INFRASTRUTTURE, AL SUD VINCOLATO IL
40% DEGLI INVESTIMENTI DEI FONDI PNRR

di ERCOLE INCALZA – Il Ministro Tommaso Foti lo scorso 7 gennaio ha dichiarato che «la spesa effettiva dei fondi Pnrr si attesta a circa 60 miliardi di euro di cui 22 miliardi nel 2024. Il 50% delle risorse spese rientra tra quelle a fondo perduto e i pagamenti effettivi sono superiori del 10 – 12% rispetto a quelli rilevati ufficialmente».

Appare evidente che, per centrare l’obiettivo di una piena attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), bisognerebbe spendere oltre 130 miliardi di euro in 18 mesi.

Questo ultimo dato dimostra che siamo già oggi di fronte alla constatazione che è impossibile rispettare la scadenza imposta dalla Unione Europea e, sempre il Ministro Tommaso Foti, di fronte a questa constatazione ha precisato: «Non dobbiamo avere l’incubo di spendere a tutti i costi perché vorrebbe dire spendere male. Se una quota non riesce ad essere spesa perché le misure non sono attrattive, dopo che le abbiamo cambiate, ben venga il prendere atto che ci sono misure che non hanno mercato».

Sulla base di questa obbligata constatazione il Ministro Foti ha anticipato che, entro il mese di febbraio, il Governo varerà un Piano in cui non compariranno più gli interventi irrealizzabili entro i prossimi sedici mesi e saranno inserite opere potenzialmente realizzabili entro la scadenza del giugno 2026.

In questa operazione, ha precisato sempre il Ministro Foti: «sarà inserito il vincolo di destinare almeno il 40% degli investimenti nel Mezzogiorno, anche perché il Mezzogiorno ha dimostrato di utilizzare al meglio i fondi e di farne volano per una crescita che, sempre nel 2024, è stata superiore a quella del Nord».

È quindi in corso, nei vari organismi preposti alla attuazione delle opere, nei vari organismi responsabili della progettazione e della realizzazione degli interventi, un lavoro capillare mirato a cercare da un lato possibili ulteriori modalità per velocizzare l’avanzamento delle attività e dall’altro identificare l’inserimento di interventi sostitutivi in grado di essere portati a termine entro il mese di giugno del 2026.

Senza dubbio questo si configura come un lavoro obbligato e, al tempo stesso, senza dubbio, tutto questo rappresenta un ultimo tentativo per evitare un vero e pesante fallimento nell’attuazione del Pnrr; un fallimento che l’ex Ministro Fitto aveva già cercato, riuscendoci, di ridimensionare trasferendo già molti interventi all’interno del Fondo Sviluppo e Coesione 2021 – 2027.

In altre mie note ho ricordato le grandi responsabilità dei Governi Conte 1, Conte 2 e dello stesso Governo Draghi nell’aver sottovalutato l’obbligato rispetto della “spesa” entro il mese di giugno del 2026 ed in particolare l’aver perso praticamente un biennio nella identificazione delle opere e nell’avvio concreto delle procedure di gara.

Oggi, quindi, non possiamo più rinviare questa triste fase di ammissione della impossibilità di attuare il Pnrr e, come ribadisco da almeno due anni, riconoscere che la possibilità della spesa non potrà attestarsi su un valore superiore alla soglia di 80 – 90 miliardi di euro.

Sempre in alcune mie considerazioni avanzate poche settimane fa ho precisato che dovremmo trovare delle soluzioni per evitare non solo di perdere circa ulteriori 120 miliardi ma di dover subire anche delle penalty.

Avevo anche ribadito che la corsa a cambiare il Piano attraverso l’inserimento di nuove opere e l’annullamento di altre ormai non più difendibili, sia una soluzione rischiosa anche perché l’annullamento di alcune opere scatenerebbe gli Enti locali (Regioni e Comuni), scatenerebbe alcune grandi Aziende come il Gruppo delle Ferrovie dello Stato, darebbe origine ad un vero contenzioso da parte del mondo delle costruzioni.

L’unica soluzione, o meglio, l’unico compromesso penso potrebbe essere quello di trasformare la quota a fondo perduto pari globalmente a circa 68 miliardi (di cui finora utilizzati circa 30 miliardi e per la data del 30 giugno 2026 spendibili fino ad una quota di 45 miliardi) in prestito (cioè dovremo trasformare in prestito un importo di circa 23 miliardi di euro) e incrementare gli interessi anche della quota in prestito restante e quindi dovremo definire con la Unione Europea un accordo attraverso il quale il  nostro Paese dovrà dal 2027 in poi onorare un prestito globale di circa 118 miliardi di euro  (23 miliardi di euro + 95 miliardi di euro).

Senza dubbio questa proposta trova un supporto adeguato nella serie di cambiamenti, nella gestione del nostro Paese, vissuti dal 2020 ad oggi; in soli quattro anni si sono alternati tre distinti schieramenti il primo con il Governo Conte appoggiato essenzialmente dal Partito Democratico e da 5 Stelle, il secondo con il Governo Draghi con la presenza di tutti gli schieramenti politici escluso quello di Fratelli d’Italia e dalla fine del 2022 ad oggi una compagine solida formata da Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi moderati.

La instabilità dei Governi Conte 2 e Draghi ha inciso in modo rilevante sulla concreta attuazione delle scelte del Pnrr e questo penso possa essere una valida motivazione per supportare la proposta di rivisitazione avanzata non delle opere ma delle modalità di uso delle risorse.

La ipotesi avanzata dal Ministro Foti invece genera automaticamente, come detto prima, uno scontro con gli Enti locali, con le grandi Aziende come Ferrovie dello Stato ed Anas, una vera presa di posizione non solo degli schieramenti politici oggi alla opposizione ma anche di quelli che appoggiano il Governo.

Insisto, quindi, nel ribadire la opportunità di verificare attentamente la mia ipotesi di lavoro perché quanto meno evita: una riapertura procedurale delle istruttorie sulle nuove opere; un contenzioso tra le opere già assegnate anche attraverso l’attestato di “opera giuridicamente vincolante” (OGV); l’impossibilità di identificare in appena 20 mesi interventi capaci di essere portati a compimento entro il 30 giugno 2026

Una grave penalizzazione, soprattutto per il Mezzogiorno, in quanto le opere avviate dalle Ferrovie dello Stato e relative all’asse Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Catania e Catania – Messina, per un valore globale di circa 8 miliardi di euro sarebbero bloccate generando un contenzioso perdente per il committente pubblico.

Non credo che, in questo delicato momento storico, il Governo voglia incamminarsi verso una scelta divisiva e ingestibile. (ei)

IL SUD SI SVUOTA, IL NORD RESISTE: ECCO
LE DUE ITALIE DELLA CRISI DEMOGRAFICA

di FRANCESCO AIELLO – L’Italia affronta una crisi demografica profonda, con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, questa nota conferma tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Comprendere queste dinamiche è essenziale per cogliere la frattura territoriale e le sue implicazioni economiche.

Italia: un declino demografico senza segnali di inversione

Dal 2019 al 2024, la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a 58.971.230 abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino o (quasi) Napoli o di due città come Bologna e Firenze. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Spopolamento e invecchiamento: il Mezzogiorno in crisi

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Per evidenziare un’eventuale relazione tra la dimensione della regione e lo spopolamento, sull’asse delle ascisse è riportata la quota della popolazione regionale nel 2019, mentre sull’asse delle ordinate è indicato il contributo di ciascuna regione alla perdita complessiva di popolazione a livello nazionale osservato negli anni 2019-2024. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale, contribuendo, quindi, “negativamente” al fenomeno dello spopolamento complessivo.

Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia. Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale.

È possibile osservare la maggiore vulnerabilità del Mezzogiorno alle dinamiche demografiche guardando il tasso di spopolamento in ciascuna regione. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e in Calabria (-3,8%), seguite dalla Sardegna (-3,2%) e dalla Campania (-2,5%). Nel Centro-Nord, il calo è meno accentuato, con la Liguria (-1,6%) e il Piemonte (-1,8%) tra le regioni più colpite. Al contrario, l’Emilia-Romagna (-0,2%) e il Veneto (-0,7%) mostrano variazioni contenute. Complessivamente il fenomeno si manifesta con intensità diverse, penalizzando in particolare il Sud e alcune aree del Centro-Nord.

Di per sé, la riduzione della popolazione non è necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età.

Emerge che il calo demografico in Italia non è uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre. In particolare, si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, mentre la fascia 15-24 anni registra una lieve flessione dello 0,6%. Ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 25 e i 34 anni (-4,2%) e, soprattutto, tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%. Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Il divario Nord-Sud si amplia

L’analisi dei dati regionali evidenzia come lo spopolamento sia un fenomeno eterogeneo sia all’interno delle singole regioni che nel confronto tra di esse. In tutte le aree del Paese si osserva una riduzione della popolazione più giovane e in età lavorativa, accompagnata da un aumento della popolazione anziana, sebbene con differenze nei tassi che, evidentemente, riflettono differenze nelle cause di queste dinamiche.

Ad esempio, in Calabria e Sardegna il calo della popolazione tra i 25 e i 34 anni è particolarmente marcato (-15,2% e -13,9% rispettivamente), evidenziando una forte emigrazione giovanile. Al contrario, in regioni come l’Emilia-Romagna (+3,4%) e la Lombardia (+1,9%) la popolazione ricadente in questa fascia d’età è in crescita, segnalando una maggiore capacità di attrazione legata alle opportunità lavorative. Lo spopolamento del Sud risulta strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024.

L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno comune a tutte le regioni, ma con tassi di incremento diversi. In Lombardia, Lazio, Toscana, Trentino-Alto Adige e Veneto la popolazione over 90 cresce in modo significativo, in linea con la tendenza nazionale. Tuttavia, nelle otto regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), l’aumento degli ultranovantenni è ancora più marcato, con una crescita superiore al 30% nell’ultimo decennio. Parallelamente, in queste stesse regioni si registra una riduzione sistematica della popolazione in tutte le fasce d’età fino ai 50 anni, un dato che contribuisce a un incremento preoccupante dell’indice di dipendenza, ossia il rapporto tra popolazione non attiva e popolazione in età lavorativa (in questo caso fino a 50 anni). Il forte squilibrio demografico del Sud solleva interrogativi sulla sostenibilità del welfare e sulle prospettive di crescita economica di questa parte del paese.

Osservando le tendenze su scala nazionale, emerge un quadro chiaro: mentre nel Mezzogiorno la perdita di popolazione riguarda in modo sistematico tutte le fasce d’età fino ai 50 anni, nel Nord molte regioni mostrano una maggiore stabilità demografica o addirittura una crescita in alcuni segmenti della popolazione.

Ad esempio, il Molise perde il 9% della popolazione tra i 15 e i 24 anni e l’11,8% tra i 35 e i 49 anni, mentre in Calabria il calo tra i 25 e i 34 anni è superiore al 15%. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro delle economie regionali. Al contrario, in regioni come Lombardia, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna, la popolazione giovane e lavorativa risulta più resiliente, con incrementi in alcune fasce d’età. Tuttavia, non tutte le regioni settentrionali seguono la stessa tendenza: in Liguria e Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, si registrano cali demografici significativi, sebbene con caratteristiche diverse rispetto al Mezzogiorno. (fa)

[Francesco Aiello è prof. ordinario di Politica Economica al Dipartimento di  Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania”

dell’Università della Calabria]

[Courtesy OpenCalabria]

LA CALABRIA HA LE CARTE IN REGOLA PER
CREARE UNA SILICON VALLEY DEL SOCIALE

di FRANCESCO RAOLa regione Calabria, nel compiere il complesso percorso di crescita strutturale, porta con sé, oltre ai segni di una economica fragile un marcato invecchiamento della popolazione.

Osservando la piramide dell’età (figura n. 1), si rileva ad occhio nudo l’importante sfida da affrontare per poter garantire un sistema di welfare in grado di rispondere in modo adeguato alle crescenti esigenze assistenziali di anziani e bambini. In tal senso, il ruolo svolto dai Piani di Zona e tutte le politiche sociali messe in campo dalla regione Calabria, incontrano oggi il ritardo accumulato a seguito del mancato recepimento dell’allora Legge 328/2000, ma potranno rappresentare una importantissima svolta e recuperare strada grazie al supporto fornito dalla sentenza n. 130/2020 della Corte Costituzionale attraverso la quale si è aperta la procedura di co-progettazione tra Enti Locali e Terzo Settore per l’erogazione di servizi sociali avanzati e di prossimità.

Il contesto demografico ed economico della Calabria gioca un ruolo fondamentale, anche perché, nel corso degli ultimi decenni, la regione ha vissuto il progressivo invecchiamento della popolazione, accompagnato tra l’altro da un declino del tasso di natalità e da un fenomeno migratorio che ha portato alla dispersione dei giovani verso aree economicamente più dinamiche dell’Europa e del mondo. I recenti dati Istat evidenziano che la percentuale di anziani nella regione supera quella della media nazionale, incidendo significativamente sulla capacità del sistema assistenziale nel fornire servizi adeguati.

Questa situazione è rilevata in un contesto sociale nel quale le persistenti difficoltà occupazionali determinano un reddito pro capite per i Calabresi che è pari ad un terzo dei residenti in Lombardia. Già questo dato dovrebbe far riflettere molto quanti pensano che sia semplice risolvere nel brevissimo periodo le evidenti criticità afferenti alla sanità e alle politiche sociali. Da un punto di vista storico, il nostro modello di solidarietà sociale, consolidato nel dopoguerra e ulteriormente sviluppato attraverso normative quali lo Statuto dei Lavoratori del 1970, si fondava su principi di solidarietà e protezione universale, attraverso un sistema nazionale.

Successivamente, con la modifica del Titolo V della Costituzione, le competenze sono state trasferite alle regioni e in ognuna di esse vi è stata la possibilità di rilevare nel tempo i punti di forza e punti di debolezza per i quali oggi, nel Meridione, grazie al Pnrr, si sta lavorando con l’intento di ridurre il divario dei servizi tra Nord e Sud. Ulrich Beck, noto sociologo che ha teorizzato la “società del rischio”, ha più volte sottolineato come il mondo contemporaneo sia dominato da rischi diffusi e incertezze strutturali, richiedendo come azione solutiva risposte collettive e sistemiche. In tal senso, la cooperazione tra Enti Locali e Terzo settore, rappresenta il superamento praticabile al tradizionale modello assistenziale non più sostenibile in quanto le necessità bisogna affrontarle nei rispettivi territori e non in pochi centri destinati ad essere iper-affollati e non funzionali.

Inoltre, per affrontare in modo strutturale la necessità presenti sui territori della Calabria, occorrono competenze e processi occupazionali veloci. Nel rispetto delle vigenti leggi ed in particolare della Legge “Madia”, sappiamo benissimo che l’accesso alla Pubblica Amministrazione avviene solo tramite concorso pubblico e non per chiamata diretta. Considerato come prioritario il fabbisogno e il divario tra le aspettative di una società in rapido invecchiamento e le risorse effettivamente disponibili nelle regioni economicamente deboli come la Calabria, l’unica strada percorribile è quella di superare i modelli ingessati e aprire alla co-progettazione, interessando il segmento sano e competente del Terzo Settore presente in Calabria e grazie ad esso generare immediate risposte in tutti i 404 comuni della regione.

In tal senso, nella criticità ci sarà una opportunità straordinaria che consentirà il perseguimento del bene sociale. Ecco perché la Calabria, con la sua realtà complessa, può dar vita ad una “Silcon Valley del sociale”, attraverso la creazione di una cabina di regia operativa nella quale le competenze potranno essere fornite dall’apporto delle Università, dal sistema del Welfare regionale e dal Terzo Settore. 

Gli ambiti ai quali rivolgere la massima attenzione dovrebbero essere innanzitutto gli asili nido e le strutture residenziali per anziani e l’avvio delle procedure dovrebbe interessare inizialmente le aree interne per giungere poi all’uniformità regionale del servizio.

La Calabria, in tal senso, potrebbe configurarsi come un esempio nazionale concreto attraverso il quale le difficoltà che caratterizzano gli odierni contesti marginali potrebbero generare contemporaneamente occupazione di personale specializzato e superamento della povertà sociale vissuta in prima persona da anziani e bambini e riflessa nella conciliazione dei tempi liberi e di lavoro soprattutto di tante donne calabresi, dedite ancora ad assistere in casa genitori e figli per mancanza di strutture pubbliche. Inoltre, si potrebbe immediatamente rilevare una riduzione di presenze presso gli ospedali, in quanto a regime si potrebbe immaginare l’estensione di molti protocolli di cura da praticare a domicilio attraverso una medicina di prossimità.

La regione Calabria, per molto tempo, ha sofferto di una carenza cronica di investimenti pubblici ma tutto ciò. Non dovrà essere il prosieguo di una narrazione negativa. Da tale causa, senza voler dare colpa alcuna ai privati, abbiamo assistito alla costante obsolescenza delle infrastrutture sociosanitarie e dei rispettivi servizi resi, spesso dislocate in maniera disomogenea sul territorio e oggi, recuperare quel divario, è una autentica sfida titanica al quale bisogna guardare l’obiettivo con fiducia e con un metodo ben preciso.

I rapporti Svimez, nel corso degli anni, hanno puntualmente sottolineato l’incidenza della disoccupazione rispetto al Centro-Nord, evidenziando di volta in volta un divario sostanziale nella capacità di offrire servizi assistenziali di qualità. Inoltre, il fenomeno della “fuga di cervelli”, come documentato dal Censis, ha ulteriormente impoverito il capitale umano locale, indebolendo le potenzialità di innovazione e rigenerazione del sistema di welfare.

In un simile contesto, il ruolo della famiglia e delle reti comunitarie, in passato fondamentali per la coesione sociale, risulta spesso insufficiente a compensare le lacune del sistema pubblico. Alla luce delle evidenti criticità, è imprescindibile un intervento multilivello finalizzato a rinnovare il modello di welfare in Calabria. Perciò è necessaria una revisione degli investimenti nel settore sanitario e nei servizi sociali, con particolare attenzione alle aree rurali e alle periferie. L’integrazione di tecnologie digitali, quali la telemedicina e l’assistenza domiciliare, potrebbe migliorare significativamente l’efficienza e la capillarità dei servizi, riducendo i costi e garantendo una maggiore accessibilità.

L’esperienza di altri Paesi europei, i quali dopo aver adottato modelli di welfare integrato e partecipativo, rappresentano oggi un punto di riferimento importante. È altresì fondamentale promuovere politiche di decentralizzazione e maggior autonomia gestionale per le amministrazioni locali, in modo da personalizzare gli interventi in base alle specificità territoriali.

Richiamando quanto scrisse Anthony Giddens in “Modernity and Self-Identity”, proprio da quel testo si potrebbe intravedere il metodo da applicare alla realtà calabrese per superare le criticità evidenti e, come già detto, creare importanti occasioni occupazionali. In questa ottica, le politiche di welfare dovranno essere concepite non solo come strumenti di protezione, ma anche come leve per rafforzare il tessuto sociale e promuovere la partecipazione attiva dei cittadini.

La grande trasformazione in atto richiede un intervento strutturale che integri investimenti mirati, innovazione tecnologica, competenze e una rinnovata partecipazione civile. Solo attraverso un approccio integrato e multidimensionale sarà possibile superare le attuali criticità e garantire, anche nei territori più deboli, un welfare state sostenibile, inclusivo e capace di tutelare la dignità di ogni cittadino.

Ripartire dagli Uffici di Piano, attraverso una valorizzazione dell’importantissimo lavoro svolto sino ad ora e prevedendo una maggiore sinergia formativa potrà sicuramente segnare l’avvio di un percorso virtuoso attraverso il quale la co-progettazione potrà esprimere qualità, professionalità e soprattutto restituirà la dignità a moltissime persone, ricordandoci che tra essi ci sono anche i nostri genitori. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]

SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.

LA MANCATA CRESCITA DEL SUD EQUIVALE
A DUE PUNTI IN MENO DI PIL DELL’ITALIA

di DOMENICO MAZZA – La programmazione dei fondi Pnrr ha disposto l’utilizzo di risorse imponenti e strategiche per il Paese. Seppur con meno spettanze, rispetto a quante originariamente riservate, anche il Sud sta vedendo una mole non indifferente di fondi finalizzati a colmare il divario tra il nominato contesto e il resto della Nazione.

Le recenti ricerche avviate da autorevoli Istituti in materia economica, d’altronde, ci rimandano un quadro chiaro e inequivocabile: «Se il Sud avesse avuto negli ultimi 20 anni un tasso di crescita medio annuo di almeno 2 punti superiore, il Pil italiano sarebbe stato allineato a quello degli altri Paesi europei, invece che sistematicamente sotto».

Quanto detto a conferma che una ripresa strutturale dell’economia italiana può avvenire solo se il Sud cresce di più e in maniera sostenibile. Per centrare l’obiettivo, però, occorre una comprensione articolata e flessibile dei contesti geo-politici. Perché se l’Italia è un insieme di territori, simili ma non uguali, aggregati dalla forza unificante della lingua, il Sud è un mosaico composito e prezioso, unico e raro, di territori, di tradizioni e di storie in cui però poco si è fatto nella direzione di amalgamare gli ambiti per omogeneità territoriali e affinità economiche tra aree a interesse comune.

Sarebbe opportuno, quindi, porsi il problema di cosa necessiterebbe per un rilancio sistemico dei processi produttivi nell’estremità della Penisola. Chiaramente, un ragionamento del genere non può prescindere da un’analisi degli ambiti concorrenti a formare il Sud nel suo insieme. Se ci concentrassimo sull’area del Golfo di Taranto, non certo per partigianerie, ma per rispetto delle ottimali condizioni geografiche in riferimento al più ampio contesto euro-mediterraneo, apparirebbe lampante quanto tale ambito geo-politico sia ideale per essere candidabile a ospitare simultaneamente filiere logistiche, turistiche e agroalimentari. Al punto da risultare quello più predisposto e geograficamente più favorevole, per accogliere un vero e proprio ecosistema delle richiamate filiere.

Turismi e distretti agroalimentari di qualità: necessaria una narrazione diversa e lungimirante 

Lungo i 400km della baia jonica esistono già tre Distretti agroalimentari di qualità: Sibaritide, Metapontino e Salento jonico. Trovando le opportune sinergie fra i tre si potrebbero creare plusvalenze, riscrivendo una narrativa diversa e lungimirante per l’area in questione. Esistono già, e negli ultimi anni si sono sviluppati in maniera esponenziale, il Distretto turistico di Taranto e della valle d’Itria nonché quello del Salento. Non sarebbe affatto peregrino lavorare alacremente alla costituzione di un Distretto turistico dell’Arco Jonico calabrese.

Un nuovo sistema di attività e servizi integrato che amalgami le aree omogenee rivierasche e pedemontane afferenti ai contesti della Sibaritide e del Crotonese. Una struttura che, rafforzando i percorsi magnograeci, bizantini, e normanno-aragonesi caratterizzanti i due ambiti, costituisca una destinazione straordinaria caratterizzata dal marchio inconfondibilmente unico e caro al Prof. Filareto: la Mediterraneità jonico-silana.

Una nuova valorizzazione delle filiere, ordunque, per promuovere la riscoperta e, non per ultimo, un restyling delle funzioni economiche caratterizzanti l’Arco Jonico.

Una nuova concezione della mobilità partendo dall’efficientamento e collettamento degli Asset esistenti 

Naturalmente, per poter elevare l’appeal dell’offerta turistica collegata ai distretti agroalimentari di qualità, andranno messi a sistema gli Asset infrastrutturali esistenti e posizionati nel contesto della baia jonica (porti e aeroporti di Corigliano-Rossano, Taranto e Crotone). Andranno rammagliate le richiamate infrastrutture con un sistema ferro-stradale europeo e all’avanguardia. L’efficientamento del tronco ferroviario e un nuovo tracciato per la statale, che non potrà essere la semplicistica manciata di km tra Sibari e Corigliano-Rossano e tra Crotone e Catanzaro, sarebbe il minimo sindacale da cui partire. Bisognerà, invero, ricostruire la spina dorsale del sistema Sibari-Crotone: vero anello debole della mobilità nell’area. In questo processo di ricucitura, chiaramente, dovranno entrare di diritto le questioni legate ai porti, ai retroporti, alle aree industriali dismesse e alla Zes.

La descritta operazione, anche, al fine di declinare una nuova visione della logistica integrata che da Crotone al Metapontino ha nel cuore della Sibaritide la naturale area cerniera. Pensare, pertanto, alla creazione di un interporto nel baricentro sibarita significherebbe riscrivere una storia diversa anche per quei contesti industriali dismessi e per le portualità presenti nel bacino del golfo.

Avviare percorsi di crescita economica simultanea e integrata

Cogliendo, quindi, più opportunità economiche e accelerando i tempi di ottimizzazione delle priorità tra contesti ad affini interessi si favorirebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. La rinnovata percezione del territorio, pertanto, che deriverebbe da mirati investimenti, trasformerebbe settori e filiere largamente sottoutilizzate in vero e proprio valore aggiunto. In ossequio a quanto raccomandato dai principi macroeconomici, infatti, le capitalizzazioni effettuate nelle aree arretrate restano suscettibili di promuovere una crescita più elevata rispetto a quelle messe in pratica in ambiti più evoluti.

Sotto quest’aspetto, quindi, è conveniente che un’area come il golfo di Taranto decolli; a regime, infatti, disporrebbe di qualità tali da trainare il resto del sistema calabro-appulo-lucano ed in generale il Mezzogiorno. Così facendo, si individuerebbero i settori da cui partire per immaginare processi di economie circolari finalizzati a permettere, anche al territorio più isolato e marginale dell’intero Mezzogiorno (l’Arco Jonico sibarita e crotoniate), la possibilità di declinare nuove prospettive di sviluppo.

Sostenibilità, razionalizzazione, innovazione, management evolutivo devono essere i capisaldi a cui guardare con fiducia ed ottimismo, affinché si alzi forte il vento e la voce di un altro Sud. Ma, soprattutto, di un altro ambito jonico: quello che non subisce le scelte imposte dai centralismi e che, al contrario, indirizza, con intelligenza e cognizione di causa, un nuovo paradigma economico condiviso con le popolazioni locali. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

PNRR E OPERE PUBBLICHE, PER LA SVIMEZ
IL SUD IN RITARDO NELLA FASE ESECUTIVA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il Sud è in ritardo nell’avvio della fase esecutiva dei lavori del Pnrr. È quanto emerso nel nuovo numero di InformazioniSvimez “Pnrr Execution: le opere pubbliche di Comuni e Regioni” della Svimez, a meno di un anno e mezzo dalla scadenza del 2026, evidenziando come nei Comuni sono avanzati i lavori per asili e infrastrutture scolastiche, mentre nelle Regioni si registra un rallentamento delle opere, soprattutto per la sanità territoriale.

La Svimez nel documento ha ricordato come le risorse che il Pnrr destina alla realizzazione di lavori pubblici sono pari a 65 miliardi. La quota di risorse Pnrr per interventi infrastrutturali è del 54,2% nel Mezzogiorno (26,2 miliardi), di circa 6 punti percentuali superiore al dato del Centro-Nord (48,5%; 38,8 miliardi).

«Per questa tipologia di interventi – si legge – almeno in termini di stanziamenti, si raggiunge appieno la “quota Sud” del 40%. Proprio gli investimenti in opere pubbliche rappresentano l’ambito di intervento del Pnrr funzionale al riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali e nella quantità e qualità dei servizi».

La distribuzione delle risorse Pnrr che finanziano la realizzazione di opere pubbliche per soggetto attuatore rivela il coinvolgimento primario delle amministrazioni decentrate, soprattutto nel Mezzogiorno.

L’incidenza delle risorse a gestione dei Comuni per opere da realizzare nell’area è del 33,2% nel Mezzogiorno e del 30,5% al Centro-Nord. Anche dai valori pro capite risulta il maggior sforzo attuativo a carico dei Comuni del Mezzogiorno: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord). Il dato relativo alle amministrazioni regionali è del 15% nel Mezzogiorno e di circa il 12% al Centro-Nord in termini di incidenza di risorse complessive; valutate in pro capite le risorse a gestione delle regioni meridionali raggiungono 197 euro per cittadino (118 euro il dato del Centro-Nord).

A fine dicembre 2024, i Comuni meridionali hanno avviato lavori per 5,6 miliardi, il 64% del valore complessivo degli investimenti a loro titolarità; per i Comuni del Centro-Nord il dato è di 9,7 miliardi, l’82,3% delle risorse Pnrr. Alla stessa data, per le amministrazioni regionali meridionali risultano avviati lavori per 1,9 miliardi di euro, il 50% del valore complessivo degli investimenti Pnrr a loro titolarità. Il valore dei progetti avviati per quelle del Centro-Nord si attesta a 3,5 miliardi, quasi il 76% delle risorse Pnrr.

Se da un lato emergono ritardi dei Comuni del Sud per quota di avviamento dei lavori, i dati in termini di risorse pro capite ribaltano la lettura con livelli di spesa avviata significativamente superiori: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord).  Va inoltre rilevato che i ritardi nell’apertura dei cantieri riflettono le difficoltà incontrate dalle amministrazioni nella fase progettuale, in quella di accesso competitivo alle risorse, e nell’espletamento delle procedure ammnistrative preliminari all’apertura dei cantieri.

Per le linee di investimento per asili nido e infrastrutture scolastiche, le percentuali di mancato avviamento lavori a gestione dei Comuni del Sud sono significativamente più contenute e si riduce la forbice sui tempi di apertura dei cantieri rispetto al resto del Paese. L’investimento “Costruzione di nuove scuole mediante sostituzione di edifici”, ricompresa nella missione M2C3, registra un valore di progetti non avviati del 9% (2% il dato medio dei Comuni del Centro-Nord). In aggregato, per la componente M4C1 dedicata al potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione, il valore dei progetti avviati è di quasi l’87% (94% il dato del Centro-Nord), per effetto di quote di progetti non in fase esecutiva comprese tra l’8% (Piano estensione del tempo pieno) e il 14% (Potenziamento infrastrutture per lo sport a scuola) delle diverse linee di investimento.

Ma perché le Regioni sono in ritardo rispetto ai Comuni? Per la Svimez è, in parte, a causa della sovrapposizione con gli impegni legati all’implementazione dei programmi della politica di coesione europea.

Il Pnrr ha individuato nella sanità l’ambito di intervento prioritario delle amministrazioni regionali, soprattutto per le misure orientate al rafforzamento della sanità di prossimità, adottando criteri perequativi di allocazione territoriale delle risorse per orientare gli investimenti verso le regioni a maggior fabbisogno. È proprio negli investimenti in sanità territoriale che le Regioni del Sud registrano i ritardi più preoccupanti.

La Svimez, di fronte a questo quadro, pone l’attenzione alla prossima rimodulazione del fondi del Pnrr, ricordando come la «precedente riprogrammazione ha già sottratto investimenti destinati al riequilibrio territoriale infrastrutturale, indirizzando i fondi verso gli incentivi alle imprese di più rapida spendibilità. Una scelta finalizzata a semplificare e accelerare l’attuazione del Piano che però ne ha indebolito le finalità di perequazione infrastrutturale territoriale».

Per questo «replicare quella scelta per motivi di efficienza rischia di penalizzare ulteriormente le finalità di perequazione territoriale dele Pnrr, soprattutto in ambiti fondamentali per la riduzione dei divari di cittadinanza, a partire dalla sanità. Se i fondi per le infrastrutture pubbliche venissero ulteriormente ridotti, il Mezzogiorno vedrebbe diminuire le opportunità di sviluppo e la possibilità di colmare i divari storici nei servizi essenziali, dalla sanità ai trasporti».

«La messa in sicurezza degli interventi orientati a ridurre i gap territoriali nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali a titolarità degli enti locali – si legge – dovrebbe, dunque, rappresentare una priorità in vista di nuove possibili nuove riprogrammazioni per: preservare le finalità di coesione territoriale del Pnrr; valorizzare l’inedito sforzo progettuale, attuativo e di spesa realizzato delle amministrazioni, soprattutto quelle comunali; non disperdere il patrimonio di capacità ammnistrativa maturato con l’occasione del Pnrr». (ams)

 

Stumpo (PD): Minasi di preoccupa del Ponte ma fa spallucce agli spicci al Sud

Nico Stumpo, dirigente nazionale del Partito Democratico, ha evidenziato come siano «risibili e poco credibili appaiono le critiche della senatrice leghista, Tilde Minasi, al ricorso al Tar mosso dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria e dal Comune di Villa San Giovanni contro l’approvazione al Ponte sullo Stretto espressa da parte della Commissione per la Valutazione d’impatto ambientale».

«Risibili – ha aggiunto – perché non si può addurre un problema di costi ad un’azione giudiziaria, peraltro recepita dagli stessi giudici amministrativi del Lazio, quindi non solo legittima, ma assolutamente opportuna, di fronte al mastodontico costo totale che il progetto ha avuto e avrà sul territorio. Poco credibili perché arrivano da una parlamentare che, evidentemente, antepone gli interessi di partito a quelli dei cittadini calabresi e reggini».

Secondo Stumpo, infatti, «è davvero difficile immaginare quanto la senatrice sottovaluti la legittimità e l’opportunità di un ricorso non solo necessario, ma che lo stesso Tar ha deciso di accogliere per valutare nel merito decisioni che non tengono conto di ben 60 prescrizioni sull’impatto che l’opera avrebbe in uno degli scenari più incantevoli del pianeta e, comunque, ad altissimo rischio sismico».

«La senatrice Minasi – ha sostenuto Stumpo – si preoccupa di poche risorse servite ad intraprendere un’azione giudiziaria legittima, opportuna e giustificata, ma fa spallucce quando si tratta di calcolare la mole di miliardi di euro sottratta alla Calabria da un Governo e da una maggioranza che promuovono lo scempio dell’Autonomia differenziata, sottraggono risorse fondamentali per lo sviluppo del Mezzogiorno destinandole al fantomatico progetto del ponte sullo Stretto, escludono la regione dal sistema di Alta velocità, procedono coi tagli indiscriminati ai trasferimenti statali agli enti locali, continuano a sottrarre risorse su ambiti essenziali come quello della sanità e della pubblica istruzione».

«Di fronte a questioni così rilevanti per la vita dei cittadini – ha proseguito Stumpo – un rappresentante istituzionale che abbia un minimo di responsabilità, assumerebbe atteggiamenti sicuramente più costruttivi e volti a sostenere le reali esigenze dei territori. In particolare proverebbe, laddove non arrivasse il suo partito, a comprendere le motivazioni che stanno dietro le preoccupazioni delle amministrazioni di Reggio e Villa San Giovanni».

«Purtroppo – ha concluso Nico Stumpo – la lezione che arriva dalla senatrice Minasi è avvilente perché si muove soltanto per compiacere i desiderata dei ras di partito. Quando ciò avviene è, indubbiamente, una sconfitta per la politica con la P maiuscola, quella al servizio della gente, delle esigenze delle comunità e dei territori. La Lega, in questo senso, ha ben altri territori da servire e la Minasi, evidentemente, ne è complice nella forma e nella sostanza». (rrm)

ZES UNICA, LA VIA MAESTRA PER UN VERO
RILANCIO INDUSTRIALE DEL MERIDIONE

di ERCOLE INCALZA – Riporto di seguito un comunicato stampa, apparso su vari giornali, relativo al successo che, proprio in questi giorni, sta avendo lo strumento della Zes Unica: «Sette miliardi quelli relativi al solo 2024, precisa la Presidenza del Consiglio; una concessione del Credito di imposta al 100 per 100 della quota disponibile. Il massimo del tiraggio possibile cioè chi ha ottenuto l’autorizzazione unica ad investire nel Mezzogiorno ha potuto contare fino al 60% di credito di imposta come era stato garantito dalla norma varata dal Governo e di cui l’ex Ministro Fitto era stato l’artefice principale».

Due anni fa in una delle mie note avevo denunciato apertamente il fallimento delle ZES e avevo anche motivato la assurdità dello strumento e la anomala articolazione dello stesso sul territorio. Le mie critiche erano legate essenzialmente anche alla assenza di risultati concreti; infatti nel 2021 precisavo: «Il provvedimento istitutivo delle Zes è del giugno 2017, cioè è stato concepito più di cinque anni fa e finora non ha prodotto nulla, anzi mi scuso, ha prodotto una serie di altri provvedimenti che riporto di seguito utili solo a qualche membro delle Istituzioni per annunciarne l’esistenza e per assicurare l’immediato avvio operativo. Riporto di seguito solo alcuni dei provvedimenti: Il Decreto legge 20 giugno 2017 n. 91, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2017 n. 123  e successive modificazioni, nell’ambito degli interventi urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno, ha previsto e disciplinato la possibilità di istituzione delle Zone Economiche Speciali (Zes) all’interno delle quali le imprese possono beneficiare di agevolazioni fiscali e di semplificazioni amministrative; Con il Dpcm 25 gennaio 2018 è stato adottato il Regolamento recante l’istituzione di Zone Economiche Speciali (Zes).

Ebbene, dopo la serie di assicurazioni e di impegni presi anche dai Presidenti della Regione Sicilia, della Regione Campania e della Regione Puglia, oggi apprendiamo che un apposito Decreto del Presidente del Consiglio (Dpcm), trasmesso dal Ministro del Sud alla Presidenza per ottenere il previsto parere, attua quanto già previsto dal Decreto sul Pnrr dello scorso mese di aprile e definisce i requisiti delle Zes regionali e prevede una procedura straordinaria di revisione del perimetro delle aree individuate. Sarebbe stato invece utile effettuare una attenta analisi dello strumento istituito cinque anni fa e cercare intanto di capirne, innanzitutto, il significato e quindi soffermarsi sulle motivazioni per cui sono state costituite e cioè: dovevano essere zone geograficamente delimitate e situate entro i confini dello Stato, costituite anche da aree non territorialmente adiacenti purché presentassero un nesso economico funzionale e comprendessero almeno un’area portuale con le caratteristiche stabilite dagli orientamenti dell’Ue per lo sviluppo delle Reti Ten-T; dovevano avere l’obiettivo di attrarre grandi investimenti; dovevano avere l’obiettivo di favorire la crescita delle imprese già operative o la nascita di nuove realtà industriali nelle aree portuali e retroportuali; dovevano avere l’obiettivo di implementare le piattaforme logistiche, collegate anche da intermodalità ferroviaria.

L’allora Commissario della Zes relativa alle realtà della Campania e della Basilicata Giosy Romano difese l’operato dei vari Commissari ricordando che nella ZES da lui diretta si era riusciti, a differenza delle altre Zes, a far partire iniziative del valore di 30 – 40 milioni di euro. Io precisai subito che nei miei vari interventi non avevo mai messo in dubbio il suo operato e quello dei suoi colleghi, un operato che definii encomiabile ma, sempre due anni fa, precisai che erano poco difendibili due caratteristiche dello strumento: La limitata disponibilità delle risorse (appena 600 milioni di euro); L’assenza di una organicità dell’intero processo, una organicità che sarebbe stato possibile raggiungere solo con una Zes unica.

Oggi l’avvocato Giosy Romano, coordinatore della Struttura di missione della Zes Unica, ha  dichiarato: «Sono convinto che la semplificazione burocratica prevista per la ZES Unica debba essere comunicata costantemente al sistema delle imprese. Abbiamo in programma un road show per i prossimi mesi in giro per l’Italia per raccontare questa opportunità che accresce in modo esponenziale la convenienza ad investire nel Mezzogiorno. Per la sola Campania uno studio condotto da Ambrosetti ha ipotizzato un rimbalzo pari a 2,5 punti percentuali del Pil e forse anche oltre e questo conferma che tipo di percorso si sta delineando nell’attuazione della Legge sulla Zes unica. Siamo ad una rivoluzione nella capacità di attrarre investimenti senza precedenti».

Quindi dal 2017 al 2023, cioè fino alla scelta dell’allora Ministro Fitto e del Parlamento di varare la Legge sulla ZES Unica, avevamo perso, come Paese, una grande occasione: avevamo praticamente speso praticamente nulla e, invece, in meno di un anno si è riusciti ad attivare un volano di risorse di 7 miliardi di euro e come precisava Giosy Romano si è dato vita ad una possibile crescita di 2,5 punti percentuali del Pil.

Forse quattro Governi, quelli di Gentiloni, Conte 1, Conte 2 e Draghi dovrebbero sentirsi responsabili di questa perdita grave per l’intero Mezzogiorno; una perdita causata da un misurabile fallimento di una norma concepita e portata avanti in sette anni senza produrre nulla. Eppure, indipendentemente dal fallimento delle 8 Zes nel Mezzogiorno non possiamo non ricordare le gratuite dichiarazioni ed impegni assunti, sempre dai Governi prima richiamati, per il Mezzogiorno; addirittura nel 2017 fu varata la Legge 18/2017 con cui si disponeva «che la quota delle risorse ordinarie delle spese in conto capitale a favore delle otto Regioni del Mezzogiorno non sia inferiore al 34% del totale nazionale». Dal 2018 al 2022 la spesa per il Sud non aveva superato il 6%.

Bisogna ammetterlo la Zes Unica è il primo segnale di cambiamento concreto del Governo nei confronti del Mezzogiorno. (ei)

IL SUD UN FUTURO CE L’HA, MA BISOGNA
CREARE E GARANTIRE I DIRITTI ESSENZIALI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAEsistono dei diritti costituzionalmente garantiti che però hanno realizzazione diversa nelle varie parti del Paese. In particolare il diritto al lavoro, a una buona formazione, alla salute, alla mobilità.     

Le 100.000 persone che ogni anno si trasferiscono dal Sud al Nord, con un costo per le regioni di provenienza di oltre 20 miliardi, considerato che portare una persona a livello di scuola media superiore costa già 200.000 €, e che la maggior parte di coloro che si trasferiscono hanno invece una laurea, rappresentano una sconfitta per il Paese. 

Tale costo, cosiddetto di “allevamento”, viene utilizzato dalle regioni di destinazioni, alcune volte dal Paesi esteri, ogni qual volta tale capitale umano non viene valorizzato nelle stesse realtà nelle quali si è formato. 

Ed è inutile strombazzare successi ed aumenti di occupazione senza tener conto dei dati macroeconomici che riguardano tutto il Mezzogiorno. Una realtà che, se fosse una nazione dell’Unione Europea a se stante, avrebbe nella graduatoria dei Paesi  europei una dimensione demografica che la posizionerebbe tra i primi  dieci. Prima di tanti Paesi importanti, come per esempio l’Olanda. E che con i suoi poco meno di venti milioni di abitanti ha un numero di occupati, compresi i sommersi, che si avvicina ai sei milioni e quattrocentomila. Lontano dal rapporto uno a due delle realtà a sviluppo compiuto.

E poiché è noto che il sommerso nella realtà poco sviluppate ha una dimensione più ampia di quanto non l’abbia nella realtà a sviluppo compiuto, per un effetto di smarcamento dovuto alla mancanza di lavoro, se le possibilità alternative non sono numerose o addirittura inesistenti c’è più facilità che chi ha bisogno di lavorare e non vuole spostarsi, accetti un lavoro a qualunque condizione. 

Peraltro, tale evidenza emerge chiaramente dal costo del lavoro più basso, pur in presenza di contratti di lavoro collettivi simili e in assenza di gabbie salariali. 

Fin quando tale gap di mancanza di posti di lavoro non sarà colmato sarà impossibile frenare quel flusso dovuto ad un modello di sviluppo che continua a creare posti di lavoro nelle realtà nelle quali il mercato è saturo e si manifestano tutte le difficoltà a trovare capitale umano formato. 

Ma le persone non si spostano soltanto alla ricerca di un’occupazione che consenta di immaginare un progetto di vita. E spesso non sono solo i giovani che si trasferiscono perché dietro loro alcune volte, sempre più spesso, le famiglie di origine sono tentate di  seguirli per fornire un aiuto nella tenuta dei figli, considerato che in genere nella coppia si cerca di lavorare entrambi, anche perché è l’unico modo per avere un reddito minimo di sussistenza. 

Peraltro l’altro diritto negato o meglio non garantito adeguatamente è quello alla salute. Per cui i cosiddetti viaggi della speranza continuano ad aumentare alimentando il sistema del Nord che ormai si è organizzato per supportare e supplire alle carenze del sistema sanitario meridionale, che malgrado i tanti interventi effettuati anche a livello centrale, vedasi il commissariamento della sanità calabrese, non riesce a fornire un livello di servizi adeguati ad un paese civile e in ogni caso paragonabili a quelli che si possono avere disponibili nelle aree settentrionali. 

E anche se non mancano eccellenze sanitarie riconosciute universalmente, il sistema complessivo denuncia carenze non più tollerabili, dovute ad una carenza di risorse che riguarda tutto il Paese, ma che si manifesta maggiormente nelle aree meridionali.  

Un altro diritto fondamentale negato è quello alla formazione. Le carenze che si registrano nei sistemi formativi meridionali hanno portato a tassi di dispersione scolastica non degni di un paese civile, soprattutto in alcune aree periferiche delle grandi città meridionali, che arrivano ad avere percentuali vicine al 30%. 

Il danno della perdita di questi ragazzi, che spesso non completano nemmeno le scuole elementari è inestimabile. 

Infatti un primo elemento riguarda la perdita di un capitale umano che potrebbe, se ben formato, fornire anche eccellenze importanti che in questo modo vanno sprecate. Un secondo aspetto da non trascurare è l’incidenza che una base elettorale non adeguatamente acculturata può rappresentare nella scelta della classe dirigente che viene eletta. Tali gruppi non adeguatamente formati rappresentano un pericolo per la democrazia, perché facilmente possono essere manipolati ed indirizzati, vista la loro mancanza di consapevolezza civica. 

La mancanza di tempo pieno a scuola, poi diventa un ulteriore elemento che porta a livelli di istruzione non competitivi. 

Un ultimo diritto inalienabile e che è alla base di ogni sviluppo economico e quello alla mobilità. Diritto negato come si vede dai tentativi goffi di superarli con treni della speranza e delle feste, organizzati nei periodi natalizi o con sconti sulle tratte aeree per raggiungere le parti più isolate dello stivale e delle Isole. 

Purtroppo l’inesistenza della concorrenza tra aereo e ferrovia in alcune zone porta ad un incremento di costi delle tratte insopportabile, che diventa molto più evidente nei periodi in cui il ritorno a casa di molti emigranti porta le compagnie aeree a seguire la legge della domanda dell’offerta, che fa incrementare il costo del volo. 

L’insieme di questa mancanza di diritti porta la gente a pensare che le realtà meridionali siano senza futuro e che il detto per cui per poter avere successo nella vita bisogna andarsene trova una conferma nel diverso approccio e comportamento delle istituzioni nei confronti del Sud.

Tale convinzione diventa ulteriore elemento di impoverimento perché se ormai in tanti cominciano a non credere che esista un futuro nelle realtà di origine, la conseguenza non potrà che essere lo spopolamento e la desertificazione.

Cambiare tale convinzione e proporre un paradigma diverso necessita  di molte conferme che ancora la gente non vede. 

Ma tale cambiamento è indispensabile non soltanto per le aree meridionali ma per tutto il Paese, che ha bisogno di mettere a regime una realtà periferica, che necessita di una seconda locomotiva, che faccia aumentare i tassi di sviluppo insufficienti per assicurare quel welfare al  quale siamo abituati o in alcuni casi che si desidera, e infine anche che eviti l’affollamento di alcune aree che non può portare tanto danno come si vede. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

ASSISTENZA SANITARIA, PER COLPA DELLA
SPESA STORICA IL SUD È SEMPRE IN AGONIA

di PIETRO MASSIMO BUSETTANel 2022, ultimi dati disponibili, i posti residenziali per l’assistenza alle persone che hanno più di 65 anni, delle strutture territoriali, per 1000 residenti anziani sono a Bolzano 42,6 a Trento 36,4 in Italia in media 15,2, in Basilicata 1,4  e in Sicilia 1,2, ultima in classifica.

Anche i pazienti in età pediatrica beneficiano di servizi di assistenza territoriale differenziati su base regionale. Numerosi studi mostrano che i bambini ricoverati frequentemente per asma tendono ad avere meno visite programmate a livello di assistenza territoriale e una minore aderenza alla terapia farmacologica.

Queste evidenze suggeriscono che una carente organizzazione dell’assistenza territoriale e una scarsa accessibilità alle cure possono essere responsabili di un aumentato ricorso alle cure ospedaliere. Su queste basi concettuali, il tasso di ospedalizzazione per asma può essere utilizzato per misurare la qualità dei servizi territoriali in termini di prevenzione, accesso alle cure e trattamento, presupponendo che, al migliorare di queste, diminuisca il ricorso al ricovero in ospedale.

Un argomento analogo vale per la gastroenterite, una malattia comune nei bambini, nei confronti della quale una tempestiva ed efficace cura a livello territoriale pare essere associata a una riduzione del rischio di ospedalizzazione.

E i dati seguono: il tasso di dimissione ospedaliere, per 1000 pazienti in età pediatrica 0-17 anni nel 2021, sempre ultimi dati disponibili, per affetti da gastroenterite vanno dallo 0,32 della Toscana al 2,07 dell’Abruzzo, evidenziando come la qualità dei servizi territoriali anche per i bambini è molto più scadente al Sud come al Nord. 

Questi dati potete trovarli nell’ultimo rapporto Svimez, che dedica un lungo capitolo alla sanità, con una serie di informazioni  a livello regionale che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il diritto alla salute è diverso a secondo da dove nasci e va diminuendo man mano mano che scendi lo stivale. Tutto ciò porta come è evidente ed è facile immaginare ad una speranza di vita diversa. 

Infatti nell’intera Penisola hanno l’attesa di vita maggiore le province di Trento (84,2 anni) e Bolzano (83,8 anni). Seguono Veneto e Lombardia (83,6 anni), Toscana e Umbria (83,4 anni), Emilia-Romagna e Marche (83,2 anni), secondo l’analisi Eurostat hanno un’aspettativa di vita di 83 anni: Valle d’Aosta, Liguria e Sardegna. Segue con un piccolo scostamento il Lazio, dove l’aspettativa è di 82,9 anni. Mentre sono in fondo alla classifica  l’Abruzzo (82,8 anni), Basilicata (82,7 anni), Puglia (82,2), Calabria (81,7 anni) e Sicilia (81,3 anni). 

Cioè se hai la fortuna di nascere in provincia di Trento in media vivrai  tre anni  in più che se nasci in Sicilia.  Per cui se qualcuno definisce lo Stato italiano ladro di vita dei meridionali nessuno potrà dire che non è vero. Certo ci sarà sempre chi dirà che la responsabilità di tale situazione è di coloro che gestiscono le strutture sanitarie, nella maggior parte dei casi individuati dalla politica. Riportando tutto alla colpa degli stessi meridionali che, come nella vulgata, confermano di essere incapaci, con una classe dirigente e politica corrotta e non adeguata. 

Poi si scopre che il commissariamento di 10 anni della sanità calabra, effettuata dal Governo centrale, non ha portato a grandi miglioramenti e che alla fine il lavoro di recupero lo sta svolgendo Roberto  Occhiuto, Presidente della Regione e calabrese Doc. 

E che i commissari scelti, alcuni emiliano-romagnoli, quindi senza il peccato originale di essere meridionali, non hanno migliorato per nulla la situazione. 

Forse se si smettesse di utilizzare anche in questo campo la spesa storica e si dessero meno risorse alla sanità privata anche di eccellenza, così presente nelle aree settentrionali, si eviterebbero non solo i tanti viaggi della speranza ma che le Regioni del Mezzogiorno li finanziassero, pagando i costi delle cure dei pazienti emigranti.  

Purtroppo il meccanismo della colonia interna, così come funziona nella formazione, visto che le università del Nord continuano a reggersi sulle rette, private o statali, dei ragazzi meridionali, nel ritenere il Sud un bacino dal quale attingere i giovani lavoratori, dal quale trasportare l’energia prodotta dalle raffinerie, dai rigassificatori o adesso dagli impianti solari o eolici, è perfetto anche nell’ambito sanitario. 

E sarà complicato convincere chi è abituato ad un percorso di sfruttamento a farne a meno. Anche gli inglesi che se ne andarono dall’India con un percorso di non violenza promossa dal Mahatma Gandhi furono cacciati con una lunga lotta politica che ha visto l’adozione di diverse strategie tra cui la disobbedienza civile non violenta, ma anche proteste  volente, divisioni interne e pressioni internazionali.

Ovviamente la situazione del Mezzogiorno non è paragonabile, ma non vi è dubbio che se non vi è una presa di coscienza e una consapevolezza diversa il meccanismo rimarrà quello che è sempre stato. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud –L’Altravoce dell’Italia]