su Instagram

È arrivata più tardi degli altri sui social (la sua candidatura è dei primi di agosto) con un profilo chiamato semplicemente “Amalia Bruni. Candidato politico”, in cui compaiono lo slogan “Mai più soli” e un lungo profilo autocelebrativo. I follower sono aumentati esponenzialmente in queste settimane. La filosofia della pagina è stata piuttosto aggressiva, con alcune cadute di stile notevoli, come la vignetta dedicata a un De Magistris che chiede l’elemosina davanti alla Cittadella o il fotomontaggio dei competitor bollati come “nemici della Calabria”. Non eccessivi i numeri su instagram, circa 700 follower, non male però se si considera che era partita da appena 82.

LUIGI DE MAGISTRIS 8200 follower su FB, 1100 su Instagram

Una premessa. Luigi De Magistris ha una pagina facebook con quasi mezzo milione di follower, ma noi analizziamo solo il profilo aperto per la campagna elettorale calabrese, dal titolo “Luigi De Magistris Presidente per la Calabria” che in pochi mesi ha già 8.200 seguaci, con un incremento giornaliero di circa 40. Sulla pagina, a parte qualche attacco a testa bassa, si concentra soprattutto sulle tappe nei vari Comuni della Calabria. Il profilo instagram si attesta sui 1100 folloyer.

ROBERTO OCCHIUTO 20.106 follower su FB, 4330 su instagram

Appare molto attenta ai social la campagna elettorale di Roberto Occhiuto. La pagina facebook, che però è antecedente alla candidatura, ha raggiunto e superato i 20.000 follower. Molto misurati i post, quasi inesistenti le polemiche, illustrati alcuni punti programmatici e le varie tappe del tour elettorale. Occhiuto va meglio degli altri su instagram dove i follower sono 4330. Sembra pertanto privilegiare questo social, anche attraverso un uso costante delle stories.

MARIO GERARDO OLIVERIO  26.300 follower su FB, 1175 su Instagram

Ha una buona dote di follower su facebook l’ex governatore Mario Oliverio, ma questo numero deriva dal periodo in cui lo stesso era presidente della Regione. Resta comunque una platea a cui parlare ed Oliverio lo fa, anche se con un linguaggio un po’ lento e superato. Su instagram supera di poco i 1000 follower a testimonianza di una certa riluttanza ad utilizzare i social.

Conclusioni

Dai numeri illustrati, appare chiaro che le elezioni regionali in Calabria non si giocheranno sulla forza di penetrazione dei social. 

I quattro candidati non snobbano questo nuovo canale di propaganda, ma si capisce bene che non sarà questo l’elemento decisivo. 

Occhiuto sembra quello che ci punta maggiormente, mentre De Magistris e la Bruni si attestano su numeri appena sufficienti, con l’attenuante per quest’ultima di avere iniziato più tardi.

Sul piano dei contenuti, le pagine di Occhiuto sono sobrie e senza scossoni, quelle di De Magistris una via di mezzo tra la proposta e la lotta, quelle della Bruni piuttosto ripiegate sugli attacchi frontali – qualche volta di cattivo gusto – verso gli avversari. Né carne né pesce quelle di Oliverio che evidentemente continua a prediligere ancora il rapporto personale con gli elettori. (rrm)

CORAGGIO, TRASPARENZA E BUON ESEMPIO
COSÍ LA RICETTA DEL BRAVO GOVERNATORE

Quali sono gli ingredienti e le qualità che rendono una persona un buon governatore? Di sicuro, serve un pizzico di coraggio, una spolverata di trasparenza, una buona dose di ascolto e, infine, un cucchiaio di buon esempio. Sono queste le caratteristiche richieste, e che sono state ribadite ed evidenziate da Klaus Algieri, presidente di Confcommercio Calabria, che ha incontrato i candidati alla presidenza.

Nel corso del confronto, è stato presentato da Algieri e dalla direttrice, Maria Santagada, uno studio sul tessuto economico della Calabria e un documento contenente le proposte provenienti dal mondo delle imprese.

Dieci i punti di discussione: Lavoro e pari opportunità; competenze, formazione e istruzione; digitalizzazione; innovazione; internazionalizzazione; turismo; infrastrutture logistiche e digitali; salute; green economy; sicurezza e legalità. Un lavoro minuzioso organizzato anche in funzione degli assi del Pnrr e delle risorse a disposizione per questi ambiti.

«Coraggio, trasparenza, ascolto e buon esempio – ha dichiarato il presidente Algieri –. Questo chiediamo a chi andrà a Governarci. La burocrazia, soprattutto quella nascosta, ci distrugge e non fa arrivare in Calabria imprese che vogliano investire. Abbiamo realizzato i punti sulla base delle debolezze strutturali della nostra Regione che potrebbero tramutarsi in punti di forza se chi ci governerà saprà utilizzare bene le risorse del Pnrr».

«E per utilizzare bene queste risorse – ha evidenziato – è necessario che si ascoltino i corpi intermedi, ma non con i soliti tavoli che non portano a nulla, ma con atti strategici pensati, creati e realizzati insieme. Noi abbiamo fatto la nostra parte prendendo il PNRR e consegnando a ciascun candidato ciò che nel prossimo quinquennio vorremmo venisse realizzato. La rotta è già tracciata, il nostro supporto certo. Sta a voi renderci parte attiva nella costruzione del futuro della nostra Regione».

«Siamo molto scoraggiati – ha concluso Algieri – perché se perdiamo questa opportunità probabilmente la strada verso il declino sarà inevitabile. Bisogna avere coraggio di cambiare le cose solo così eviteremo il baratro».

Primo intervenuto della due giorni è il candidato Luigi De Magistris che nel plaudire al lavoro minuzioso realizzato da Confcommercio, ha poi sottolineato: «Ho trovato una Calabria molto cresciuta sul piano privato. Ma privato è un termine che non mi piace perché una persona che investe è una persona che opera per la collettività, e quindi per il pubblico».

«Sono d’accordo – ha aggiunto – sul tema che la vera criminalità organizzata è quella che sta dentro a chi amministra. Una borghesia mafiosa. Una volta era il mafioso che cercava la collusione con il politico oggi ci sono dentro. L’esperienza di amministratore mi ha aiutato a vedere il tutto in ottica diversa. Puoi fare tutte le leggi che vuoi, per le imprese, per i cittadini ma se non hai le competenze giuste al tuo fianco non vai da nessuna parte».

«Esperienza, onestà e libertà – ha proseguito De Magistris – queste sono le cose che muovono la nostra campagna elettorale e su questi valori io non vi tradirò mai. Prendo questo impegno qui in Confcommercio. Ci vuole coraggio nel compire gesti che rompano il sistema. Possiamo fare tutto, lo possiamo fare insieme e concordo sul fatto che noi non possiamo e non dobbiamo perdere questa opportunità del Pnrr».

Secondo intervento della giornata quello del candidato, Roberto Occhiuto che ha dichiarato: «L’essere qui oggi è a dimostrazione che un atto di coraggio da parte mia c’è stato. Se avessi pensato a una proiezione futura sarei rimasto a Roma. Invece sono qua. Vorrei passare alla storia come chi è riuscito a dimostrare che la Calabria è un’altra e può arrivare lontano».

«Il documento presentato da Confcommercio Calabria – ha spiegato – è un ottimo punto di partenza per creare una strada sicura per il nostro futuro. Mi preoccupa molto il discorso della burocrazia. Ci sono delle rendite di posizione che vanno sradicate. Voglio arrivare alla Regione libero per fare le scelte che voglio fare in piena libertà. Con la presidenza della Regione mi gioco tutto».

«Se fallisco sarà il fallimento di una vita. Sicuramente – ha concluso Occhiuto – il modo migliore per avviare il processo di riduzione del peso della burocrazia negli apparati regionali, è quello di dare la possibilità alle associazioni di categoria di erogare dei servizi, erogati dalla Regione, una delocalizzazione che potrebbe facilitare la sburocratizzazione degli uffici regionali».

Gli altri due candidati a Presidente, Amalia Bruni per il PD-Cinque Stelle e Mario Oliverio (Oliverio Presidente) incontreranno oggi gli esponenti di Confcommercio Calabria. (rcs)

La Consulta dei Calabresi nel mondo ha incontrato i candidati presidenti

Un incontro in streaming tra la Consulta dell’Emigrazione (dei Calabresi nel Mondo – 41 consultori) e i quattro candidati alla Presidenza della Regione. Un momento importante che si è svolto venerdì 24 settembre con la partecipazione diretta di Mario Oliverio e Luigi De Magistris e Pietro Molinaro (su delega di Roberto Occhiuto) e di Marcello Anastasi (su delega di Amalia Bruni).

L’incontro – moderato dal direttore di  Calabria.Live Santo Strati – ha offerto ai candidati presidenti un quadro ampio della rilevanza della Consulta dell’Emigrazione (un organismo istituito con una legge regionale) sul cui ruolo il direttore Strati ha sollecitato gli interventi dei candidati. 

L’ex presidente Mario Oliverio ha ricordato di aver varato lui stesso le modifiche alla legge originaria che istitituiva la Consulta e nel contempo ha sottolineato l’importanza del coinvolgimento dei calabresi nel mondo nelle politiche regionali. Luigi De Magistris ha concordato sulla necessità di un ruolo molto più convidivo e attivo dei calabresi nel mondo, una risorsa che serve a mantenere vivo il legame con la terra d’origine, ma allo stesso tempo costruire opportunità di interscambi tra la Calabria e i Paesi dove sono presenti importanti comunità di calabresi.

Pietro Molinaro (che ha parlato per conto di Occhiuto impegnato in una manifestazione a Villa San Giovanni) ha ribadito quanto già espresso e riportato anche da Calabria.Live dal candidato unitario della coalizione di centro-destra: «Dobbiamo far rinasce nei nostri concittadini l’orgoglio di essere calabresi, dobbiamo far conoscere all’Italia intera una Calabria che il Paese non si aspetta». Occorre partire dalla reputazione e, da quetso punto di vista, il ruolo di testimonial dei nostri conterranei all’estero diventa fondamentale.

Marcello Anastasi (che ha preso il posto di Amalia Bruni, assente per altri impegni) su sollecitazione del direttore Strati ha confermato che nel programma della coalizione di centrosinistra non si parla di calabresi nel mondo, ma è una lacuna che sarà presto colmata. 

Si pensi che nel mondo ci sono all’incirca sei milioni di calabresi. Solo a Roma se ne contano 600mila e nell’intera Lombardia superano il milione e duecentomila. 

La Consulta, nominata dal presidente ff Spirlì lo scorso aprile, raggruppa 41 consultori in rappresentanza delle 200 associazioni sparse in ogni angolo del mondo. Il vicepresidente esecutivo è Salvatore Tolomeo.

I candidati e i delegati hanno preso l’impegno di riconfermare o nominare ex novo la Consulta entro 30 giorni dall’insediamento del nuovo Presidente (come previsto dalla legge) e di inserire la Consulta stessa nella divisione Internazionalizzazione al fine di garantire i mezzi e le risorse necessarie per il miglior funzionamento dell’organismo regionale. I calabresi nel mondo è stata un’unanime affermazione dei quattro candidati sono una risorsa essenziale per la Calabria e vanno considerati al massimo.

guarda il video dell’incontro in streaming

LA CALABRIA DI CONTE CHE POI NON VOTA
E QUELLA, DISILLUSA, CHE VUOLE SOGNARE

di SANTO STRATI – A sette giorni dal voto di domenica prossima dove 1.893.606 elettori calabresi sono chiamati a scegliere il nuovo Presidente della Regione e il colore del futuro governo regionale, si può trarre una semplice e amara constatazione: non s’era mai vista una campagna elettorale così arida, così insulsa, così vuota. Dove attaccare l’avversario è stato l’unico leit-motiv ricorrente, giorno dopo giorno, al posto di presentare progetti, programmi e, soprattutto, idee. Sappiamo già che contro quest’affermazione insorgeranno i candidati, ognuno facendo valere il proprio impegno, indicando i km percorsi, le persone incontrate, i comizi e i confronti, ma la sensazione che si coglie nel popolo calabrese, tra gli elettori della regione, è prevalentemente di sconforto, quando non di amarezza e sdegno. Se c’era stato un timido riavvicinamento alla politica poco prima delle passate elezioni (dove peraltro le astensioni hanno raggiunto il 55,67 per cento), oggi la disillusione e la non fiducia nella classe politica hanno raggiunto livelli impensabili. Sono arrivate in redazione telefonate di “compagni” del vecchio Pci che, con le lacrime agli occhi e la voce strozzata hanno detto: «Non vado a votare, a che serve?».

Ci sarà pure una ragione per questa disaffezione alla politica che non è legata al lockdown forzato dell’anno scorso o al rinvio continuo delle elezioni, quanto piuttosto all’assoluta assenza di una classe politica dirigente locale in grado di emergere e farsi valere. Il gioco della ricerca di un candidato (forse sfogliando la rubrica del telefono) da parte del Partito Democratico non è piaciuto agli elettori della sinistra e ha finito per alimentare nuove amarezze e disillusioni. Il ticket Spirlì “imposto” da Salvini (manco fosse il tutore speciale del futuro della Calabria) ha generato, dall’altra parte un forte risentimento in chi si è sentito, ancora una volta, materia di scambio e non corpo elettorale, di cui difendere ideali e sogni. Lo stesso vale per il balletto De Magistris-Tansi della prima ora, finito con insulti e reciproche accuse di slealtà su un progetto che era fatto solo di dichiarazioni programmatiche. E, infine, l’ardimentoso quanto inutile e sofferto tira-e-molla dell’ex presidente Oliverio alla ricerca di legittimazione e del dovuto rispetto da parte del Nazareno, quanto meno per la sua storia politica, sfociato in una candidatura al singolare, col ruolo di guastafeste della sinistra (ma quale sinistra?).

Se si prova a fare un mix di queste realtà vissute prima e durante la campagna elettorale, il frullato che viene fuori è imbevibile e immangiabile (politicamente parlando): è la triste conferma che la politica in Calabria ha accettato di scomparire, alimentando disillusione e rabbia in tutti gli schieramenti. E pensare che, singolarmente, pure emergono personalità, dall’una e dall’altra parte, che hanno dignità e spessore per meritare attenzione e consenso, solo che si sono fatti stritolare da un ingranaggio diabolico, servito a rendere impossibile qualsiasi riscatto (con buona pace dell’indovinato slogan elettorale di Falcone/De Magistris) slegato dai compromessi partitici.

La sensazione più diffusa, tra i calabresi (almeno che coloro che non tengono a riposo il cervello), è di una terra che non interessa a nessuno, salvo a essere utilizzata come merce di scambio nel puzzle nazionale del bieco partitismo. L’incastro di interessi e opportunità non fanno il gioco della Calabria, tant’è che dall’alto sono state prese le decisioni su uomini, strategie e indirizzi, sempre ignorando il territorio, tradendo la base, dimenticando che non si governa su stupidi sudditi, ma è necessaria la condivisione di idee e soprattutto non può mancare il confronto con un elettorale che è molto più intelligente di quanto i politici pensino. Ma il confronto con il territorio non c’è stato, la prima fugace visita di Enrico Letta ha tenuto radicalmente lontana la base, e si è dovuto aspettare i riempi piazze come Salvini, Meloni e, da ultimo, Conte, per avere la sensazione (attenzione solo la sensazione) di un contatto diretto con il popolo. È vero che De Magistris e la Falcone hanno fatto un’ottima campagna sul territorio incontrando persone, imprenditori, lavoratori, studenti, ma anche qui si ha come la sensazione che l’area civica abbia vellicato più la rabbia popolare che stuzzicato sentimenti di buona politica. Ma è già qualcosa, dopotutto.

E non ci si faccia ingannare dagli affollati comizi dell’ex premier Giuseppe Conte, con la sua “toccata e fuga” (al pari di altri leader nazionali): l’assembramento (pur proibito e, ovviamente, largamente invidiato dagli avversari) non equivale sicuramente a consenso. Conte ha fascino, glamour, piace alle cosiddette “bimbe di Conte” che senza vergogna arrivano persino a offrirsi (in tutti i sensi), ma la notorietà non basta in politica, smuove al più qualche punto in percentuale, ma nulla di più. La gente – a nostro modesto avviso – ha affollato le piazze di Cosenza, Catanzaro, Reggio e delle altre città non per riaffermare la primazia politica dei CinqueStelle (conquistata inopinatamente nel 2018 e malinconicamente smarrita nel corso di questi anni) bensì per vedere e toccare l’idolo delle folle, alias Giuseppi (come l’ha ribattezzato Donald Trump), alla stessa stregua di quelli che sono andati a vedere Zucchero, Massimo Ranieri o un qualsiasi altro personaggio del mondo (solamente luccicante) dello spettacolo. Più per curiosità che per serio convincimento politico. Se Conte decidesse di fare monologhi a teatro riempirebbe certamente le sale come il suo aedo Marco Travaglio, peccato che nelle piazze calabresi abbia semplicemente recitato un copione vuoto e colmo solo di lapalissiane promesse. Ha replicato in ogni occasione – senza convincere molto – cose dette e ridette, ovvero promesse e illusori impegni che i calabresi hanno già classificato come tali. Basti pensare alla risposta che l’ex premier Conte ha dato a chi gli chiedeva dell’Aeroporto di Reggio, destinato a perire ingloriosamente per l’ignavia dei politicanti locali: «È un argomento da prendere in seria considerazione». Fine del film.

Con queste premesse i calabresi hanno, a ben vedere, mille ragioni per non nascondere il disgusto per questa politica, che si occupa più di poltrone e seggiole da assegnare piuttosto che puntare su competenze e capacità, che – ripetiamo –, in verità, ci sono, ma quasi sempre vengono messe da parte per far posto a scelte amicali, tra opportunismi e interessi di partito. Difficile non capire questo sentimento di sfiducia e di profonda mestizia che si rivela a prima vista tra gli elettori calabresi, né lo capiranno in questi sette giorni, i boss della politica che arriveranno a frotte a riempire gli spazi del popolo degli indecisi. A conti fatti, la volta passata, il 26 gennaio 2020 votarono 840.563 elettori (su 1895.990), ovvero il 44,33%. Quest’anno gli iscritti a votare sono 926.956 uomini e 966.650 donne e di questi ben 378.583 vivono all’estero (e non votano). Tra le tante corbellerie di questo governo “provvisorio” l’unica cosa seria (spingere per ottenere il voto per corrispondenza) non è stata fatta, né l’assemblea di Palazzo Campanella ha ritenuto di modificare la legge elettorale inserendo il voto disgiunto (in modo da poter votare per un presidente e contemporaneamente per una lista politica diversa): troppo facile, troppo comodo, a rischio per l’una e l’altra parte. Ma chi può sostenere che, al di là dell’interesse della destra e della sinistra, il voto disgiunto, in una campagna elettorale aspra e sterile come questa, non avrebbe fatto – stavolta sì – gli interessi dei calabresi? (s)

MARIO OLIVERIO, ONOREVOLE TESTA DURA
PER LA CALABRIA CONTRO IL PD ROMANO

dalla REDAZIONE ROMANA – Mario Oliverio sembra uscito dalle pagine di Giovannino Guareschi, il mitico creatore di Peppone, il sindaco comunista di Brescello in eterna lotta-competizione con il parroco don Camillo. Non sembri una caricatura irriverente, perché Oliverio è persona seria, competente e soprattutto coerente. Ma le analogie con quel personaggio così popolare, interprete di quell’ingenuo marxismo in salsa emiliana, tra bandiere rosse e tortellini, sono tante. Soprattutto tre: l’estrazione contadina, la lealtà e la testardaggine.

Mario Oliverio è nato sotto il segno del Capricorno a San Giovanni in Fiore, cuore della Sila Grande e patria dell’abate Gioacchino di cui Dante parla nella Divina Commedia. Anche i non esperti di astrologia sanno bene quanto questo segno sia caparbio e testardo, non a caso il suo simbolo è lo stambecco, animale muscoloso e tenace. Il Capricorno ama combattere le battaglie in prima persona ed ha un lato quasi eroico (lo era Giovanna D’Arco) e, se serve, è pronto a sfoderare i muscoli (un altro celebre capricorno era Cassius Clay).

Solo un vero Capricorno come Oliverio poteva ingaggiare una corsa solitaria alla presidenza della Regione, senza arretrare di un millimetro anche davanti all’abbandono (sarebbe meglio chiamarlo tradimento) di molti fedelissimi, di tanta gente da lui beneficiata e innalzata ai vertici della politica e delle istituzioni, a cominciare dall’irrequieto Franco Iacucci, per anni considerato il suo Richelieu.

L’onorevole “testa dura” non si scompone. Non gli importa, in fondo, il risultato. Sa bene che la sua è una testimonianza, ha fatto troppe campagne elettorali per non capire che senza liste non si va da nessuna parte. Ma è ugualmente convinto della sua scelta. Perché il suo risultato – grande o piccolo che sarà – sarà comunque un segnale importante, un guanto di sfida lanciato verso il suo (ex) partito, il PD, oggi etero-diretto dalla Campania (Stefano Graziano) e dalla Puglia (Francesco Boccia).  Al PD supercommissariato Oliverio rimprovera soprattutto il metodo usato per la scelta del candidato alla presidenza, un casting infinito, da Nicola Irto all’imprenditrice Maria Antonietta Ventura per arrivare alla professoressa Amalia Bruni, non senza avere interpellato nel frattempo ex calciatori, musicisti, imprenditori, intellettuali che elegantemente hanno detto no.

A Mario Oliverio interessa tracciare un percorso, perché lui è convinto (e così anche i sondaggi) che il PD perderà seccamente in Calabria, un po’ anche per mano sua. E dalle macerie, dal disastro annunciato, potrà ripartire una rinascita, una rigenerazione, che però dovrà essere affidata ai giovani. Non certamente a lui che dalla politica ha avuto praticamente tutto. Consigliere regionale a soli 27 anni, poi assessore regionale nelle prime giunte di sinistra (Francesco Principe e poi Rosario Olivo), deputato per quattro legislature, presidente della Provincia di Cosenza, sindaco della sua San Giovanni in Fiore e infine tormentato Governatore della Calabria.

Non si è scomposto l’onorevole “testa dura” nemmeno quando, nell’ambito dell’inchiesta “Lande Desolate”, la DDA di Catanzaro ha chiesto ed ottenuto nei suoi confronti l’obbligo di dimora in quel di San Giovanni in Fiore. È stato paziente, ha continuato a governare la Calabria dall’ombra dei pini silani, senza arrendersi e senza deprimersi, in attesa della verità. Che è arrivata il 4 gennaio di quest’anno, con l’assoluzione piena dalle accuse di corruzione e abuso di ufficio perché “il fatto non sussiste”. Una grande vittoria morale che, però, non ha trovato sponda nel Partito Democratico che non si è degnato nemmeno di una telefonata all’ex Governatore. E d’altronde Nicola Zingaretti aveva cinicamente approfittato dei guai giudiziari di Oliverio per scaricarlo e puntare sul “re del tonno” Pippo Callipo. Con i risultati devastanti che tutti conoscono.

C’è una figura centrale nella vita più recente di Mario Oliverio, Adriana Toman, la sua compagna ormai da molti anni. Padre cecoslovacco e madre istriana, è una personalità dai mille interessi: attrice, regista, scrittrice, imprenditrice, operatrice culturale. Arrivata in Calabria negli anni Ottanta al seguito del marito, il musicista Enzo Filippelli, poi prematuramente scomparso, è rimasta in questa terra per curare la sua azienda agricola in quel di Dipignano e ovviamente i suoi interessi culturali.

È lei che ha rapito, con il suo innegabile fascino, il serioso presidente della Provincia Mario Oliverio al tempo delle kermesse silane “Transumanze”. Carattere forte e deciso, la Toman – secondo i denigratori dell’onorevole “testa dura” – non è estranea alle decisioni politiche assunte dal celebre compagno. E quindi corresponsabile dei suoi errori. Qualcuno, con poca eleganza, l’ha definita la “Elena Ceausescu” della Cittadella, rimproverandole di stare stabilmente accanto al Governatore al decimo piano della Cittadella. Il paragone con la moglie del dittatore della Romania, oltre che di cattivo gusto, è anche eccessivo sul piano della lettura storica. Intanto – e questo non è un aspetto da poco – perché Oliverio non ha i tratti del dittatore. Semmai del comunista ortodosso, sempre pronto ad obbedire alle direttive del Partito e di utilizzare le dinamiche interne per ottenere visibilità e potere.

Pragmatico in maniera ossessiva («è un riformista pragmatico… capace di mettere in campo un’indole realizzatrice», lo definisce il suo biografo Michele Drosi), l’onorevole “testa dura” insegue il suo ennesimo e forse ultimo obiettivo: liquidare il Partito Democratico dominato dai commissari e avviare una nuova fase nel centrosinistra calabrese. Una marcia nel deserto salvifica che però potrebbe durare altri cinque anni. La pazienza e la tenacia non gli mancano. Come lo stambecco simbolo del suo segno zodiacale. (rrm)

(Il profilo di Amalia Bruni è stato pubblicato martedì 21 settembre, di Luigi De Magistris mercoledì 23, di Roberto Occhiuto venerdì 24)

 

IDENTIKIT DEL CANDIDATO MARIO OLIVERIO
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Luogo e data di nascita: San Giovanni in Fiore 4 gennaio 1953

Segno zodiacale: Capricorno

Stato civile: separato, 4 figli

PUNTI DI FORZA

Carattere ostinato e determinato

Storia politica sempre a sinistra

Battaglia contro i “baroni” del PD

PUNTI DI DEBOLEZZA

Bilancio non esaltante della sua presidenza

Ombre giudiziarie anche se ampiamente chiarite dalla magistratura

Isolamento del suo schieramento e l’abbandono dei “fedelissimi”

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ROBERTO OCCHIUTO, IL “PREDESTINATO” VITTORIA FACILE, CAMPAGNA MOLTO SOFT

dalla REDAZIONE ROMANA – Un predestinato. Ci arriva con undici anni di ritardo (peraltro costellati di successi in ambito nazionale) all’appuntamento con la presidenza della Regione. Correva il 2010 e l’UdC, all’epoca molto forte in Calabria, veniva tirato dalla giacchetta da destra e sinistra. Per strappare lo scudocrociato all’abbraccio con Peppe Scopelliti (poi eletto), il Partito Democratico offriva su un piatto d’argento la candidatura alla presidenza (e la probabile elezione) al giovane e rampante deputato Roberto Occhiuto, all’epoca quarantenne e pupillo di Pierferdinando Casini.

Era pronto, il PD, a scaricare il presidente uscente, Agazio Loiero, dato perdente dai sondaggi, cosa poi puntualmente avvenuta.

L’UdC calabrese, ago della bilancia retto dai fortissimi colonnelli Franco Talarico e Michele Trematerra, decise invece per l’alleanza con il centrodestra e Occhiuto, molto ossequioso delle scelte del partito, restò disciplinatamente al suo posto.

Per uno stranissimo gioco del destino, colui che doveva e poteva essere il candidato presidente del centrosinistra nel 2010 rischia di essere il presidente della Regione in quota centrodestra nel 2021. Ma cos’è la politica se non lo specchio degli scherzi che la vita riserva?

Dietro quella faccia da bravo ragazzo della porta accanto, si cela un politico molto abile e astuto, allevato in ambiente democristiano, che ama la mediazione e non disdegna affatto l’esercizio del potere.  Possiede quel pizzico di cinismo, ereditato dalla più felice tradizione andreottiana della Dc, che gli permette di centrare gli obiettivi e di sventare le manovre, i tranelli e gli attacchi anche feroci che gli vengono mossi (è di ieri, tra l’altro, la prima pagina del Domani che insinua dubbi sulla sua correttezza).

Nato a Cosenza il 13 maggio del 1969 sotto il segno del Toro, ostenta con orgoglio le radici popolari e la circostanza che il padre “vendeva frutta al mercato”.

È legatissimo alla famiglia d’origine, ai fratelli (in particolare a Mario, architetto di successo e sindaco uscente di Cosenza), alla mamma a cui ha dedicato il 27 luglio un toccante post su facebook (“Mamma è preoccupata, lo sa che governare la Calabria non è facile, conosce i rischi di fare politica qui e teme anche lei che sia una mission impossible. Mà, tranquilla. La Calabria si può cambiare”).

D’altronde, nei giorni difficili alla fine del 2019, quando i veti di Salvini affondarono la candidatura alla presidenza della Regione del fratello Mario (e poi in successione la sua), non ebbe esitazione a dire ai vertici di Forza Italia: «Tra il cognome e l’appartenenza politica, scelgo il primo». Sembrava un annuncio di addio, poi tutto è rientrato, al punto che Roberto è stato ricompensato da Berlusconi con il ruolo prestigioso di capogruppo alla Camera. Politicamente è molto legato ai ministri Renato Brunetta e Mara Carfagna, mantenendo nel contempo buoni rapporti con Antonio Tajani e soprattutto con Licia Ronzulli, la fedelissima del Cavaliere.

Governato da un segno di Terra, Occhiuto ha tutte le caratteristiche del Toro: molto metodico, lento, porta a termine tutti gli scopi che si prefigge. Gli piace ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, come recitano i manuali di astrologia, e questo spiegherebbe una campagna elettorale a fari bassi, senza scossoni, molto sobria.

È stato un enfant prodige della politica cosentina. Consigliere comunale della DC a soli 24 anni, consigliere regionale a 31 anni, deputato a 39 anni. È il più giovane tra i quattro candidati alla presidenza e sottolinea questo aspetto con un look molto informale, capelli cortissimi, in preferenza jeans e camicia bianca, scarpe di tendenza.

Giornalista pubblicista, ha un passato di editore (il network televisivo formato da Ten, Telestars, Rete Alfa) e un futuro da imprenditore agricolo. Ha rilevato nel 2019, assieme a Paolo Posteraro e Valentina Cavaliere, l’azienda “Tenuta del Castello” , situata a Montegiordano tra Calabria e Basilicata, dove produce vini ed olio. I suoi “gioielli” sono i rossi “Soprano dello Jonio” e “Narobio”, il bianco “LePanio” e il rosato “Pian delle Rose”, di cui va ovviamente molto orgoglioso. In un post di Ferragosto, ha pubblicato una foto in cui brinda, felice, con un calice del suo vino “made in Calabria”.

È amante dei social, delle nuove tecnologie, della modernità, consuma almeno due batterie di cellulare al giorno. Non gli manca un filo di autoesaltazione che un po’ guasta il suo profilo sobrio. «Potevo fare il ministro, lascio un ruolo di primissimo piano, i riflettori nazionali, ma ho scelto la Calabria». Tutto si perdona ad un predestinato. (rrm)

> DOMANI IL RITRATTO DI MARIO OLIVERIO

(Il profilo di Amalia Bruni è stato pubblicato martedì 21 settembre, quello di Luigi De Magistris mercoledì 23)

 

IDENTIKIT DEL CANDIDATO ROBERTO OCCHIUTO
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Luogo e data di nascita: Cosenza 13 maggio 1969

Segno zodiacale: Toro

Stato civile: separato, 2 figli

Professione:Deputato, Capogruppo di Forza Italia alla Camera

PUNTI DI FORZA

L’immagine di politico nazionale

La sobrietà della campagna elettorale

Liste molto forti

PUNTI DI DEBOLEZZA

Percepito come politico di lungo corso

Percepito come continuità del vecchio sistema

Il ticket con l’”odiato” Spirlì

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LUIGI DE MAGISTRIS, RABBIA E ORGOGLIO
DEL MASANIELLO ARANCIONE IN CALABRIA

dalla REDAZIONE ROMANA – L’accostamento a Masaniello, il mitico capopopolo che nel 1647 rovesciò dal nulla il viceré spagnolo di Napoli, un po’ lo infastidisce e un po’ lo inorgoglisce. Perché Masaniello è stato sì una meteora, il capo di una rivoluzione appena accennata, ma è stato comunque l’incarnazione della ribellione degli ultimi verso i soprusi e le ingiustizie. Già, la Rivoluzione! Luigi De Magistris l’ha sempre avuta nella testa, non come atto violento ovviamente, ma come passaggio, trasformazione, evoluzione. Fin dai tempi del liceo “Pansini”, roccaforte della contestazione studentesca, dove con i “compagni” si interrogava se era giusto votare il PCI piuttosto che Democrazia Proletaria di Mario Capanna. Quel 7 in condotta, guadagnato sul campo per avere criticato il preside, deve averlo inteso come una medaglia al valore rivoluzionario. E poi le prime letture impegnate, tra cui “I Rivoluzionari” dello storico inglese Eric Hobsbawn, una raccolta di saggi su marxismo, anarchia e lotte di classe.

Discendente di una famiglia di magistrati (lo erano il bisnonno, il nonno e il padre, autore della sentenza d’appello sul “caso Cirillo”), Luigi De Magistris – che oggi tenta l’impresa impossibile di scardinare l’assetto politico-istituzionale della Calabria – si sente una sorta di “predestinato” a combattere i mali della società. Non importa se per via giudiziaria o per via politica.

Non è un caso che, in conclusione del suo libro Attacco al PM. Storia di un cattivo magistrato (prefazione di un altro controcorrente come Marco Travaglio), abbia pronunciato una sorta di giuramento dedicato alla memoria del padre: “A mio padre dedicherò il mio sogno più grande, contribuire con tutte le forze a ridurre le ingiustizie e cercare di realizzare un’Italia più pulita”. Roba da film.

Nato a Napoli nel 1967 sotto il segno dei Gemelli, vanta tutte le caratteristiche astrali narrate dai manuali: arguto, intelligente, veloce, comunicativo, capace di esprimersi in campi diversi, grande curiosità e forte senso teatrale.

È stato un magistrato scomodo (e, secondo i suoi denigratori, superficiale, con metodi investigativi discutibili e solo smanioso di protagonismo), un politico altrettanto scomodo che ha fatto saltare, contro tutto e contro tutti, il consolidato sistema consociativo nella città di Napoli. La bandana arancione, sfrontatamente ostentata il giorno dell’incredibile vittoria del maggio 2011, è una delle sue bandiere distintive.

Difficile raccontare in poco spazio le vicende avventurose, surreali e sul filo della tensione dell’aspirante Governatore della Calabria. Le inchieste celebri, poi finite puntualmente nel cestino (per insufficienze investigative o, più probabilmente, per la reazione dei poteri forti), gli scontri con i vertici delle Procure, il suo allontanamento dalla magistratura, le amicizie con personalità “contro” come Marco Travaglio, Michele Santoro, Beppe Grillo, Antonio Ingroia.

La Calabria nel suo destino. Già nell’infanzia, nelle vacanze giovanili tra Diamante e Belvedere Marittimo, ma soprattutto nel 1995 quando, fresco vincitore del concorso in magistratura (in commissione c’era Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone), venne chiamato alla scelta della prima sede. Convocato all’hotel Ergife di Roma, De Magistris scelse la Puglia, la Procura di Brindisi. La stessa sera della scelta, il destino si presentò da lui sotto le sembianze di una giovane magistrata pugliese che lo implorò di rinunciare ed optare per altra Procura in modo da consentirle di avvicinarsi a casa. Per il giovane giudice napoletano, una sede valeva l’altra ed optò per la Calabria, scegliendo Catanzaro che aveva una discreta fama di prestigiosa sede giudiziaria, essendo anche Corte d’Appello. In passato aveva ospitato celebri processi come quelli di piazza Fontana e delle cosche palermitane.

E fu così che il brillante e ambizioso napoletano legò per sempre la sua vita a quella terra così lontana e misteriosa. Senza quella scelta, come ama ricordare, non avrebbe incontrato la futura moglie, Mariateresa Dolce, e non sarebbero nati i suoi adorati figli. Ma soprattutto non sarebbe nata la leggenda del giudice inflessibile che sfida i poteri forti, che indaga a tutto campo, smuovendo la sonnecchiosa vita della Procura di Catanzaro dove i fascicoli prendevano la polvere nei cassetti. De Magistris, avvalendosi a piene mani dello strumento delle intercettazioni, ha indagato presidenti di Regione, parlamentari, leader di partito, perfino il premier Romano Prodi e il ministro della Giustizia Clemente Mastella. Come sia finita la sua storia in magistratura lo sanno tutti: trasferito e privato della funzione investigativa.

Esaurita la via giudiziaria, non restava che quella politica per tentare di riscattare gli ultimi e scardinare il potere. Parlamentare europeo con Antonio Di Pietro e poi sindaco di Napoli per due mandati consecutivi.

Ora la sfida si sposta nella “sua” Calabria. Da solo, in autonomia, senza legami con i partiti, sicuro che la gente è con lui. Ricorda che quando gli venne sottratta d’imperio l’inchiesta “Why Not”, ci fu una mezza rivoluzione. Trecento persone si presentarono davanti al Palazzo di Giustizia di Catanzaro per manifestargli solidarietà (quante analogie con l’esperienza di Nicola Gratteri), ci furono centomila firme su un documento che chiedeva al Governo di farlo restare in Calabria, schiere di intellettuali e giornalisti dalla sua parte, interviste a go go, compresa una puntata esplosiva di Annozero con Michele Santoro. Oggi l’ex pm cerca una rivincita nella terra che lo ha adottato e dove ha avuto amare delusioni e subito cocenti sconfitte.

Sarà nuovamente così ? De.Ma. ci crede. Accanto a lui, come al solito personalità “contro”, come l’avvocata Anna Falcone e l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Perfino una schiera di intellettuali di area PD si sono schierati con lui. Energico, positivo, abbigliamento giovanile e l’irrinunciabile zainetto sulle spalle, ha battuto palmo a palmo la Calabria. Nessun candidato ha marcato il territorio come lui. Dovunque ha sprigionato la sua capacità oratoria, spiegando come intende rivoluzionare la Regione. De.Ma. lo si ama o lo si odia, non ci sono mezze misure. Come un protagonista assoluto nel teatro della vita. (rrm)

>> DOMANI IL RITRATTO DI ROBERTO OCCHIUTO

IDENTIK DEL CANDIDATO LUIGI DE MAGISTRIS

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Luogo e data di nascita: Napoli 20 giugno 1967

Segno zodiacale: Gemelli

Stato civile: sposato, 2 figli

Professione: magistrato in aspettativa, sindaco di Napoli

PUNTI DI FORZA

Immagine di candidato anti-sistema e paladino della legalità

Equidistanza dai partiti e dagli schieramenti

Indiscutibile popolarità televisiva

PUNTI DI DEBOLEZZA

L’essere “non calabrese”

Il piglio giustizialista

Liste senza grandi portatori di voti

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L’ex premier Giuseppe Conte a Reggio, tra folla, contestazioni e fuori programma

Il bagno di folla dell’altro ieri a Cosenza (ma il divieto di assembramento vale solo per i poveri “sudditi” di questo Paese?) ha confermato la popolarità di cui continua a godere l’ex premier Giuseppe Conte venuto in Calabria per un tour de force-maratona elettorale di due giorni. Ieri pomeriggio a Reggio, prima del suo arrivo un piccolo gruppo di ex attivisti dei 5 Stelle ha espresso a piazza De Nava una tiepida contestazione verso il Movimento, poi c’è stato un fuori programma con il giornalista Luigi Palamara che ha dichiarato di percepire il reddito di cittadinanza e di essere grato per questo sussidio che lo aiuta a sopravvivere. Conte, con alle spalle la candidata del centrosinistra Amalia Bruni, ha tenuto il microfono a Palamara per permettergli di esprimere il suo pensiero e il suo ringraziamento.

Un microfono “biricchino” ha fatto capire poco delle dichiarazione di Conte: «c’è una vergognosa campagna di delegittimazione del reddito di cittadinanza: non c’è nulla da vergognarsi, anzi. Si deve vergognare lo Stato e la società italiana se ci sono delle persone in povertà assoluta e prima che intervenissimo noi non era stato fatto nulla. Non consentiremo mai che venga cancellato: è una misura di protezione sociale. E noi dobbiamo garantire ai percettori del reddito di cittadinanza piena dignità sociale».

Conte ha parlato del giornalista reggino Luigi Palamara, “l’Arciere”: «lui gira dal mattino alla sera per testimoniare, per rendere un servizio pubblico. Bisogna pensare a progetti di pubblica utilità, come il suo, per offrire lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza».

Conte ha arringato la piazza come un consumato politico: «se avete temi che vi stanno a cuore per la vostra città, parliamone, faremo un focus per trovare le soluzioni». E quando qualcuno gli lancia la parola aeroporto, l’ex premier se l’è cavata con una battuta: «L’aeroporto è chiaro che è un tema su cui lavorare». Un po’ pochino per una popolazione esasperata e incazzata nera per uno scalo lasciato a morire, isolando ancor di più tutta l’area metropolitana di Reggio.

Poi ha parlato di sanità: «È disastrata» – ha detto Conte – e ha tirato in ballo Amalia Bruni che «da governatrice risolverà i problemi». Ma si è dimenticato Conte che è stato lui a venire a Reggio nell’aprile 2019 con un Consiglio dei ministri straordinario a imporre alla Calabria un vergognoso commissariamento con un ancor più umiliante decreto. Gli attivisti pentastellati gli hanno già perdonato tutto e il premier inebriato da tanto consenso sogna di fare il pieno alle elezioni, dimenticando il serio avvertimento che il grande socialista Pietro Nenni amava ripetere spesso: piazze piene, urne vuote. (s)